sabato 30 aprile 2016

Filosofia 1

Filosofia 1
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1A - U1 + U2 + U4
1B - U5
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1A - U1
Presofisti

ERACLITO - LEZIONE 4
Dal principio materiale al principio immateriale

4.1 - Le prime fasi della storia del pensiero si concentrano sul problema del principio di tutte le cose (in greco arkè) e sulla natura. Questo problema viene affrontato in due prospettive, una di tipo MONISTICO, ossia che si riferisce a un unico principio, e una di tipo PLURALISTICO, ossia riferita a più elementi. Inoltre possiamo distinguere le scuole di pensiero in base alla natura stessa del principio, materiale, ossia concreto, contingente, o immateriale.
La filosofia eraclitea emerge nel panorama delle filosofie naturalistiche per la sua complessità e originalità, tanto da risultare forse la più longeva e presente come fonte d’ispirazione in diversi autori del pensiero moderno e contemporaneo. Tre sono infatti i versanti della ricerca eraclitea: la NATURA come oggetto della ricerca, il METODO per conoscerla e comprenderla ed il LINGUAGGIO  per esprimerne gli aspetti.

4.2 - La natura non è per Eraclito un insieme disordinato e casuale di elementi ma una TOTALITA’ governata da leggi che ne regolano gli eventi. All’origine di tutto c’è il FUOCO, che origina il calore e il vapore e che, mediante la RAREFAZIONE e la CONDENSAZIONE, genera tutte le cose, dando vita a una serie infinita di generazioni e di combustioni. Anche l’anima umana è un fuoco, che si alimenta attraverso la respirazione e si esprime coi sensi. Da questo punto Eraclito si discosta dagli altri naturalisti.
Il fuoco infatti, nella filosofia eraclitea, non è un principio di conservazione e di unificazione, ma anzi, assolve al ruolo di disgregatore e di trasformatore. Eraclito descrive infatti una natura in continua trasformazione, dove le cose non sono mai uguali a prima. Dal punto di vista fisico il fuoco è l’elemento che rappresenta il movimento, la forza, l’energia delle cose, che per Eraclito sono più importanti dell’essere stesso. La natura infatt non è statica ma in continuo cambiamento sotto i nostri occhi, dando luogo a una molteplicità di forme e di fenomeni. Dal punto di vista logico il fuoco rappresenta la causa efficiente di tutte le cose, ed è un principio immutabile, perchè mentre le cose cambiano, il loro divenire resta sempre uguale ed eterno. Ecco perché se da un lato il fuoco rappresenta la precarietà e l’instabilità, dal punto di vista logico il fuoco rappresenta l’infinito, poiché simboleggia l’eterno cambiamento della natura stessa. La natura è fatta di elementi diversi. Se così non fosse non avremmo mai un mutamento ma una realtà sempre uguale. I continui processi di trasformazione delle cose danno luogo invece a elementi sempre nuovi e diversi dalle cose di prima, per esempio un cubetto di ghiaccio lasciato al sole si scioglie e l’acqua che è tornata allo stato liquido poi evapora per arrivare allo stato gassoso, continuando il ciclo in forme sempre diverse e sempre nuove.Questo stato arriva però a generare dei limiti estremi che costituiscono dei contrasti insanabili trai fenomeni, cioé i cosiddetti TERMINI CONTRARI: ad esempio, se adesso è giorno non può essere notte, se un uomo è vecchio non è più giovane, e così via. Tra gli OPPOSTI  c’è una lotta continua e un conflitto incessante ma anche una reciproca attrazione, poiché un termine non potrebbe sussitere senza il suo contrario. Si tratta di una lotta che non si conclude mai e non tende mai all’armonia e alla stabilità - che annullerebbero entrambi i termini - quanto piuttosto alla CONSERVAZIONE. Per esempio se io ho fame mangio, ma la sazietà non cancella il significato della fame, che viene conservato anche dopo l’espletamento del bisogno. 
IL DIVENIRE COMPORTA DUNQUE UNA CONTINUA TENSIONE TRA GLI OPPOSTI E TRA LE COSE REGNA UN’ARMONIA DINAMICA.

4.3 - L’unità del cosmo è governata da un ordine razionale che Eraclito chiama LOGOS (in greco: parola, discorso). Se per Eraclito la natura è un insieme precario e instabile, soggetto alla molteplicità e al divenire. esiste una legge che governa tutte le cose. Ma il logos non è semplicemente una legge, un ordine e un principio, è esso stesso il metodo che dobbiamo usare per unificare i concetti delle cose tra di loro. Se si spezzasse questo legame si perderebbe il vero significato delle cose e precipiteremo nell’illusione e nel sogno. Il logos ha nella logica eraclitea lo stesso valore del fuoco nella fisica. Così come il fuoco, disgregando, genera e rinnova, allo stesso modo il logos permette di comprendere i concetti meno chiari ed evidenti, ricomponendoli e trasformandoli. Si deve notare come in greco il termine logos assuma il significato sia di parola sia di discorso, proprio per il fatto che esso rappresenta fin dai tempi antichi non solo un singolo elemento ma il modo di collegarlo agli altri elementi. L’opposizione e il conflitto non sono elementi maligni, in quanto ogni elemento tende naturalmente al suo opposto e nulla sarebbe senza esso. Di qui la funzione metodologica del logos come sintesi degli opposti. Proprio da questa concezione Eraclito muove una durissima reprimenda contro i suoi concittadini, avvezzi alle lusinghe delle apparenze e incapaci di andare oltre le cose. Essi credono di essere svegli ma per essi non esiste differenza tra la realtà e il sogno, e sono abituati a dare lo stesso valore alle cose vere come agli oggetti illusori e irrazionali. Ecco perché Eraclito li accusa di essere invece dormienti: gli uomini vedono le cose da un solo lato, non cercano di conoscerne i legami, non vanno mai oltre ciò che a loro appare, sopratutto non si accorgono della legge che governa ogni cosa e dell’intrinseca connessione che ricompone gli opposti. Si tratta di un tentativo vano:  non ci sarà mai una riconciliazione tra gli opposti. Il metodo eracliteo è un metodo DIALETTICO (dal greco: connessione, comunicazione) aperto, a differenza di metodi simili usati da altri filosofi che giungono invece a una soluzione definitiva, aperto in quanto non esiste una riconciliazione e una sintesi. Gli uomini devono accettare la frammentarietà dell’essere e della natura, imparando a scoprirne le connessioni. Nella filosofia eraclitea per la prima volta la stessa anima umana appare in tutta la sua ambivalenza, divisa cioè tra i sentimenti opposti come amore e odio, piacere e dolore. L’uomo deve quindi imparare ad accettarsi e ad accettare la natura. Eraclito invita l’uomo a compiere un percorso di consapevolezza, che lo liberi dalle illusioni e gli mostri la realtà così come è realmente. Si tratta di un invito a liberasi del pregiudizio: in tal modo il filosofo si rivolge all’intera comunità allo scopo di rinnovare la vera comunicazione.

4.4 - Oltre agli aspetti già evidenziati (etico, razionale, logico, fisico) il logos eracliteo ha anche un significato linguistico come DISCORSO: è nel discorso, unione delle parole, che si rivela la molteplicità del reale e sopratutto la sua mutevolezza. Quella di Eraclito è una SEMANTICA NOMINALE: ogni cosa viene chiamata col suo nome cioè ha un senso UNIVOCO (per esempio è diverso dire “l’uomo che pensa” dal dire “l’uomo pensante”). Questa univocità è tipica della logica antica, molto diversa da quella moderna, in cui usiamo di norma sostantivi, aggettivi e verbi per definire azioni e cose. Nella semantica nominale i nomi indicano esattamente le cose a cui sono riferiti: è una convenzione, una soluzione semplice, che non contiene l’essenza della cosa, ma proprio quella cosa a cui ci riferiamo. Per questo motivo Eraclito insiste molto sui contrari, porprio perché una cosa NON è un’altra. Eraclito paragona il discorso a una linea retta, ai cui estremi ci sono i contrari, mentre al centro ci sono le cose. Tutte queste componenti cambiano, così come cambiano le cose della natura e di conseguenza cambiano le parole, ma non cambia la linea del discorso che le unifica, come non cambia la natura dove accadono le cose. All’interno di questa linea i nomi delle cose perdono la loro univocità e diventano EQUIVOCI. Questo significa che se vogliamo COMPRENDERE il senso di un discorso non possiamo isolare dal contesto del discorso i nomi delle cose, che perderebbero valore e risulterebbero allora contraddittori (per esempio: stamattina era caldo e ora è freddo). L’unico modo di comprendere la contraddizione è quello di non staccare le parti del discorso. Questa  è una dipendenza razionale, propria dell’uomo, che ha facoltà di mettere insieme le opposizioni nel ragionamento. 
Per questo motivo Eraclito è il primo vero filosofo del soggetto.

PARMENIDE - LEZIONE 5
Essere, pensiero e linguaggio.
Parmenide e la tesi dell’isomorfismo tra pensiero e realtà.

5.1 - In Eraclito il problema del principio assume un carattere immateriale, espresso nel logos o discorso, quale unifcatore delle parole soggette a eterno mutamento. In Parmenide si cercano le condizioni specifiche che portano un discorso ad essere vero. Qui entriamo dunque nel mondo della riflessione o della speculazione (da specus, specchio): parlare di una cosa significa conoscerla, conoscerla significa poterla pensare. Non esiste un contatto diretto, immediato, con la natura: a fare da tramite tra l’uomo che conosce e la natura sono tre strumenti, il PENSIERO, il LINGUAGGIO e i SENSI. Tra  di essi il più complesso è il linguaggio, poiché si rivolge sia all’uomo in quanto soggetto che pensa sia a ciò che viene pensato, quindi agli oggetti. Il problema centrale della filosofia parmenidea è quello della verità della realtà, cioè dell’ESSERE. Per Parmenide è vero ciò che esiste per il soggetto. Ma un nostro pensiero o una nostra sensazione non possono essere oggettivati poiché resta dentro di noi. Per poter essere oggettivati e conoscibili occorre esprimerli in un discorso (per esempio: ho caldo, oppure il fiore profuma) con un giudizio. Parmenide intuisce che il problema della verità deve essere affrontato solo dal punto di vista del linguaggio. Questo aspetto implica che ci deve essere un collegamento tra essere, pensiero e discorso vero. Ora, la condizione di verità di un discorso è per Parmenide la coincidenza di realtà e di pensiero: realtà e pensiero DEVONO AVERE LA STESSA FORMA. Questo criterio è noto come TESI DELL’ISOMORFISMO e si esprime nell’equazione:
x = f (a, R)
in cui l’incognita x è la realtà che corrisponde (f) a un pensiero o a un segno linguistico (a) posti in relazione (R). Questa equazione ci consente di non sapere il significato di un termine in sé stesso limitandosi alla sola relazione di corrispondenza oggettiva con l’altro termine. Ma come si fa a sapere se questa relazione è adeguata e quindi vera? Parmenide dice che è vero e quindi conoscibile solo ciò che può essere pensato, in quanto ciò che non esiste non può essere pensato. Possiamo anche pensare qualcosa di irreale e di fantastico, dice Parmenide, ma sempre sulla base di qualcosa che esiste veramente. Ora questa tesi porta a una conseguenza paradossale: se realtà e pensiero hanno la stessa struttura logica, si potrebbe anche fare a meno dell’esperienza usando il discorso come criterio di verità. La realtà (l’essere) per essere compresa deve essere pensata. In questo modo Parmenide fa derivare l’ONTOLOGIA - cioè la nozione dell’essere - dalla LOGICA - cioè il discorso sull’essere. L’essere è logicamente l’insieme delle verità correlate ma non ci permette di cogliere la realtà in un senso assoluto, solo come una rappresentazione o immagine delle cose: se tra questi termini sussiste una correlazione logica, ossia se c’è una coerenza, allora il discorso è vero. Occorre precisare che Parmenide non si pone il problema della garanzia di questa corrispondenza tra i termini a, ossia immagini rappresentate, segni linguistici e realtà. Coerente col principio della logica arcaica secondo cui i nomi sono le cose stesse, come già Eraclito, Parmenide non rivela se c’è qualcuno che crea questa relazione IR) tra l’essere (x) e (a) cioè pensiero e linguaggio: le cose ci parlano e contengono il linguaggio. Questa identitò di nomi e cose mette bene in evidenza il vero ruolo del linguaggio non come semplice mezzo di espressione mediante segni o simboli, ma come il modo in cui l’essere si presenta, l’immagine che ci viene data della realtà. 
Attraverso le parole del discorso l’essere si svela e si rivela. Per Parmenide il linguaggio è dunque più affidabile dell’esperienza, poiché l’esperienza è mutevole e questa incostanza rende impossibile la comprensione dell’essere. 

5.2 - L’ontologia parmenidea si divide in due parti: un’ontologia fondamentale, volta a individuare il modo in cui l’essere viene conosciuto (GNOSEOLOGIA) ed espresso (TEORIA DEL LINGUAGGIO), e un’ontologia descrittiva, volta a individuare le caratteristiche dell’essere, sia puro o INTELLIGIBILE (pensato) sia impuro o SENSIBILE (percepito con i sensi).
L’ontologia fondamentale rappresenta il nucleo centrale del pensiero di Parmenide ed è racchiusa nel poema filosofico SULLA NATURA, dove viene descritto un viaggio immaginario e iniziatico intrapreso dal filosofo in cerca della verità. Abbandonato il mondo degli uomini, indicato dalla morte e dalle tenebre, egli giunge alla porta vigilata dalla dea Dike, la Giustizia, che indica a Parmenide il punto che separai la via della luce e del giorno dalla via delle tenebre e della notte. Il traguardo di questo percorso, ricco di metafore e di allegorie, è rappresentato appunto dalla verità, ossia la luce del giorno, per raggiungere la quale è necessario staccarsi dal senso comune, che conduce solo a esperienze ordinarie, confuse e contraddittorie, simboleggiate dalla via dell’oscurità e della notte. Da un punto di vista concettuale il poema può avere due livelli interpretativi: il primo costituisce la via alla verità e rivela la CONTRADDIZIONE tra le due vie della luce e delle tenebre, rappresentate nelle proposizioni “l’essere è” e “il non essere è”; il secondo costituisce la via all’opinione e palesa invece la CONTRAPPOSIZIONE dei due termini essere e non essere, come accade nell’opinione, in cui al tempo stesso qualcosa è e non è. Queste due strade sono complementari, poiché esauriscono tutte le possibili combinazioni dell’essere e del non essere assoluti, e dell’essere e del non essere relativi: il vero, il falso, il vero e il falso, e il né vero né falso. In che modo si arriva a questa articolazione? Il vero è rappresentato dalla frase “l’essere è”. Si tratta di un principio di identità di una certezza indubitabile (per esempio: il tavolo è il tavolo) laddove si afferma l’esistenza di qualcosa. La via del falso e dell’errore è rappresentata dalla frase “il non essere è”. Occorre precisare che il falso consiste nella negazione del soggetto e non del predicato, come nella frase “il fiore NON è rosso”. Affermare l’esistenza del non essere è una posizione impraticabile poiché non si può conoscere o pensare il nulla, in quanto il pensiero è sempre pensiero di un oggetto. Dunque del non essere assoluto possiamo solo dire che non è, anzi, dice Parmenide che possiamo solo osservare il silenzio in quanto nulla possiamo dire del non essere. L’uso di una doppia negazione, del soggetto e del predicato, ristabilisce il principio di identità quale criterio di verità e indica che si tratta di una verità di secondo grado o di una “verità dell’impredicabilità”, in quanto privazione assoluta. Tale verità non va tradotta in un senso positivo, come succede nella logica moderna in cui una doppia negazione afferma: affermare che il non essere non è non significa infatti per Parmenide che tutto è ma semplicemente che non si può conoscere e pensare il nulla. Questo porta Parmenide a concludere che all’AFFERMAZIONE ASSOLUTA - l’essere è - si contrappone la PRIVAZIONE ASSOLUTA - il non essere non è - mentre la NEGAZIONE ASSOLUTA - il non essere è - è considerata esplicitamente un errore, sia come negazione del soggetto (il non essere è) sia come negazione del predicato (l’essere non è), specie nel secondo caso poiché negando l’oggetto del pensiero non è più possibile pensare. Bisogna però  aggiungere che il non essere assoluto è sì impensabile e indicibile ma non insensato, se espresso come principio di identità: il non essere non è. Seppur privo di contenuto il non essere assoluto ha dunque un senso.

PARMENIDE - LEZIONE 6
Parmenide e le caratteristiche dell’essere

6.1 - Dopo l’ontologia fondamentale, Parmenide prende in esame l’essere e il non essere in quanto relativi: si tratta del mondo dell’opinione e dell’apparenza, strada percorribile ma che non porta al vero per la contemporanea presenza di essere e di non essere in contrapposizione. Questa via ha due conseguenze, sul piano conoscitivo e su quello logico. Sul piano conoscitivo si tratta di un mondo falso, ma allo stesso tempo utile, in quanto è possibile, ammette Parmenide, usare le opinioni più convincenti per fini pratici - per esempio quando si vede il cielo a pecorelle e ci si aspetta che piove, perciò si esce con l’ombrello - anche se non sono supportate dalla verità. Al posto dell’identità e della contrapposizione dell’essere puro, all’essere relativo appartiene la gradualità, quindi la possibilità dell’opinione: il suo metodo di indagine non è logico ma analogico. Sul piano logico Parmenide non si occupa tanto del falso perché tanto il vero quanto il falso sono relativamente possibili. Questo ovviamente dà luogo a due soluzioni, una in cui una cosa è un po’ vera e un po’ falsa (secondo una logica di tipo bivalente), l’altra in cui qualcosa potrebbe essere vera (secondo una logica polivalente).

6.2 - La seconda parte dell’ontologia descrittiva riguarda l’essere assoluto. La domanda che si pone Parmenide è in che modo l’essere si presenta nella realtà. Affermare che qualcosa è in una logica arcaica e ancora nominalistica (per esempio: il fiore è rosso) significa indicare che questo qualcosa non è (il fiore non è giallo) ma questo ci riporterebbe nel mondo dell’opinione a una coesistenza di essere e di non essere. Dunque per descrivere l’essere assoluto occorre procedere negativamente e spogliarlo di tutti gli attributi, caratteristici del mondo sensibile. Qui il non essere assoluto - cioè il nulla - è già fuori gioco, e l’essere assoluto può essere conosciuto in maniera indiretta: possiamo conoscere l’essere assoluto in modo diretto solo ammettendo il non essere come contrasto. Per fare ciò è necessario che la negazione sia già contenuta nell’attributo sensibile del giudizio che esprime l’esistenza di una cosa: a = non b. Solo così non si corrompe l’essere col non essere. L’essere assoluto è così descritto:
a) non nasce e non muore (E è non-N e non-M): esso è INGENERATO e IMPERITURO: se così non fosse nascerebbe dal non essere e morirebbe nel non essere;
b) non ha passato né futuro, cioè è ATEMPORALE ed eternamente presente, per le stesse ragioni descritte in precedenza;
c) NON E’ FINITO - poiché ciò che è finito è destinato a finire, cioè a non essere più (si tratta di una infinità quantitativa) - ma DEFINITO ossia perfetto è completo, nel senso che non gli manca nulla in quanto se gli mancasse qualcosa sarebbe fuori dall’essere (si tratta di una finitezza qualitativa); Parmenide paragona l’essere a una sfera per descrivere il suo concetto di infinito che è da intendersi senza fine ma non in un senso spaziale quanto temporale;
d) è CONTINUO, non ha fratture, interruzioni, confini, è UNICO, ossia non molteplice, ed è FERMO, immobile, in pura quiete, in assenza di movimento.

6.3 - Nella filosofia parmenidea si ha il passaggio da una semantica nominale di derivazione eraclitea a una semantica PROPOSIZIONALE. Nella filosofia di Eraclito il nome aveva un valore univoco e indicava l’oggetto (N = O) tanto che il il discorso aveva per Eraclito un carattere contraddittorio. Nella filosofia parmenidea invece il nome è ridotto a una semplice apparenza: esso presuppone infatti una negazione Iil tavolo non è la sedia) in un modo perciò equivoco. Al contrario di Eraclito, che considerava il logos come parola elemento ultimo di una realtà in divenire, Parmenide non ammette un essere mutevole e per questo motivo afferma il primato del logos sull’epos, ossia del discorso sulla parola. Il logos eracliteo era il nome, quello parmenideo è invece la proposizione o giudizio, espresso nella forma “A è B” (soggetto + predicato). A differenza della semantica eraclitea il significato del nome non è dunque più legato all’oggetto ma dipende dalla proposizione. La differenza da  una semantica nominale è evidente: i nomi non appartengono alle cose ma sono usati per convenzione in modo biunivoco (per esempio: il fiore è quella cosa con i petali, il gambo e le foglie): la realtà non si mostra mai nelle singole parole ma a partire dalla loro unità proposizionale. Per comprendere il vantaggio di questa semantica occorre evidenziare alcuni aspetti.
Nella semantica nominale di Eraclito l’elemento - il nome - è univoco mentre l’intero - il discorso - è equivoco: tra nome e discorso esiste una distinzione di tipo qualitativo. Eraclito deve perciò individuare un principio immateriale che possa garantire la coerenza del discorso. Nella semantica proposizionale invece tra l’elemento - la proposizione - e l’intero - il discorso - esiste una distinzione quantitativa: il discorso è infatti un’articolazione complessa della proposizione e se questa è univoca tutto il discorso sarà univoco e viceversa.
Nella semantica nominale abbiamo dualità mentre in quella proposizionale abbiamo dualismo. In Parmenide esiste una netta separazione tra struttura superficiale e struttura profonda del linguaggio, che a sua volta riproduce la stessa separazione tra opinione e verità, una che proviene dai sensi e l’altra dal pensiero. Parmenide separa la percezione sensibile (il tavolo è verde) di ciò che è soggetto quindi alla negazione (se il tavolo è verde NON è rosso) dal pensiero (il tavolo è il tavolo), a differenza della semantica eraclitea in cui  ogni elemento fa parte del tutto e il tutto si trova in ogni elemento, senza  distinzione. Per questo motivo l’impostazione proposizionale è alla base della filosofia scienza moderna.

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1A - U2
Sofistica

PROTAGORA - LEZIONE 11
La soggettività relativa del vero

11.1 - Nel corso dell’età periclea (V sec. a. C.) la logica classica raggiunge il suo apogeo e con la sofistica la filosofia si trasforma in uno studio dei segni (SEMIOTICA). Merito del movimento sofistico non fu solo quello di indagare sull’origine dei segni, ma sopratutto quello di avere chiarito la distinzione tra la lingua e il linguaggio: un linguaggio, come quello della matematica o della musica, può essere infatti usato in diverse lingue, e una lingua, per esempio il greco, può comprendere diversi linguaggi. Il logos assume nella sofistica un carattere nominalistico e convenzionale, perdendo quindi quella sostanzialità che Parmenide aveva cercato di individuare con la tesi dell’isomorfismo. Dal punto di vista politico i sofisti incarnano la vera novità del periodo: sapienti, poiché contrari a un sapere puramente contemplativo, essi danno alla cultura un carattere marcatamente pratico, insegnando le loro verità come strumento di comunicazione politica, attraverso le tecniche della RETORICA - l’arte della persuasione, da essi inventata -  e dell’oratoria. Sono stati a tutti gli effetti i primi professionisti della cultura, ruolo che però non ha mancato di suscitare grande indignazione nelle correnti successive che accusarono i sofisti di  fare mercimonio della cultura: ciò si deve al fatto che l’arte della persuasione veniva insegnata, dietro pagamento, ai futuri politici, che dovevano diventare maestri di ragionamento, senza però un rigoroso fondamento scientifico delle loro convinzioni. Ma sarebbe impropriamente riduttivo limitare la sofistica solo a questo aspetto, esulando dall’importante contributo dato alla logica. Ma a rendere ancora più pregnante il contributo sofistico è lo studio dell’uomo, che coincide con un periodo critico nell’evoluzione delle poleis e apre di fatto la fase antropologica del pensiero antico.

11.2 - Secondo Protagora la ricerca dell’uomo ha un fine pratico, quello della costruzione della polis, che viene prima di tutto. A differenza di Parmenide, che aveva operato una radicale distinzione tra le strade dell’essere e del non essere, costituendo l’identità di essere, pensiero e linguaggio come legge inderogabile, Nella sua prospettiva relativista Protagora pone l’uomo al centro della natura: senza di lui non avrebbe senso una distinzione tra essere e  non essere. L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono. Ma di quale relativismo si tratta? E in che rapporto sta rispetto all’isomorfismo parmenideo? 
Occorre dire innanzitutto che quando Protagora si riferisce all’uomo non si riferisce solo al singolo ma tutta la specie, con tutte le sue complessità e diversità: questo aspetto conduce a considerare l’uomo misura non solo di tutte le cose ma dell’essere in generale. Ogni uomo infatti ha un modo diverso di cogliere l’essere, a seconda delle caratteristiche della specie. La verità di cui parla Protagora è una verità OPERATIVA e COSTRUTTIVA: Coerentemente col movimento di cui è esponente egli non si interessa degli aspetti teoretici e speculativi, ma di quelli pratici, ossia delle azioni umane, poiché sono le azioni umane a dare un significato al mondo piuttosto che i concetti astratti. Infatti Protagora non è interessato a un sapere universale e oggettivo, ma al modo di usare la conoscenza, ossia alla sua applicazione. Nel testo si riporta l’esempio delle regole dell’aritmetica: le regole aritmetiche sono universali e condivise da tutti ma la loro applicazione a seconda dei casi assume un diverso valore d’uso. Per esempio, la somma di due pietre più due pietre ha come totale quattro pietre, poiché due più due fa quattro. Ma se sommiamo due gocce d’acqua a due gocce d’acqua otteniamo una sola grande goccia d’acqua. Secondo questo esempio le regole dell’aritmetica sono oggettive a seconda della loro applicazione e ciò lascia intuire che oltre al sapere TEORICO e FORMALE ne deve esistere un altro SINTETICO e OPERATIVO, che corrisponde appunto alla posizione protagorea. Il carattere operativo della conoscenza a differenza di quello formale non necessita di essere realmente oggettivo dato che il suo valore dipende dal mondo in cui la conoscenza viene costruita: Protagora chiama le cose col termine greco krémata, ossia ciò che ancora non è stato definito, dando all’uomo - che è anche misura delle cose che non sono in quanto non sono - il potere di decidere su qualcosa che ancora non si è compiuto. Protagora afferma qui il ruolo fondamentale dell’uomo che deve sperimentare e conoscere le cose, dato che la materia ci dice che ci sono ma non cosa esse siano.
La prospettiva d’indagine di Protagora basata sul concetto dell’essere in funzione dell’uomo conduce a una rottura col modello isomorfico tradizionale. Sul piano logico questa rottura appare evidente con le forme del discorso di Eraclito e di Parmenide, ancora vincolate a una logica interna. Un simile modello teorico infatti non mi dice nulla sugli scopi del discorso, mentre mi informa solo della sua struttura: io posso ad esempio affermare l’intelligenza di una persona dando a questa affermazione una cadenza volutamente ironica o canzonatoria, questo perché l’azione pratica del discorso sofistico è basata sopratutto sulla comunicazione. Nella comunicazione il linguaggio appare nella sua duplicità e nella sua forma anti-logica, in cui su ogni cosa possiamo dire tutto e il contrario di tutto. Assume qui ancora più valore il ruolo dell’uomo, che decide a seconda dei casi il grado di oggettività della propria comunicazione: questo aspetto rivela la missione educativa dei sofisti, che intendevano responsabilizzare gli uomini e renderli consapevoli, padroni delle proprie decisioni, in modo tale che nel caso di errori non dovessero incolpare la natura o gli dei ma solo loro stessi. Platone nel dialogo Protagora (dedicato al filosofo) fa raccontare dallo stesso protagonista il mito di Prometeo: qui il fratello di Prometeo, Epimeteo, dona agli animali le capacità di vivere e di difendersi, ma nulla resta poi per l’uomo; così Prometeo decide di rubare il fuoco agli dei per donarlo agli uomini affinché ne facessero uso per costruire il mondo. Prometeo sceglie l’uomo perché l’uomo ha le capacità tecniche per costruire, ma questo dono può diventare una sventura, guerre e distruzione, se l’uomo tenta di usarlo individualmente, per i propri interessi e non per il bene comune. Protagora intende fondare sulla parola l’arte della politica, intesa come bene di tutti, in cui la parola è lo strumento per comunicare. Per questo il convenzionalismo di Protagora è la prima vera forma di umanismo antico.

GORGIA - LEZIONE 12
La soggettività assoluta del vero e il nichilismo

12.1 - Il pensiero di Gorgia porta alle estreme conseguenze la rottura con l’isomorfismo presente nel relativismo di Protagora: nulla esiste nel pensiero e nel linguaggio senza l’intervento dell’uomo. La presenza dei contrari, nota infatti Gorgia, dimostra che c’è qualcosa di sbagliato nell’assunzione delle premesse di un ragionamento: non è detto che la negazione di una antitesi serva ad affermare la tesi. Gorgia prende le distanze dai modelli di semantica nominale, proposizionale e paradigmatica per affermare l’assenza nel reale dei principi razionali atti a comprenderlo, ed esautorando il ruolo del pensiero e del linguaggio della teoria isomorfica: l’essere assoluto di Parmenide è così lontano dalla possibilità di coglierlo che di esso non possiamo dire nulla e ogni parola che useremo non avrà quindi alcuna rilevanza ontologica e per questo potremo dire tutto e il contrario di tutto. La parola non identifica più l’oggetto, e il pensiero e il linguaggio non descrivono più la realtà. Questo atteggiamento impone il passaggio da una dimensione diadica tipica della formula dell’isomorfismo - in cui pensiero e linguaggio descrivono la realtà - a una dimensione triadica, in cui è presente l’elemento mediatore della mente. Non esistono delle premesse che portano a percorsi obbligati, dalle premesse si può arrivare a qualsiasi conclusione. L’uomo consapevole di non trovare nel reale i principi razionali che servono a conoscerlo non si fida più del pensiero o delle parole e usa la mente per giungere a un criterio di verità di tipo convenzionale. L’assenza di certezza porta l’uomo a scegliere un punto di partenza convenzionale per giungere sempre a una conclusione ipotetica. 

12.2 - Un esempio di questo procedimento è l’ENCOMIO DI ELENA. Questa famosa orazione, basata sulla vicenda di Elena e Paride che fu causa della guerra di Troia, rappresenta un esempio importante delle capacità sofistiche e del ruolo ontogenetico della retorica. Qui Gorgia si pronuncia in difesa di Elena, adducendo la responsabilità degli eventi a fattori sovrastanti come la natura e gli dei: si evince chiaramente l’abilità eristica di ricreare nuove forme di realtà partendo da premesse che lascerebbero pensare a una conclusione diversa: infatti il procedimento sofistico ha una struttura assolutamente differente dalla logica tradizionale. Gorgia distingue tra prova e persuasione, tra la logica, che ha carattere razionale, e la retorica, che ha invece carattere irrazionale: il comportamento di Elena non può essere giudicato in base alla logica, spiega Gorgia, poiché il comportamento umano non segue mai una via razionale ma è condizionato dalle passioni irrazionali. L’uomo è costretto dalla vita a scegliere tra diverse possibili alternative senza che però vi sia una reale ragione ultima per scegliere una piuttosto che l’altra. Elena ha scelto non sulla base della ragione ma perché persuasa dal discorso di Paride: qui il filosofo di Lentini mette in evidenza la responsabilità della scelta di Elena che non deriva dalla ragione. Infatti una prova ben congegnata è oggettivamente valida e inattaccabile, la persuasione è invece opinabile. Nella persuasione ci sono due versanti, uno linguistico e uno psichico, che agiscono sulla convinzione dell’individuo, nonostante non siano presenti elementi razionali a supportare tale convincimento. A questo proposito Gorgia si domanda se sia possibile dare all’essere un carattere razionale, se sia possibile dimostrare attraverso i fatti esistenti: la risposta è ovviamente negativa, in quanto non esiste nessuna ragione che possa supportare la conoscenza dei fatti esistenti e quindi è impossibile dare una dimostrazione della loro esistenza o della loro non esistenza: resta solo il discorso, la parola. Ma questo non implica che l’uomo, privato di un principio razionale da seguire, sia immorale: l’uomo, dice Gorgia, è libero di decidere e di agire secondo la situazione. Gorgia ritiene invece immorale l’inganno della logica, che illude l’uomo con la pretesa di un fondamento.

12.3 - Gorgia giunge dunque a svuotare del suo significato l’essere assoluto parmenideo: esso è talmente rigoroso da sfuggire. Nella vita reale noi non c’è l’essere se non come una riflessione mentale, piuttosto abbiamo situazioni o fenomeni. Inoltre l’essere nel mondo concreto è come un continuo inganno poiché nel mondo reale, soggetto come sappiamo al molteplice e al divenire, non troviamo essere ma non essere. Nella sua opera SUL NON ESSERE O SULLA NATURA Gorgia sostiene che noi possiamo pensare l’essere solo come pensiero puro, ossia come non essere, come qualcosa di irreale, e per conversione non possiamo pensare il reale come essere. Questo porta Gorgia a definire la sua prima affermazione: nulla è. Da questa affermazione deriva la seconda affermazione: se anche qualcosa esistesse non sarebbe comprensibile all’uomo. Ma se la semantica proposizionale parmenidea perde così il suo significato ontologico, anche la semantica nominale eraclitea perde il suo significato: se anche l’essere osse comprensibile non sarebbe comunque esprimibile. Ogni discorso sull’essere, conclude Gorgia, non può dunque avere un carattere razionale: ci appare tale solo in virtù del suo potere di persuasione.

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1A - U4
Platone

PLATONE - LEZIONE 19
Biografia e “corpus platonicum”

19.1 - Platone è il primo filosofo sistematico della storia della filosofia occidentale. Nasce ad Atene, respirando la politica soloniana, ed entrando in contatto con il clima di decadenza delle poleis, di cui la morte di Socrate fu amara testimonianza. Probabilmente i due grandi incontri che hanno cambiato la vita di Platone furono quello col maestro Socrate, avvenuto quando Platone era poco più che diciottenne - e che orientò in un senso anche politico la missione del filosofare platonico - e quello con Cratilo, filosofo scettico, di scuola eraclitea, che aveva dato al problema del divenire una prospettiva ancora più marcata (sosteneva infatti che non solo non possiamo bagnarci due volte nello stesso fiume ma neanche una, poiché l’acqua che bagna il nostro piede non è la stessa che bagna il tallone). Successivamente alla scomparsa del maestro Platone entra in contatto con diversi studiosi di matematica, di scuola pitagorica ed euclidea, la cui influenza favorirà la fondazione e lo sviluppo dell’Accademia, e a Siracusa con il tiranno Dionigi e con il di lui genero Dione, figure importanti che ispirarono uno dei cardini caratteristici del credo politico di Platone, il sovrano-filosofo. 

19.2 - Il corpus platonico consiste di 36 scritti, in forma di Dialoghi, divisi, secondo la composizione classica in nove tetralogie. Benché sia considerato il primo filosofo sistematico Platone non ha dato alle sue opere un carattere realmente di sistema, le teorie non appaiono infatti descritte in modo chiaro e ordinato. A queste teorie vanno aggiunte anche le dottrine non scritte, le àgrafa dògmata, che rivelano l’eredità del metodo didattico socratico, fondato sul dialogo, in cui il problema restava “aperto” a ulteriori sviluppi. Normalmente si suddividono le opere platoniche in tre periodi: il primo è detto socratico, o giovanile, e coincide con il riferimento alla figura del maestro; il secondo è detto della prima maturità. e coincide con la fondazione dell’Accademia; il terzo è chiamato della seconda maturità o della vecchiaia, e concerne tematiche già sviluppate e riprese dal filosofo.

19.3 - Agli inizi del secolo XIX Schleiermacher, uno dei più famosi critici e studiosi del corpus platonico, mise in evidenza il carattere ermeneutico delle opere di Platone, evidenziando in pratica tre aspetti: il contenuto dei dialoghi come forma d’arte, l’assenza di un sistema, e la funzione scenografica e drammaturgica di ogni dialogo. Questi aspetti mettono in luce la singolarità dialettica di ogni dialogo platonico, che non può essere incasellata in un sistema dottrinale ordinato e complesso. Ulteriori studi, negli anni Sessanta del XX secolo, hanno voluto valorizzare le cosiddette opere non scritte di Platone, che ci permettono di affiancare alla figura del Platone essoterico, pubblico, divulgativo, un Platone esoterico, volto quindi a un tipo di insegnamento fondato esclusivamente sull’oralità come faceva Socrate, e riservato a pochi. Proprio in queste opere non scritte e trasmesse oralmente troviamo il vero Platone, in cui gli interessi scientifico-matematici di ispirazione pitagorica prevalgono su quelli etico-politici.

PLATONE - LEZIONE 20
L’intenzionalità della conoscenza e il problema del linguaggio: il Carmide e il Cratilo

20.1 - A influenzare Platone non ci fu solo la morte di Socrate, ma è evidente come sia proprio il suo rapporto con il maestro a condizionare buona parte dei temi dei dialoghi del periodo giovanile, detto appunto anche socratico proprio perché dominato dalla figura di Socrate. Ma a dividere i due filosofi è proprio il metodo di ricerca. Socrate usa una prospettiva analitica e induttiva, che non gli consente di cogliere la realtà in maniera realmente universale, intuendo le forme pure, i concetti, ma allontanandosi dalla totalità. Per Socrate ciò che è oggettivo è determinato, concluso. Il metodo platonico sfrutta la dialettica allo scopo di giungere a una conoscenza realmente universale della realtà, senza fermarsi quindi alle opinioni. In questo senso Socrate si limita ad associare conoscenza e virtù, Platone va oltre e cerca di spiegarne le condizioni, i principi, i fondamenti della vita morale. Questi sono i temi che ricorrono proprio nei dialoghi socratici, tra cui prevalgono due problemi fondamentali: la soggettività, intesa come l’intenzionalità del conoscere (la direzione verso cui tende la ricerca, la coscienza) e l’interpretazione dei segni e dei simboli che la costituiscono (la nascita quindi del linguaggio). I due dialoghi in cui appaiono meglio questi due punti nodali sono il Carmide e il Cratilo.

20.2 - Il Carmide non si discosta molto dai temi degli altri dialoghi del periodo ma è interessante poiché qui Platone spiega l’intenzionalità del conoscere, il conoscere rivolto a un oggetto fuori da noi. Si presentano qui due prospettive, una riguarda l’oggetto in se stesso e l’altra il soggetto che conosce l’oggetto. Possiamo studiare solo l’oggetto o anche il soggetto che conosce l’oggetto? E questa conoscenza a cosa ci serve, che risultati ci dà? Possiamo mettere in evidenza tre problemi: a) la conoscenza di se stessi; b) la conoscenza dell’oggetto; c) la conoscenza dell’effetto. Tra queste assume rilevanza proprio la coscienza dell’oggetto. Infatti noi possiamo anche fare qualcosa senza esserne consapevoli - per esempio un gesto qualsiasi che fa stare bene una persona - oppure agire senza immaginare gli effetti che la nostra azione potrebbe generare. Inoltre la conoscenza di noi stessi risulterebbe vuota se allontanata dall’oggetto, infatti noi possiamo vedere ciò che viene visto e non la vista in se stessa. La conoscenza fondamentale è quindi quella dell’oggetto. Socrate aveva posto il suo “conosci te stesso” alla base della conoscenza, ma senza rivelarne l’oggetto: Platone intende superare questo ostacolo riunendo, senza identificarle, conoscenza di se stessi e conoscenza dell’oggetto. Possiamo dunque conoscere noi stessi, dice Platone nel Carmide, in relazione all’oggetto verso cui intenzionalmente la nostra coscienza tende, ma non possiamo staccare la coscienza dall’oggetto, poiché non potremmo valutarla in modo empirico se svuotata da qualsiasi contenuto oggettivo.

20.3 - Nel Cratilo si scontrano due tesi, una naturalista e una convenzionalista. Secondo la prima i nomi delle cose sono naturali, ossia fanno parte delle cose stesse, e non cambiano, mentre secondo i convenzionalisti i nomi delle cose hanno un valore appunto convenzionale. Entrambe le posizioni sono ovviamente fallimentari, e mostrano limiti evidenti, tanto che Platone oppone due concezioni alternative, una strumentalista e una rappresentativa. La prima concezione - che è potremmo dire una variante del convenzionalismo - vede il linguaggio come uno strumento, ossia diamo i nomi alle cose in base al loro uso. La seconda - che possiamo dire a sua volta un’estensione del naturalismo - considera il linguaggio come un modo per descrivere gli oggetti, imita e rispecchia le cose per come esse appaiono a noi che le conosciamo. Ma Platone mette in evidenza che anche queste due concezioni non soddisfano la conoscenza, poiché conoscere il nome delle cose non significa conoscere le cose come sono in se stesse. Noi delle cose conosciamo ciò che i nostri sensi colgono e sono questi aspetti a consentirci di assegnare alle cose un nome. Pertanto, a differenza dei Sofisti, Platone ritiene che non siano le parole a creare gli oggetti, ma si tratta della nostra capacità di comprendere la realtà oggettiva a dar loro consistenza e circostanza.

PLATONE - LEZIONE 21
La conoscenza come ricerca assoluta
Il Menone

21.1 - Nel Carmide Platone mette in evidenza l'aspetto dell'intenzionalità della conoscenza, intesa come direzione del conoscere dal soggetto all'oggetto, avvertendo che questo meccanismo non è un processo naturale e immediato, ma nasce dall'esercizio di un'attività ben precisa che ruota intorno all'oggetto che si vuole conoscere. Soggetto e oggetto non sono la stessa cosa, ma sono ben distinti tra loro, tra essi non esiste un'identità, ma un rapporto. Nel Menone Platone si domanda essenzialmente come si fa a sapere se la direzione di questa attività è giusta. Per conoscere un oggetto è necessario prima di tutto che ciò che conosciamo sia realmente ciò che noi vogliamo conoscere e non un'altra cosa e in secondo luogo è necessario che ciò che vogliamo conoscere sia stabile e permanente. L'elemento che ci consente una conoscenza stabile delle cose è la loro DEFINIZIONE, elemento che già si trova nella filosofia di Socrate e che permette di ridurre le cose alla loro essenza. Platone fa derivare dalla matematica pitagorica il concetto di FORMA IDENTICA (eidos) e usa il concetto di ESSENZA (ousia) per indicare la forma regolare, ciò che non cambia in nessun caso: più elementi condividono la stessa realtà oggettiva e sono contraddistinti da un predicato comune che li rappresenta. Ma questa proceduta conoscitiva può essere attribuita solo alle cose e non al soggetto che le conosce che, essendo pensiero e attività, sfuggirebbe quindi a qualsiasi accezione definitoria. È proprio tale impossibilità a consentire a Platone di superare il cosiddetto argomento eristico dei sofisti, secondo cui ogni conoscenza è vana poiché non si può conoscere ciò che già si conosce e, riguardo ciò che non si sa, è superfluo porsi il problema della conoscenza.  Infatti il sofista accoglie come conoscibile solo l'ente già compiuto e definito, rifiutando di coglierne il divenire e fermando dunque la propria ricerca all'atto. La relazione conoscitiva è un processo dinamico che legittima, nell'essenza della coscienza, il significato delle cose. L'elemento che conferisce stabilità e permanenza agli oggetti della coscienza è la MEMORIA. Il ricordare è l'essenza stessa della coscienza, è l'elemento che conferisce identità ai suoi elementi. Il sapere (episteme) è un imparare (mathesis) a ricordare e la sua essenza è il ricordo (anamnesis). All'argomento eristico dei Sofisti Platone oppone dunque la teoria della reminiscenza: conoscere è ricordare. Sarebbe però molto riduttivo identificare la memoria come un semplice strumento chiarificatore che trasporta un oggetto da uno spazio scuro a uno spazio chiaro in cui si manifesta. Per Platone il ricordare significa non tanto recuperare un oggetto della memoria quanto fare riferimento alla verità: ricordare significa platonicamente conoscere il VERO. Se lo scetticismo eristico aveva insistito sull’inutilità di conoscere il vero, la teoria della reminiscenza di Platone identifica la memoria come l’atto di dare un valore, un significato, alla conoscenza, in pratica corrisponde all’atto di dare una FORMA. La parola verità in greco si dice “aletheia”, a sua volta parola composta dalla particella privativa a (alfa) e dalla parola lethe, oblio. Letteralmente potrebbe essere tradotta come assenza dell’oblio. La parola lethe deriva da un verbo greco, lanthano, che significa nascondere. La parola aletheia assume quindi un preciso significato: non oblio, non nascondimento. Infatti l’essere, nella realtà oggettiva, viene nascosto dalla molteplicità, cioè dalla pluralità di cose imperfette presenti nel reale, e dal divenire, cioè il processo d’inevitabile cambiamento che si verifica in tutte le cose. Questo fa sì che l’essere appaia e scompaia e, quando parliamo di verità, parliamo di manifestazione dell’essere. Il ricordo per Platone è appunto l’esplicitazione di questa verità, ossia la manifestazione del vero essere.  La verità non è un dato, ma un compito che unisce la forma oggettiva e l’atto soggettivo. Una figura qualsiasi di per sé non ha alcun senso se risulta sconosciuta alla nostra coscienza: una forma deve sempre essere vista, cioè riconosciuta oggettivamente (per esempio: la porta rettangolare). Allo stesso modo il pensiero non possiede alcuna prerogativa creatrice: il pensiero non costruisce gli oggetti e, il fatto che noi non siamo in grado di riconoscerli, non significa che non esistono o che essi nascano dal nulla quando li riconosciamo. Platone opera qui un interessante superamento del pensiero parmenideo, che concepiva l’essere come un’assenza del non essere. L’essere assume infatti un significato nel momento in cui viene ri-conosciuto, cioè identificato mediante la forma oggettiva a esso collegata, ma questa forma esiste a prescindere dall’intenzionalità della nostra coscienza, tanto che il conoscere platonico è una rievocazione di qualcosa che esiste già a prescindere dal rapporto diretto agli oggetti della coscienza. Famoso esempio usato da Platone è quello dello schiavo di Menone.

21.2 - Secondo la teoria della reminiscenza il conoscere è un processo attivo che comincia quando si instaura una relazione tra la coscienza e l’oggetto. Non è l’oggetto protagonista del processo, ma il soggetto che conosce. Si tratta del superamento dell’oggettivismo, secondo cui sapere è un processo passivo che consiste nella semplice raccolta di nozioni. Platone accoglie la differenza sostanziale, già considerata da Socrate, tra il piano oggettivo del reale e quello soggettivo della coscienza: sono due piani diversi, con strutture diverse e caratteristiche diverse. Per mettere insieme questi due livelli di realtà è necessario che l’anima sia IMMORTALE e che sopravviva al corpo dopo la morte. Questa caratteristica permette d’identificare la conoscenza come una anamnesi, cioè un ricordo: non esiste nulla, scrive Platone, che l’anima non abbia già appreso. Inoltre permette di orientare la conoscenza non al semplice dato, ma allo sviluppo, al processo, che conduce alla sua scoperta. Se ci fermassimo alla sola intuizione del dato, infatti, esso si svelerebbe, ma poi tornerebbe a scomparire, magari perdendosi per sempre, invece il processo conferisce al conoscere un valore preciso, conservandone il significato. L’anima dunque dev’essere non solo immortale, ma anche PREESISTENTE alle cose stesse, perché il conoscere è una continua ricerca del vero e dell’essere. Queste due caratteristiche sono tali in funzione della reminiscenza, che funziona da mediazione tra l’anima e le cose reali. Platone si allontana da qualsiasi contesto poetico o religioso, in quanto questi elementi hanno per lui solo un valore introduttivo, e si concentra invece sugli aspetti funzionali della teoria della reminiscenza. Nel dialogo Menone Platone mostra chiaramente come il conoscere sia un processo veramente attivo, non una semplice raccolta di dati ottenuti dall’esperienza sensibile, ma uno sforzo di ricerca che parte proprio dall’esperienza sensibile. Nell’episodio più famoso Socrate chiede al protagonista di chiamare uno dei suoi servi, chiaramente ignorante di matematica. Guidato da Socrate, il servo riesce a costruire il quadrato sull’ipotenusa, si trattava evidentemente della dimostrazione del teorema di Pitagora, scoprendo che corrisponde alla somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo. Socrate invita quindi Menone a cogliere come il servo non abbia imparato in base ai dati forniti dal maestro, ma ha ricordato, come se avesse conseguito la conoscenza da sé stesso. Le domande che emergono sono: 
in che senso lo schiavo ha acquisito la conoscenza matematica da sé? 
che tipo di conoscenza ha acquisito? 
con quale metodo?

Alla prima domanda possiamo rispondere che lo schiavo non ha appreso la soluzione del problema da Socrate, ma ha acquistato attraverso Socrate il giusto modo di procedere, per confutazione, e al termine del processo ha avuto consapevolezza che la conoscenza ottenuta è valida. Da se stesso lo schiavo ha appreso la COSCIENZA DELL'OGGETTO, da Socrate ha appreso la COSCIENZA PROBLEMATICA. Questo doppio canale, problematico e oggettuale, esprime il significato di un'indagine attraverso ipotesi. L'ipotesi è un'affermazione né vera, né falsa. Il ragionamento ipotetico non offre garanzie di verità, si tratta infatti di un giudizio sospeso, in attesa di essere confermato. Il presupposto razionale è dato però proprio dal suo limite, che obbliga il soggetto conoscente a cercare una strategia per giungere al vero. Platone integra il metodo socratico con un ulteriore metodo d’indagine di tipo DIALETTICO, che perviene alla conoscenza mediante tre fasi:
a) METODO ANALITICO - basato sul carattere negativo della dialettica (A non è  B) serve a individuare ed eliminare le ipotesi false;
b) METODO APAGOGICO (= per riduzione all'assurdo) - prima fase dell'uso positivo della dialettica, serve a dimostrare indirettamente la verità delle premesse di un ragionamento;
c) METODO ESPOSITIVO (o IPOTETICO-DEDUTTIVO) - è la seconda fase dell'uso positivo della dialettica, usa una dimostrazione ancora indiretta, ma basata su prove.
Platone, a differenza di altri filosofi, usa il termine DIALETTICA nel senso scientifico, col preciso significato di pervenire a una soluzione mediante il ragionamento. Ma una soluzione del problema, a questo punto, è solo un'OPINIONE VERA (in greco: doxa alethès) che Platone è ben attento a distinguere dalla CONOSCENZA RAZIONALE (in greco: epistème) che rispetto alle opinioni vere ha la caratteristica della stabilità e della scientificità. La differenza tra epistème e doxa consiste proprio nel fatto che solo la prima può vantare un legame necessario col vero, come, scrive Platone, le statue di Dedalo che gli Ateniesi pensavano che potessero vedere e fuggire, tanto che venivano legate. L'elemento che conferisce stabilità all'epistème è il ragionamento causale, ossia la coscienza della CAUSA. Questa consapevolezza sottrae l'oggetto all'oblio e permette alla coscienza di passare dal mondo degli oggetti al mondo delle relazioni tra gli oggetti.
Si compie in questo modo il superamento di Socrate mediante il fondamento di una vera ONTOLOGIA (discorso, studio sull'essere) che vede l'oggetto non più come un dato, ma come un compito che "mette in moto" la ricerca della causa. E solo in questa accezione che la virtù può essere insegnata.

PLATONE - LEZIONE 22
Psicologia e antropologia
Il Fedone

22.1 - Esaminando i primi tre dialoghi abbiamo chiarito che la conoscenza consiste nella relazione tra soggetto e oggetto, in cui l’oggetto è posto di fronte al soggetto, e abbiamo detto che si tratta di un processo attivo e non passivo, poiché non parte dall’oggetto, ma ha il soggetto come protagonista. Adesso Platone deve spiegare non solo cosa sia realmente l’oggetto, ma soprattutto chi è il soggetto conoscente, o meglio, la coscienza (o anima) che si dirige all’oggetto. Nel Menone abbiamo visto come si attiva la conoscenza, nel Fedone Platone spiega cosa è l’anima. Lo fa cominciando dalla morte di Socrate, raccontata da Fedone a un gruppo di ammiratori del maestro, ma lo scopo non è apologetico, bensì è volto a mostrare proprio il destino dell’uomo dopo la morte. Già nel Menone Platone dice che l’anima è immortale, a sostegno della reminiscenza: nel Fedone non solo l’immortalità viene ribadita come carattere essenziale dell’anima, ma la stessa reminiscenza costituisce una delle prove che ne testimoniano l’immortalità. Nella psicologia platonica si afferma quindi un dualismo, già presente nelle dottrine misteriche orfiche e pitagoriche, quello tra l’anima, incorporea, immortale, perfetta, e il corpo, corruttibile, imperfetto e mortale, dove la perfezione della stessa anima viene testimoniata da questo circolo (il cerchio è simbolo di perfezione) immortalità-reminiscenza-immortalità.
Questo dualismo anima-corpo produce due effetti, uno di tipo etico e morale e uno di tipo logico e conoscitivo. L’aspetto etico riguarda proprio la perfezione dell’anima, che preserva la sua purezza fuggendo dal carcere del corpo, come nella metempsicosi pitagorica: in questo senso la morte del corpo non è affatto un male, anzi, è auspicabile proprio per liberare l’anima dal carcere fisico. L’aspetto logico riguarda la conoscenza razionale o episteme, in cui proprio l’immortalità dell’anima serve ad accedere alle forme perfette, intelligibili e immateriali delle cose. Ma questo aspetto ha prodotto anche un’altra conseguenza, ossia la confutazione di due teorie che sono state discusse anche in tempi più recenti, la teoria EPIFENOMENISTICA della coscienza, che concepisce la vita mentale come un fenomeno secondario e superficiale che “accompagna” la realtà, e la teoria MECCANICISTICA della natura, che spiega la realtà esclusivamente in base ai movimenti spaziali e corporei che ne fanno parte, collegati tra loro come una rete. In altre parole: questo aspetto conferisce realtà al pensiero e nega quelle teorie che si limitano a spiegare il reale prescindendo dalla coscienza, appunto l’opposto della concezione platonica in cui il soggetto, come si è visto nel Menone, è il protagonista del processo conoscitivo.

22.2 - Dopo aver considerato la teoria principale della superiorità dell'anima immortale e del suo affrancamento dal carcere fisico, Platone prende in esame tre argomentazioni a dimostrazione dell'immortalità dell'anima.

PRIMO ARGOMENTO: ARGOMENTO DEI CONTRARI - Si tratta di un argomento di derivazione eraclitea. Ogni cosa si origina e si definisce dal proprio contrario: la vita genera la morte, la morte genera la vita, in un ciclo continuo in cui vita e morte si alternano. Questo ciclo, osserva Platone, non può mai avere una fine: se avesse fine non ci sarebbe mai vita, poiché la morte sarebbe la fine di tutto. Inoltre questo ciclo ha bisogno di un substrato, di un pilastro che dia stabilità all'alternanza dei due termini. Questo elemento è appunto l'anima immortale. La morte esiste solo come trasformazione e non come negazione.

SECONDO ARGOMENTO: ARGOMENTO DELLA REMINISCENZA - Nel Menone Platone dice che conoscere è ricordare. Perché ciò avvenga è necessario che l'anima non solo sia immortale, ma che sia anche intelligente, cioè che possa cogliere le forme perfette delle cose. Gli empiristi possono ribattere che la conoscenza è data solo dall'esperienza. In realtà però non tutto deriva dalla conoscenza sensibile, per esempio i concetti di uguaglianza, di somiglianza, di differenza. In questo argomento Platone per la prima volta parla delle IDEE, le forme perfette di cui le cose sono copia e che permettono a Platone di superare la prospettiva oggettuale della relazione tra soggetto e predicato per cogliere invece l'ESSENZA come predicato ultimo che ci consente di identificare e raggruppare le cose. Le forme identiche della matematica e della geometria, seppur perfette, fanno parte del mondo degli oggetti e la loro comprensione è legata agli oggetti. Le idee sono forme pure e preesistenti alle cose. Per esempio: dal punto di vista oggettivo noi possiamo associare le cose per colore, forma, tipologia, dicendo che si assomigliano. Ma dal punto di vista soggettivo è necessario che ci sia l'idea della somiglianza, il cui significato deve essere permanente.

TERZO ARGOMENTO: ARGOMENTO DELLA SEMPLICITÀ - L'anima è semplice, come le idee, e quindi è UNICA. Questo la rende incorruttibile, non essendo unione di aggregati, l'anima non si disgrega.

Dopo aver esposto i tre argomenti a sostegno della tesi della preesistenza dell'anima, nel dialogo intervengono due personaggi, allievi del pitagorico Filolao, che si chiamano Simmia e Cebete, e che espongono le due teorie contrarie, quella EPIFENOMENISTA e quella MECCANICISTA.

La prima teoria è di carattere biologico e si ricollega alla tradizione medico-fisiologica delle scuole pitagoriche, secondo cui la salute del corpo dipende dall'equilibrio costituzionale (ISONOMIA) dell'organismo. Significativo è il paragone con le corde di uno strumento musicale: se le corde sono rotte, la musica non potrà esistere. Secondo questa teoria, detta anche dell'anima-armonia, l'anima è un prodotto del corpo e quando il corpo muore, anche l'anima segue la sua sorte.

La seconda teoria è invece di carattere logico-materialista e in pratica sostiene che, a causa della trasmigrazione, l'anima si deteriora perdendo energia vitale fino ad annullarsi completamente.

Si obietta all'epifenomenismo sostenendo che accettare la reminiscenza significa che l'anima non potrebbe avere nulla a che fare col corpo, e che sopratutto la coscienza è un fenomeno individuale che differenzia gli uomini. Al meccanicismo invece si obietta distinguendo i due ambiti, mente e corpo, che hanno leggi diverse e quindi non possono produrre gli stessi effetti. Non è perciò ammissibile né una derivazione dell'anima dal corpo, né la sua riduzione a fenomeno naturale che, come tutti i fenomeni naturali, si esaurisce.

22.3 - I tre argomenti definiti da Platone mettono dunque in evidenza il presupposto immortale dell'anima, ma ancora non ci dicono cosa è l'anima. Di questo aspetto si occupa il quarto argomento, di carattere ontologico-metafisico, che fa derivare l'essenza dell'anima dal postulato dell'esistenza delle idee. Ogni cosa esistente, dice Platone, ha dei predicati, che sono di natura ESSENZIALE o RELATIVA. Un predicato essenziale non cambia mai, resta invariato (per esempio l'essere un uomo) mentre il predicato relativo è mutevole (per esempio la statura di un uomo). E il predicato essenziale dell'anima è la VITA.
Dire che l'anima è mortale è come dire che il ferro è di legno, che la neve è calda, che il numero 3 è pari, ossia una contraddizione. Se si ammettesse una contraddizione, evidentemente l'oggetto perderebbe ogni significato. Un conto è dunque parlare di una relazione tra soggetto e predicato e un conto è quando il predicato sia PARTE ESSENZIALE del soggetto. Esiste dunque un legame molto stretto tra anima e vita, che si traduce in tre conseguenze:
1) l'anima è IDEALE e non ha nulla a che fare col mondo naturale;
2) l'anima è AUTOCINETICA, ossia si muove da sé, è indipendente dal corpo;
3) l'anima è sede del logos, del pensiero razionale e come tale AUTOCOSCIENZA e unità essa stessa della coscienza: tutte le percezioni sono unificate all'interno del soggetto. Dal punto di vista logico queste quattro argomenti non possono essere veramente considerati delle prove vere e proprie, sia perché la conclusione non si può separare dalle premesse, sia a causa della sostanziale natura ideale dell'anima platonica, che ovviamente esclude ogni presupposto fisico e oggettivo. Da un punto di vista etico, l'immortalità dell'anima è fondamentale per la condotta della vita. Se l'anima infatti fosse mortale, gli uomini sarebbero condannati ad avere una sola occasione di vita e i malvagi morirebbero malvagi (NOMINALISMO ETICO). Invece, proprio perché l'anima è immortale, gli uomini sono spinti alla cura di sé e alla purificazione (UNIVERSALISMO ETICO) e a far dipendere il loro futuro dal tipo di direzione che essi daranno alla propria condotta morale.

PLATONE - LEZIONE 23
Le passioni e l’amore
Il Simposio e il Fedro

23.1 - L’attività che dirige la coscienza verso la forma ideale degli oggetti implica l’intenzionalità dell’anima e la trascendenza del mondo. A differenza di altri filosofi, Platone ritiene che le cose esistano a prescindere dalla nostra attenzione verso di esse (anti-soggettivismo) ma bisogna anche sottolineare che per Platone, e anche per Socrate, conoscere non equivale a contemplare in maniera astratta le cose: come abbiamo visto nel Carmide la conoscenza implica una tensione della coscienza verso un oggetto esterno a essa. La forma che dà forza a questa tensione, al desiderio, è l’amore o EROS, cioè la forza che attrae, che aggrega gli elementi. Il Simposio inizia con una riunione conviviale - donde il titolo del dialogo - per festeggiare la vittoria in una gara di poesia. Nel corso del banchetto, come era usanza, il protagonista Fedro ottiene da Socrate il permesso di introdurre un tema di discussione per intrattenere gli ospiti, che è appunto la scienza dell’amore. La discussione parte da un ambito materiale e arriva allo spirituale, inizia dalle passioni per giungere a un concetto di amore come aspirazione alla bellezza e alla verità. Ma va detto che nel dialogo non vengono escluse forme imperfette di amore  a vantaggio di quelle perfette, se l’amore corporeo è visto come una forza vitale e generatrice, che conduce all’ambizione, all’ardimento, al coraggio, l’amore celeste si rivolge alle anime, alla sobrietà, per accogliere l’intelligenza e la virtù. Lo stesso sapere naturale, quello che ha ispirato la scienza eraclitea e pitagorica, mette in evidenza l’amore come coincidenza degli opposti. Nessuna di queste tesi riesce però a rispondere alla vera domanda del dialogo: come nasce l’amore, ossia, quale CAUSA spinge le cose ad attrarsi, quale forza motrice dà il via al desiderio. Innanzitutto bisogna distinguere l’eros, cioè il cosiddetto amore passionale, dall’AGAPE (questa parola non compare in Platone poiché risale al primo Cristianesimo), ossia l’amore che si offre al prossimo senza aspettarsi nulla in cambio, e dalla PHILIA, l’amicizia, che è una forma di amore simile all’eros poiché esige di essere ricambiata. L’intervento di Aristofane nel dialogo guida quindi la conversazione alla ricerca dell’essenza del desiderio.
Aristofane racconta che un tempo gli esseri umani erano unici, cioè androgini, ma poi Zeus per punirli li separò e da allora ognuno cerca la sua metà perfetta: questo desiderio si chiama amore e il suo soddisfacimento si chiama felicità. Il racconto di Aristofane porta il dialogo a una svolta decisiva, mettendo in evidenza due aspetti, il primo è la percezione, nell’amore, di una mancanza, di una insufficienza, che deve essere colmata; il secondo riguarda la natura SIMBIOTICA degli uomini per la quale ognuno di noi è la metà perfetta di un unico ente: Platone usa proprio la parola SYMBOLON, simbolo, che deriva dal verbo greco SYNBALLO (metto insieme, unisco), nel preciso significato di un segno di riconoscimento, cercato da una metà che cerca l’altra sua metà per riunirsi in un tutto unico: la mancanza di questa metà conduce a una ricerca instancabile della propria metà perfetta. Si tratta di un concetto significativo ma ancora superficiale: Aristofane ci dice infatti che l’eros è in pratica la ricerca di qualcosa che non abbiamo, e ci porta verso la soddisfazione di un desiderio.
Osserva Platone - facendo parlare il suo maestro Socrate - che Eros non è un dio e nemmeno un mortale. Egli è figlio di PAROS (abbondanza) e di PENIA (povertà). Eros è il vero filosofo che non è mai sazio di sapere, poiché non ha ancora raggiunto la sapienza: in questo senso Socrate corregge Aristofane, spiegando che l’amore non è la soddisfazione di un desiderio ma è lo stesso desiderio. A ispirare la prospettiva socratica, durante il simposio conviviale in onore di Agatone, è il logos maieutico di Diotima di Mantinea - forse invenzione letteraria di Platone - una sacerdotessa del V secolo che del giovane Socrate fu maestra della filosofia dell'eros e che aveva anche il merito di aver ottenuto dagli dei di poter posporre di dieci anni la pestilenza che avrebbe colpito Atene. È proprio Diotima a evidenziare come Eros non sia un dio o un essere morale ma proprio un demone, come lo intendeva Socrate, nel senso di impulso ad agire. È quindi la stessa Diotima a trovare la mediazione tra le posizioni contraddittorie dei simposiasti, ponendo in evidenza le diverse gradazioni dell'eros fino al momento più elevato della bellezza in sé e della kalokagathìa (dal greco καλός καi αγαθός, kalòs kai agathòs, cioè bello e buono) ossia l'aspirazione alla bellezza e alla virtù come scopo nella vita. Ma il discorso di Diotima si interrompe nel dialogo per l'ingresso del komos (il corteo dionisiaco) di Alcibiade, che allontana la serietà del discorso (verrà ripreso nel Fedro) in un'atmosfera di sfrenatezza e di ebbrezza. Questa situazione dà una svolta al dialogo, con la dichiarazione d'amore omosessuale del giovane eromenos (bello) Alcibiade) per il vecchio erastes (brutto) Socrate, che Platone motiva nell'attrazione della bellezza intellettuale. L’uomo dunque non raggiungerà mai l’oggetto del suo desiderio poiché se così fosse l’amore smetterebbe di esistere, e non avrebbe senso alcuno il ruolo dell’uomo come amante, cioè come vero filosofo. Proprio nella tendenza dell’amore alla ricomposizione, alla riconciliazione, si esprime la tendenza alla PERPETUAZIONE DELL’ESSERE attraverso la specie. La corruttibilità del corpo e l’immortalità dell’anima sono mediati dalla funzione riconciliativa dell’amore inteso come anelito al Bello, non soltanto la bellezza fisica, trasmessa dai canoni della cultura o dell’arte, ma sopratutto il fine ultimo della bellezza in sé, intesa quale visione o forma (eidos appunto) che unisce in sé l’aspetto estetico, quello conoscitivo e quello etico. Qui va detto che Platone sta mettendo volutamente in risalto l’aspetto pubblico della bellezza rispetto al privato, poiché nel privato essa perderebbe di questi significati.
La bellezza va vissuta con gli altri, va contingentata alle nostre esperienze di vita, va condivisa e compartecipata. in tal senso l’amore è l’oggetto stesso della vita, che agisce e opera in vista del bene comune.

23.2 - Nel Simposio emerge dunque il concetto di amore come desiderio di unità. Il fanciullo Eros, figlio di Penia, la mancanza, desidera ricongiungersi al padre Paros, l’abbondanza: questo è l’obiettivo dell’anima che desidera ardentemente tornare al mondo delle idee da cui ha origine, e quindi la missione del filosofo, quella cioè di conoscere. Nel Fedro Platone esamina proprio la partecipazione soggettiva, non solo nel sentimento propriamente detto ma anche nella conoscenza. Infatti è il desiderio, quindi la passione, il vero demone della conoscenza razionale, l’elemento che spinge l’uomo a cercare la verità. Il Fedro inizia con un confronto tra il protagonista, un giovane ateniese appassionato di arte del discorso, e Socrate, che si svolge in luogo particolarmente suggestivo, la valle dell’Ilisso, a est di Atene. Qui Fedro racconta a Socrate di aver assistito al discorso pronunciato da Lisia sull’amore, nella fattispecie il problema affrontato da Lisia era se fosse necessario concedere i favori amorosi a chi era davvero innamorato o a chiunque. Socrate apprezza molto la tecnica oratoria di Lisia ma spiega a Fedro che a nulla servono le capacità di persuasione se non sono supportate dalla conoscenza razionale e quindi orientate alla verità. A tale proposito è lo stesso Socrate, a capo coperto, a pronunciare un discorso che parte dagli stessi presupposti di Lisia - si parla anche in questo caso di una relazione omosessuale tra un giovane allievo e il suo precettore - partendo però da una distinzione fondamentale, tra ciò che è piacere e ciò che invece è bene. Ma Socrate non intende semplicemente contrapporsi a Lisia sul suo stesso terreno, egli vuole, come è intenzione di Platone, mostrare il vero significato di eros, facendo vedere a Fedro che si possono costruire bei discorsi (logoi) pur privi di qualsiasi presupposto razionale. Il Fedro infatti non si occupa direttamente dell’attività soggettiva, che viene anzi quasi data per scontata, ma mette in luce il modo in cui questa rischia di trasformarsi in un fine in sé, facendo coincidere l’atto col suo oggetto. La passione è effettivamente un impulso irrefrenabile, che si trasforma in vera follia quando manca il controllo razionale: a causa del carattere dinamico dell’anima non esiste un arresto di questo movimento. Ma questo aspetto non è sempre del tutto negativo quando la follia assume un carattere divino, come dice la sacerdotessa Diotima di Mantinea, già incontrata nel Simposio, poiché spesso produce grandi cose, per esempio nell’arte, nella vita spirituale, nelle conoscenze scientifiche, ci sono passioni che non sempre hanno bisogno di essere frenate. Occorre però chiarire in che modo un impulso amoroso irrefrenabile possa condurre alla conoscenza razionale. 
E a questa domanda Platone risponde facendo comporre a Socrate una palincodia (ossia un nuovo componimento poetico, in questo caso il terzo, che riprende le tesi precedentemente esposte) presentando così la famosa immagine dell’auriga. Rappresenta una biga, guidato da un auriga appunto, e trainata da due cavalli alati, uno bianco e uno nero. Le tre figure formano insieme un tutto unico. L’auriga simboleggia la ragione che guida l’uomo, mentre i due cavalli alati simboleggiano rispettivamente l’ardore e il coraggio (il bianco) e l’appetito e il desiderio (il nero). Platone mostra dunque un’anima divisa in tre parti, una egemone, o anima RAZIONALE, e due anime da essa dipendenti, l’anima IRASCIBILE e quella CONCUPISCIBILE. Il compito dell’auriga è quello di condurre la biga stando attento che vi sia equilibrio nell’andatura dei due cavalli, poiché le tre parti dell’anima tendono sempre alla medietà. Il ciclo di reincarnazioni a cui le anime sono sottoposte operano una purificazione che impedisce a qualsiasi anima di essere condannata, ma la condotta responsabilizza l’auriga, cioè la parte razionale, che deve mediare le altre due. Non si può impedire il movimento della biga, come non ci si può mai liberare della passione, ma l’anima razionale deve guidare all’equilibrio. L’anima perciò secondo Platone svolge un ruolo mediatore, una funzione cioè di equilibrio tra i sensi e la ragione, e questo ci riporta al problema della conoscenza, dei bei discorsi (logoi) poiché così come la passione smodata porta alla perdita di sé così anche la persuasione è nulla senza la verità, come Socrate faceva notare a Fedro all’inizio del dialogo. La bellezza corporea, si era visto nel Simposio, ha bisogno del supporto della bellezza ideale. Un discorso è bello e degno di amore se le immagini sensibili che esso suscita sono conformate a un procedimento razionale del conoscere, quale Platone ha espresso nella dialettica. La conoscenza deve essere equidistante dall’esaltazione e dallo scetticismo, estremi che non conducono al vero. Platone individua quindi una triade composta da amore, discorso e sapere, che fa da sfondo ideale alle successive implicazioni del suo pensiero sistematico. Infatti il filosofo è consapevole dell’indissolubile legame tra gli elementi di questa triade e sa che la vera retorica è quella che si esplica certamente a partire dal vero: un bel discorso è sempre un bel discorso, che può fare innamorare chi lo ascolta, ma resta effimero qualora non parta, come nel caso dell’orazione di Lisia, da presupposti razionali. 
Platone mostra nel Fedro come lo scopo della retorica sia proprio il recupero dell’unità organica del concetto: l’obiezione di Socrate al suo giovane amico è la consacrazione della dialettica platonica, che, attraverso la dissezione degli argomenti lisiani conduce all’individuazione della verità universale. Qui Platone opera una critica consapevole a Isocrate, giovane allievo promettente della sua scuola, che fallisce in quanto pur sapendo usare la techne retorica non conosce la storia che è base del discorso: vero discorso è quello che procede infatti per dissezioni o scomposizioni analitiche (in greco DIAIRESIS ossia separazione) pervenendo a una concezione unitaria (in greco SYNOPSIS) del sapere storico. Dopo aver chiarito che la vera retorica non può che essere legata a una concezione unitaria del sapere e sopratutto alla conoscenza filosofica, Platone consacra il primato dell’oralità negando qualsiasi validità ai discorsi scritti con l’esposizione del mito di Teuth, che chiude il Fedro. Racconta Socrate che un giorno il saggio egizio  Teuth si presentò al faraone Thamus facendogli dono della sua ultima strabiliante invenzione, la scrittura. Essa, spiega Teuth, avrebbe portato nuovi orizzonti di conoscenza. Ma Thamus rifiuta il dono, spiegando che solo il discorso orale è portatore della vera conoscenza, poiché la parola scritta è immobile. Qui si rivela probabilmente il vero Platone, che predilige un insegnamento esoterico in forma strettamente orale, non solo per questioni di tipo semantico ma forse anche per evitare che la parola scritta venisse travisata o alterata: solo un discorso orale è infatti vero, e lo studente ne può apprezzare ogni sfumatura, cosa che non capita alla parola scritta, immota. Conclusa la celebrazione dell’oralità il Fedro si conclude con l’invocazione a Pan e alle divinità del luogo ove Fedro e Socrate si trovano, con l’augurio che la Bellezza sia sempre parte della loro vita.

PLATONE - LEZIONE 24
L’allegoria della caverna e i gradi della conoscenza
Il Teeteto e la Repubblica (Libri VI e VII)

24.1 - Dopo aver evidenziato, nel Menone e nel Simposio, le condizioni soggettive della conoscenza, è necessario valutare se esse sono sufficienti a determinare un oggetto, e individuarne l’estensione e i limiti. Platone espone il contenuto di questa analisi nel Teeteto, dialogo dal vigore drammatico, ma che allo stesso tempo rivela il carattere di un vero saggio sistematico. Questo dialogo, del periodo della vecchiaia, è dichiaratamente anti-soggettivista e anti-sofistico: la sua asserzione fondamentale è che non può esserci scienza senza l’essere, opponendosi alla ben nota teoria sofistica che anteponeva la conoscenza sensibile a quella universale dell’idea. Il contenuto del dialogo rimanda, nella sua conclusione, al Sofista (e da qui poi al Politico), ed è idealmente anticipato dal Parmenide. Si può notare come, tranne poche modifiche, i personaggi restano gli stessi, rendendo la trilogia ben riconoscibile nel corpus platonico. La trama del dialogo prende le mosse da una serie di incontri, quello tra Teeteto, giovane matematico ateniese, ammalatosi durante la battaglia di Corinto, ed Euclide, e quello successivo tra lo stesso Euclide e Trespione, al quale Euclide cerca di raccontare i particolari di un incontro tra Teeteto, allora promettente allievo del matematico Teodoro, e l’anziano Socrate. Euclide non ricorda i dettagli dell’incontro, ma ha conservato degli appunti su cui ha riportato il processo verbale della conversazione. Il diciassettenne Teeteto viene presentato a Socrate dal suo maestro Teodoro di CIrene, che ne elogia le straordinarie doti di ragionamento. Socrate allora cerca di mettere alla prova il ragazzo chiedendogli cosa sia la conoscenza. Il ragazzo risponde che la conoscenza è la sensazione. 
Socrate si rende conto dell’insostenibilità della sua dichiarazione ma si accorge anche che il giovane è “gravido” e che vale la pena utilizzare il metodo maieutico. Dopo una critica al relativismo sofistico e alla dottrina eraclitea Socrate guida dunque Teeteto verso una definizione più adeguata di scienza, ottenendo altre due risposte: a) la scienza è l’opinione vera e b) la scienza è l’opinione vera di cui si sa rendere ragione. L’esito del dialogo è però APORETICO (si chiama APORIA l’impossibilità di dare una risposta certa per la presenza di due soluzioni, entrambe, sebbene opposte, apparentemente valide allo stesso tempo). Platone offre al lettore una minuta descrizione della cosiddetta “arte levatrice” usata dal suo maestro, mettendo in luce l’abilità del filosofo di riconoscere “lo stadio della gravidanza e le condizioni di salute del feto” come era solita fare Fenarete, la madre di Socrate, che svolgeva appunto il mestiere di ostetrica. Allo stesso modo di una levatrice il filosofo è in grado di riconoscere se il suo interlocutore è “gravido” ossia se nella sua mente sono presenti pensieri reali o solo fantasmi; qualora lo fosse, il filosofo userà la techne maietuica per farlo partorire, ossia per far pervenire l’interlocutore ad una definizione adeguata e universalmente coerente. A tal proposito Socrate rivolge a Teeteto la domanda “che cosa è la scienza?” ottenendo come risposta, dopo una serie di excursus di natura matematica, “la sensazione”. Questa risposta offre a Socrate lo spunto per una critica dell’eraclitismo e del relativismo che ha come obiettivo dimostrare la stabilità del vero mediante l’essere, inteso come universale, e l’anima, che ha facoltà di dare un giudizio sulle cose. Ma nonostante la discussione si sia evoluta arrivando a due ulteriori affermazioni (scienza è opinione vera secondo ragione), il dialogo è destinato a chiudersi nell’aporeticità a causa dell’ambivalenza della parola logos (cioè pensiero, discorso, analisi) che conduce comunque a una doxa, una opinione, rendendo impossibile il raggiungimento di una soluzione unitaria. Socrate conclude anzitempo il discorso, che riprende nel Sofista, poiché deve recarsi in tribunale per rispondere delle accuse di empietà rivoltegli da Meleto.
Platone nel dialogo afferma che non basta il possesso di un sapere causale stabile ben formulato nella nostra anima per parlare di conoscenza. E non basta nemmeno desiderare di raggiungere questo sapere. Occorre invece mettere alla prova le capacità dell’anima, per valutare quale sia la più adatta a raggiungere questo scopo. A prima vista si direbbe che la capacità più adatta sia la AISTHESIS, che ha un doppio significato in italiano, quello di SENSAZIONE, intesa come semplice risposta sensoriale a uno o più stimoli esterni, e quello di PERCEZIONE, intesa come apprensione dei fenomeni colti dai sensi, che necessita rispetto alla sensazione di un’attivazione da parte del soggetto, come di una coscienza elementare. Platone parte dunque dalla percezione sensibile, e qui ritroviamo il relativismo protagoreo secondo cui la conoscenza equivale all’opinione sensibile. Se ci sono i sensi, allora c’è oggettività, e quindi realtà. Secondo Protagora di Abdera la conoscenza è vera se supportata dalla percezione sensibile. Ma questa affermazione, ci dice Platone, non ha nulla a che vedere con l’episteme, ossia la conoscenza razionale, poiché non ha un carattere di universalità. Il singolo, nella sua individualità, è assolutamente libero di conoscere il proprio mondo privatamente, secondo le proprie regole e condizioni. Ma anche questa conoscenza alla fine risulta inaccettabile e per questo motivo Platone cerca di costruire una propria teoria della percezione basandosi sul pensiero di Empedocle e di Etraclito. I fenomeni percettivi sono in realtà degli eventi che accadono come conseguenza di due MOVIMENTI, uno passivo ed esterno e l’altro psichico e interno. La percezione sensibile, secondo Platone, ha infatti un carattere intenzionale, e si svolge in funzione di due variabili, organismo e ambiente esterno: qualsiasi modifica a una delle due variabili causa una differenza di percezione, per esempio due individui possono sentire il freddo o il caldo in maniera diversa. Per questo motivo la percezione sensibile ha sempre un carattere privato e assolutamente individuale. A differenza di Protagora Platone ritiene che percepire un oggetto non significa per forza conoscerlo. Percezione e oggettività non sono infatti allineate, poiché l’oggettività implica la COMPRENSIONE DEL SIGNIFICATO, che non ha nulla a che vedere con la sensibilità. I sensi sono semplicemente degli strumenti di cui l’anima si serve per percepire, ma non sono autonomi. Questa conclusione porta Platone ad affermare che la conoscenza non può dunque basarsi sulla sensibilità ma sulla RIFLESSIONE. Passando a un livello superiore, quello dell’OPINIONE VERA, le cose non cambiano. Infatti l’opinione è un giudizio, un atto del pensiero, che per quanto vero o falso non può essere mai confortato dalla certezza razionale: se due persone si trovano a un bivio e devono scegliere quale delle due strade percorrere, esprimeranno un giudizio, sulla brevità del percorso, che motiverà la loro scelta, così uno prenderà la strada A e l’altro la strada B; questo giudizio risulterà vero in un caso e falso nell’altro ma nessuno dei due può saperlo con certezza se non al termine del percorso. Come si ricorderà anche nel Menone Platone aveva chiarito che accettare un’opinione, per quanto vera, non significa dare all’opinione un carattere di validità: Platone distingueva molto chiaramente tra episteme e doxa alethés. 
Allo stesso modo un presunto colpevole viene giudicato in tribunale e spetta agli avvocati dimostrarne l’innocenza, e alla pubblica accusa dimostrarne l’eventuale colpevolezza: in entrambi i casi un giudice e una giuria non possono sapere, a meno che non venisse validamente dimostrata la flagranza del reato, se l’accusato è veramente colpevole. E qui abbiamo la svolta del dialogo: alla terza domanda rivoltagli da Socrate, il giovane Teeteto risponde che la scienza è l’opinione vera secondo ragione. In apparenza questa conclusione potrebbe apparire definitiva ma così non è. La ragione infatti può - tramite prove adeguate - dare validità all’opinione, nel senso che una corretta dimostrazione GIUSTIFICA l’opinione, ma nello stesso tempo non pul dare a questa opinione un carattere di universalità poiché non può dimostrare che le premesse del ragionamento sono veritiere. In tribunale un accusato potrebbe anche vedersi dimostrare la propria innocenza nonostante egli sia colpevole, basta che abbia dei bravi avvocati e delle prove utili a suo vantaggio. Viceversa un innocente potrebbe anche essere condannato per gli stessi motivi. L’impossibilità di una validazione certa delle opinioni è la causa della conclusione aporetica del dialogo, confinando la conoscenza nell’ambito della soggettività fino a quando non verrà dimostrato un rapporto diretto tra l’anima e gli oggetti.

24.2 - Il dibattito tra Socrate e Teeteto proseguirà nel Sofista, ma la rappresentazione del rapporto tra la conoscenza e i suoi oggetti viene rappresentato, mediante immagini, nella Repubblica, attraverso due esempi: la metafora della linea e l’allegoria della caverna. In questi due esempi il modello percettivo viene svuotato del carattere empirico per assolvere la funzione di presentare in modo organico e unitario le relazioni tra gli oggetti, assumendo una funzione simbolica. Platone ha già chiarito, nel Menone e nel  Teeteto, che non basta la presenza di un sapere causa ben strutturato nella nostra anima o il voler arrivare a questo sapere per parlare di conoscenza: sono necessarie delle capacità, che non si danno immediatamente all’uomo ma che sono frutto di un costante esercizio, che ha come traguardo l’innalzamento della conoscenza dai gradi più bassi a quello superiore. Platone raffigura questo percorso disegnando una linea verticale, tagliata da quattro segmenti, che separa due zone: a destra abbiamo le FUNZIONI DELLA CONOSCENZA (ossia come la conoscenza si presenta nei soggetti) mentre a sinistra abbiamo le FORME DEGLI OGGETTI (come appaiono gli oggetti nel processo conoscitivo). Il rapporto tra i due lati, cioè tra forme e funzioni dà origine alla struttura della conoscenza. Questa struttura consiste in quattro gradi, che procedono in ordine crescente da quello più basso a quello più alto, suddivisi in gruppi di due: quelli inferiori riguardano la conoscenza sensibile, materiale, o DOXA, quelli superiori riguardano la conoscenza intellettuale, scientifica, o EPISTEME. I quattro gradi sono:

1) IMMAGINAZIONE o CONGETTURA (eikasìa) - è il grado più basso della conoscenza, e riguarda le OMBRE o riflessi prodotti dalle cose, che possono essere scambiati per le cose stesse inducendo una confusione, come se noi scambiassimo l’ombra di una persona per la persona stessa;
2) CREDENZA (pistis) - a differenza dell’immaginazione o congettura, che è un atto passivo, la credenza è un vero e proprio atto di fede, un assenso, che permette al soggetto di avere un’opinione cioè di conoscere le cose sensibili; non si tratta ancora di una conoscenza universale, valida per chiunque, ma di una conoscenza soggettiva, empirica (fondata sull’esperienza sensibile) e contingente (cioè concreta);
3) PENSIERO DISCORSIVO (dianoia) - è il terzo grado della conoscenza e rappresenta il primo dei due gradi superiori, quindi siamo nell’ambito della conoscenza razionale, precisamente delle relazioni, cioè la capacità del pensiero di stabilire dei collegamenti tra le cose e di cogliere quindi gli enti intelligibili come i numeri e le figure;
4) INTELLEZIONE (noesis) - è la funzione più alta e riguarda le idee quali forme pure della conoscenza, pertanto si tratta di una conoscenza immediata (INTUIZIONE INTELLETTUALE) priva cioè di qualsiasi mediazione dei sensi che potrebbe indurre all’errore, ma di una immediatezza diversa da quella percettiva; qui infatti assistiamo a una fusione completa tra l’oggetto e l’atto di comprendere e per questo si tratta di una conoscenza universale.

Questi gradi sono raffigurati allegoricamente da Platone nel cosiddetto mito della caverna. Qui la condizione umana viene raffigurata simbolicamente da uno schiavo, incatenato all’interno di una caverna, in penombra, al cui interno sono presenti solo un fuoco, alcuni oggetti e altri schiavi incatenati, come il protagonista, con lo sguardo rivolto verso il fondo buio. Il fuoco proietta sul fondo della caverna le ombre degli oggetti, che gli schiavi considerano come cose reali e che sono le uniche cose che essi possono cogliere. Lo schiavo protagonista del mito si libera dalle catene e allora può guardare direttamente dietro di lui e vede che dietro di lui ci sono gli altri schiavi e le cose. A questo punto però la conoscenza delle cose non gli basta più e cerca l’uscita dalla caverna per estendere la sua conoscenza alle cose che stanno all’esterno di essa: ma la luce del sole lo abbaglia e lo costringe a fermarsi. I suoi occhi però, nonostante gli anni di oscurità, si abituano alla luce e così egli potrà contemplare le cose che sono fuori della caverna, dapprima indirettamente, poi direttamente, volgendo anche lo sguardo, per breve tempo, verso il sole. Si possono quindi identificare i seguenti simboli:

le ombre: le forme proiettate sul fondo della caverna
le cose sensibili: gli oggetti dentro la caverna
le idee discorsive: cose fuori della caverna colte indirettamente
le idee intuitive: cose fuori della caverna colte direttamente
l’idea somma: il sole e la luce.

PLATONE - LEZIONE 25
L’idea: la sua esistenza, la sua forma logica e i suoi rapporti col mondo sensibile. Il Parmenide.

25.1 - Nei dialoghi fino ad ora presentati abbiamo ricostruito le condizioni soggettive della conoscenza: 1) i concetti a priori tramite la reminiscenza (anamnesi) e l’immortalità dell’anima; 2) la motivazione alla conoscenza  attraverso l’amore (eros); 3) la dimostrazione e l’intuizione attraverso i gradi della conoscenza che portano all’intellezione (noesis). Adesso passiamo alla definizione del vero oggetto della conoscenza, ossia l’idea. Le domande che si pone Platone sono: 1) in che modo le idee sono pensate? 2) in che modo esistono rispetto alle cose? 3) come sono fatte? e 4) qual è il loro rapporto con il cosmo e la sua generazione? Alle prime due domande risponde il Parmenide, dialogo della vecchiaia, forse il dialogo più complesso e difficile della letteratura platonica, che racconta dell’incontro - molto improbabile - avvenuto ad Atene, in occasione delle Grandi Panatenee, tra l’allora giovane Socrate e i due maestri della Scuola di Elea Parmenide e Zenone. La prima parte del dialogo si apre con una dichiarazione polemica di Zenone che condanna la molteplicità degli enti. Se gli enti fossero molteplici, afferma Zenone, sorgerebbero infinite contraddizioni, poiché di ogni ente si dovrebbe dire che al tempo stesso è uno e molteplice, simile e dissimile, e via dicendo. Socrate interviene, obiettando che i molti possono certamente esistere, se però "partecipano" di certe "unità" da cui prendono il nome (per esempio chiameremo simili tutte le cose che "partecipano" all'idea della somiglianza). Non ci si deve perciò stupire se molte cose sono simili tra loro, continua Socrate, anzi, ci si dovrebbe invece stupire quando non lo sono. Ma Parmenide obietta al giovane interlocutore che la sua teoria mostra alcune difficoltà, e la prima riguarda proprio la natura stessa delle idee: le idee sono concetti elevati, assiologici, relative quindi a grandezza, bene, uguaglianza, o possiamo riferirle anche a cose ordinarie, tipo acuq, uomo, fango, e così via? Socrate appare perplesso. Parmenide continua, esponendo tre obiezioni:
1) una cosa che partecipa di un'idea partecipa di tutta l'idea o di una sola parte di essa? Socrate risponde che come il giorno illumina diverse terre e come un lenzuolo copre diversi uomini, così anche l'idea copre diverse cose, dividendosi in più parti.
2) se tutte le cose grandi sono simili poiché partecipano all'idea di grandezza, allora dobbiamo pensare che le cose grandi hanno qualcosa in comune, oltre  che tra di loro, anche con la stessa idea di grandezza? Se così fosse, continua Parmenide, ci dovrebbe essere sempre una nuova idea di grandezza che comprenda la cosa e le varie idee di grandezza che si succederebbero, in un processo all'infinito. Socrate risponde prima che le idee esistono solo nei pensieri, poi che sono solo dei modelli fissi di cui le cose sono copia, ma non riesce a evitare il paradosso.
3) come facciamo a conoscere le idee se noi possiamo pensare, attraverso l'esperienza, il solo piano sensibile, mentre le idee hanno natura ontologica? Se così fosse nessuno potrebbe conoscerle, neanche gli stessi dei.
La seconda parte del dialogo comprende l'indagine ipotetica sull'uno. Parmenide infatti accerta che la dottrina delle idee presenta diverse difficoltà, non ultima quella di non poter essere mai conosciute dagli uomini, e per questo motivo egli chiama in causa la giovane età di Socrate e il suo scarso allenamento filosofico. A tale proposito delinea un metodo argomentativo, per ipotesi, che presenta per ogni argomento due ipotesi, appunto, una affermativa e una negativa, di cui valuta tutte le conseguenze, allo scopo di evidenziare l'ipotesi vera da quella falsa. A fare da cvia a questo metodo è il giovane Aristotele, da non confondere con il filosofo omonimo, brillante giovinetto che diventerà uno dei Trenta Tiranni ateniesi. Il dialogo fra Parmenide e Aristotele, in forma diretta, verte sulle diverse conseguenze dell'esistenza o della non esistenza dell'uno, senza però approdare a nessuna conclusione. La conclusione del dialogo è perciò aporetica, come già accaduto nel Teeteto, e non giunge a una soluzione definitiva. Vediamo di seguito di trovare una risposta al problema della natura delle idee rispondendo dapprima a queste tre domane:
le idee sono cose?
le idee sono pensieri?
le idee sono modelli?

La prima definizione che Platone tenta di dare della natura dell’idea è che l’idea sia un oggetto, una cosa. Il titolo del dialogo non è casuale, il nome di Parmenide è infatti legato alla dottrina dell’ISOMORFISMO, dottrina secondo cui essere e pensiero corrispondono. Il problema di Platone è quello di individuare la natura delle idee attraverso il chiarimento del loro rapporto con le cose. Viene dunque formulata l’ipotesi secondo cui le cose sono partecipi delle idee, come se queste ultime si distribuissero sugli oggetti  e sui fenomeni “come delle lenzuola”, dando loro l’essere, ossia la possibilità di esistere, e accordando anche i nomi alle cose. Questo aspetto però fa emergere alcuni problemi. Il primo problema a emergere è il paradosso della cosiddetta REIFICAZIONE delle idee (da res, cioè cosa) secondo cui noi usiamo nel linguaggio comune dei concetti che non hanno un valore veramente universale, poiché la loro esistenza dipende dal linguaggio. Da questo problema ne emergono altri due. Il secondo problema è il paradosso dell’idea divisibile, secondo cui l’idea dovrebbe appartenere interamente a una cosa altrimenti la sua essenza non potrebbe esserle attribuita. Il terzo problema, che poi Aristotele chiamerà argomento del terzo uomo, riguarda la difficoltà di mettere in relazione idee e cose sensibili, per la presenza sempre di una terza idea a cui fare riferimento, in un processo all’infinito. In sostanza, il problema della partecipazione delle cose alle idee implica un doppio canale: non solo le cose partecipano alle idee ma anche il contrario. Questo aspetto però compromette la conoscenza della natura delle idee stesse.

25.2 - Dunque le idee non sono delle cose superiori alle altre. Si potrebbe dire che sono allora dei pensieri, quindi solo oggetti immateriali, non reali, della mente, usati per identificare le cose. In questo caso possiamo dire che il nome, che usiamo per classificare le cose, è solo uno strumento utile, che serve appunto solo per comodità a questo scopo. Il problema di questa affermazione è che se noi consideriamo le idee come dei pensieri, cioè come dei contenuti mentali, significa che esse hanno un carattere soggettivo e non oggettivo, ossia hanno valore solo per chi le pensa, valore che decade ovviamente appena noi smettiamo di pensarle. In questo caso allora se io chiamo un oggetto con il nome che io penso, questo nome vale solo per me stesso e non per tutti gli altri uomini che entrano in contatto con lo stesso oggetto. Verrebbe quindi a mancare la denotazione, cioè la possibilità di definire una classe di oggetti con lo stesso nome. Inoltre, considerare le idee come dei semplici prodotti della mente pone altre difficoltà. Infatti non possiamo considerarle in sé stesse, slegate cioè come estranee agli oggetti, e neanche staccate dagli oggetti a cui partecipano: innanzitutto non si può pensare il pensiero, e poi si pensa sempre un oggetto reale. 

25.3 - Scartiamo quindi sia la possibilità della reificazione (le idee sono cose), sia della idealizzazione (le idee sono pensieri). Se non sono né cose né pensieri potremmo avanzare l’ipotesi che siano dei modelli fissi. a cui le cose si riferiscono, degli archetipi. Dunque le cose sono copie delle idee? Non possiamo affermarlo: infatti se una cosa fosse copia dell’idea dovrebbe essere uguale all’idea stessa e non vi sarebbe ragione di distinguerla da essa. Se così fosse ogni volta che metteremo in relazione una cosa e la sua idea di riferimento dovremmo sempre trovare una nuova idea a cui riferire entrambe, in un processo all’infinito. Queste tre difficoltà dipendono però soprattutto dalla natura dualistica della filosofia platonica, che divide idee e cose in due mondi separati. Questa divisione ci porta a pensare che se tra idee e cose non ci fosse una relazione sarebbe inutile cercarla, poichè la natura di esse apparterrebbe a questo o all’altro mondo.

25.4 - Le idee non sono cose, non sono pensieri, non sono modelli. A questo punto sembrerebbe confermata la tesi di Parmenide, secondo cui la molteplicità non esiste, e davanti a noi si presentano due strade, o scegliamo la molteplicità, i sensi e l’opinione, e quindi l’impossibilità di conoscere per davvero, poiché la pluralità ci condanna all’errore, oppure scegliamo l’unità, le idee, che la perfezione, però è talmente elevata da allontanarci dalle cose sensibili. Appare chiaro che tra i due mondi ci DEVE essere una relazione. Ma in quale rapporto stanno questi due mondi? Che relazione c’è tra unità e molteplicità? In questa seconda parte del dialogo Platone presenta nove ipotesi, che riguardano la relazione fra uno e molti, e che sono in pratica una successiva articolazione delle tre possibili  relazioni tra uno e molti:
relazione tra uno e uno (tra uno e sé stesso)
relazione tra uno ed essere
relazione tra uno ed essere e non essere
La prima relazione mette l’uno in rapporto con sé stesso, e non può avere un carattere risolutivo poiché rende l’uno inconoscibile. A questa ipotesi, sterile, segue la seconda, più produttiva, che mette in relazione l’uno con l’essere. Questa ipotesi è feconda e produttiva perché l’unità non è più staccata dal molteplice, che anzi accoglie, permettendo il divenire (la generazione). La terza ipotesi è quella più perfetta, poichè introduce il tempo, ossia il momento in cui una cosa diventa un’altra cosa, assumendo il passaggio da ciò che era a ciò che è diventato un oggetto, e superando qui il non essere parmenideo, che non esisteva e non poteva essere pensato.

25.5 - L’argomentazione delle nove ipotesi conduce Platone a una soluzione, quella di considerare le idee in modo UNIVOCO sul piano ONTOLOGICO, , in cui tutto l’essere è riconducibile all’unità, e in modo EQUIVOCO sul piano LOGICO in cui l’essere si “frammenta” in essenza ed esistenza. L’idea platonica non ha infatti a che fare con il semplice aspetto formale, ma bensì è una vera e propria STRUTTURA, presente sia sul piano formale come eidos, cioè immagine, sia sul piano logico come idein, cioè funzione del pensiero. L’idea rappresenta dunque l’essenza di più cose simili tra loro, e allo stesso tempo esiste: quindi va considerata su due piani, quello univoco, in quanto cosa in sé e non conoscibile nella sua stessa essenza - piano ontologico - e quello equivoco della molteplicità, in cui svolge la funzione di raccordo - piano logico - tra più cose accomunate dalla medesima essenza. Per esempio: tutte le sedie - esistenti sul piano logico - sono accomunate dalla stessa essenza di sedia, cioè possono essere pensate come sedie, in base all’idea di sedia che “in sé stessa” - cioè sul piano ontologico - non può essere conosciuta. Quindi l’idea è non solo la rappresentazione di una certa cosa particolare, ma anche la rappresentazione di molte altre cose simili. La soluzione del dialogo è una conclusione ancora una volta aporetica, in quanto Platone chiarisce che non esiste una simmetria tra i due piani e quindi va a caolpire quell’identità di essere e pensiero che caratterizzava l’isomorfismo parmenideo: ma in questo modo non si svolge un corretto processo logico, che non potrebbe andare oltre i limiti del ragionamento per analogia, in cui i due termini modali di necessità e contingenza si sostituiscono ai concetti di universalità e particolarità, poiché lo stesso Platone chiude la possibilità di cogliere l’idea in sé stessa.

PLATONE - LEZIONE 26
La grammatica del pensiero come grammatica dell’essere
Il Sofista, il Politico e il Filebo

26.1 - Nella seconda parte del Parmenide la seconda delle tre ipotesi, quella riguardante il rapporto tra uno ed ente, permette all’unità di accogliere la molteplicità, la diversità e il divenire; inoltre lo stesso dialogo evidenzia che il senso dell’essere è univoco ma non assoluto, poiché esistono tante idee a cui le cose partecipano in gradi diversi. Nel Sofista Platone rende esplicita la molteplicità delle idee attraverso il concetto di COMUNANZA o KOINONIA, allo scopo di giustificare la molteplicità delle idee, valutandone gli effetti sulla molteplicità del reale, e valutarne i criteri di esclusione e di inclusione. Si tratta del superamento di una certa logica arcaica, che voleva il vero associato all’essere e il falso al non essere. Una simile divisione era impossibile poiché in questo modo il Sofista, protagonista del dialogo, colui che per professione diffonde il falso, non avrebbe potuto dire nulla e di questo nulla non si sarebbe potuto nemmeno parlare. Il dialogo, prosecuzione del Teeteto,  ha un carattere fortemente evocativo e ruota intorno a una figura misteriosa, lo Straniero di Elea, di cui si cerca di rivelare l’identità. La struttura logica del prologo del dialogo manifesta in modo esplicito la natura del problema: prima di definire chi è il Sofista occorre definire chi egli non è, violando il principio parmenideo dell’impossibilità dell’esistenza del non essere, sanando quindi le conclusioni aporetiche dei dialoghi precedenti. Le idee sono tra loro in rapporti diversi, fino a giungere a quelle cinque idee  più elevate e generali che Platone chiama i GENERI SOMMI: essere, identico, diverso, quiete, movimento. La gerarchia di questi generi è la seguente: al primo posto c’è l’essere, condizione di ogni esistenza, seguito dai generi di identico e diverso, in quanto ogni cosa si riconosce identica a sé stessa e diversa da tutte le altre; chiudono i due generi detti categorici, che non possono coesistere, in quanto la coesistenza di quiete e movimento genera contraddizione. I generi di identità e diversità sono logicamente co-originari all’essere stesso in quanto i due generi, pur dipendendo dall’essere, possono essere  ad esso attribuiti. Dire che una cosa è identica a sé stessa - ovvero determinandola - e diversa dalle altre - ossia distinguendola - rappresenta la vera condanna a morte della filosofia eleatica, poiché si ammette che una cosa è (la cosa stessa) e non è (un’altra cosa). Il principio della diversità  (questa cosa non è quella cosa) permette a Platone non solo di risolvere il problema del giudizio falso contrastando la Sofistica, ma di sostenere l’intera struttura logica della conoscenza, poiché solo attraverso il falso e l’errore si giunge al vero, che se fosse dato immediatamente apparirebbe dogmatico e privo di una efficace struttura dialettica a suo fondamento. Se confrontiamo direttamente due giudizi, uno vero e uno falso, per esempio “Mario parla” e “Mario è zitto”, appare chiaro che dobbiamo dare ragione ai filosofi di Elea, in quanto un giudizio falso e negativo equivale a qualcosa che non esiste. Ma se introduciamo il concetto di diversità le cose cambiano e il giudizio falso esprime qualcosa di diverso dal vero ossia di non fedele alla realtà. A fare da mediatore tra vero e falso è l’idea, che è sempre vera (idea di parlare, idea di silenzio): l’errore e quindi la falsità del giudizio scaturisce da una applicazione di due idee incompatibili allo stesso oggetto. In che modo evitare l’errore? Attraverso la DIALETTICA, l’arte che consente di cogliere le articolazioni ammissibili delle idee e le loro giuste relazioni, evitando di cadere nella contraddizione e nell’incompatibilità.

26.2 - Il parricidio di Parmenide, come viene chiamato il superamento del concetto eleatico di non essere, non si ferma al solo principio della diversità: nella relazione tra idee e cose esistono diversi gradi di collegamento, che ci permettono di identificare un determinato oggetto. Platone osserva dunque che ogni cosa è una IMITAZIONE dell’idea e più o meno la rispecchia. In tal senso il VALORE della relazione rappresenta l’esistenza di una cosa: se una cosa A imita più o meno un’idea A, diremo che la cosa A esiste in proporzione al grado di imitazione dell’idea corrispondente che funge da esemplare. Quanto più un oggetto è imitazione dell’originale quanto più esso esiste. A fare da criterio di misurazione è ovviamente l’idea più alta di tutte, ossia l’idea del BENE  o idea somma, a cui si coordina l’idea del BELLO, una ordina la giustezza e l’altra la perfetta interazione armonica, la loro unione - già citata nel Simposio -  viene detta kalokagathia. L’intersezione tra questi due piani e la rete di collegamenti e relazioni che ne deriva, ha bisogno del metodo dialettico per essere individuata, metodo di cui Platone dà una dimostrazione sia nel Sofista sia nel Politico. Si tratta di un procedimento di tipo discorsivo che sottopone il ragionamento a una serie di biforcazioni diversamente intrecciate. La dialettica platonica non si fonda, come nel caso della dialettica aristotelica, sull’uso delle categorie, ma assimila le idee a criteri valutativi, perciò essa può fungere solo da strumento ausiliario dell’intuizione, che deve sempre intervenire nella scelta della direzione da assegnare al ragionamento.     Il percorso dialettico si ramifica in due direzioni, una di tipo SINTETICO, ossia di riunione, che accorpa le cose più o meno uguali a una stessa idea, e l’altra di tipo ANALITICO, ossia di divisione, che separa di fatto l’idea tra le specie ad essa assimilabili. Questo procedimento caratterizza il percorso dialettico come una struttura DIADICA (cioè a due vie) con due importanti carateristiche: la prima è che si tratta di una STRUTTURA APERTA ossia il processo non giunge mai a una soluzione definitiva nella sintesi, la seconda è che pur appartenendo a un mondo diverso da quello sensibile le idee possono avere un significato solo attraverso il loro uso nell’intuizione del concreto di un’esperienza sensibile. Le idee non sono dunque degli elementi astratti ma costituiscono al tempo stesso oggetto e metodo, ossia fungono da criterio di valutazione e allo stesso tempo da direzione da seguire.

26.3 - L’ontologia, il discorso sull’essere, è garantito dalla presenza dei cinque generi sommi dell’essere di cui Platone parla nel Sofista: non si tratta di idee ma di strutture a priori, ossia elementi che devono venire necessariamente prima dell’esperienza per renderla possibile (se non ci fosse l’essere non potrebbero esserci altre implicazioni dell’esistenza, come la diversità e l’identità, la quiete o il movimento). A questi cinque generi Platone aggiunge nel Filebo quattro principi, con lo scopo di estendere il rapporto analogico tra le idee presentato nel Sofista al rapporto esistente tra i due mondi, tenendo conto della differenza tra di essi. La struttura logica del Filebo è diversa da quella del Sofista: qui avevamo l’esplicitazione della seconda ipotesi del Parmenide schematizzabile in due prospettive, una orizzontale, ascrivibile alle relazioni tra le idee e una verticale, ascrivibile ai rapporti tra i due mondi, mentre il Filebo fa riferimento alla terza ipotesi del Parmenide, e riguarda la relazione tra i due mondi. Tema del Filebo sono i piaceri e il concetto su come sia possibile limitarli per evitare che gli uomini si riducano come animali. Il concetto di MISURA può essere ricercato nell’essere, ricorrendo alle nozioni pitagoriche di LIMITE  e ILLIMITATO, che Platone trasforma in principi dell’essere.Vengono dunque individuati quattro principi costitutivi:
1 - il LIMITE, che corrisponde all’identico;
l2 - ’ILLIMITATO, che corrisponde al diverso;
3 - la CAUSA, che fa da mediatore tra identico e diverso;
4 - il MISTO, che è il prodotto di questa unione e corrisponde alla MISURA.
Sullo stesso piano dell’illimitato ideale Platone individua anche un quinto elemento, l’illimitato sensibile, corrispondente alla varietà e diversità della materia. A separare i due mondi è infatti il carattere della misura: nel mondo delle idee è presente una giusta misura ideale di tipo qualitativo, nel mondo sensibile è presente una misura relativa di tipo quantitativo. La differenza tra materia e misura ideale e materia e misura relativa allontana evidentemente in modo ulteriore i due mondi, quindi, per sanare questa separazione, occorre rivolgersi al Timeo. 

PLATONE - LEZIONE 27
Lo stato giusto, la cosmogonia e il problema del divino
La Repubblica (libri III e IV) e il Timeo

27.1 - La tripartizione dell’anima descritta nel mito dell’auriga non è una vera e propria divisione, infatti, se così fosse, l’anima sarebbe corruttibile, smentendo il terzo argomento a sostegno dell’immortalità (Fedone). Platone descrive queste tre anime come delle funzioni, simili alle diverse funzioni del corpo umano, che, pur essendo unico, muove le mani o la testa anche stando fermo: non è quindi tutto il corpo a muoversi, ma solo una delle sue parti. Ma, così come l’uomo non può compiere gesti contraddittori tra di loro, anche l’anima, nella sua unicità, non può avere funzioni - che Platone chiama PRINCIPI - opposte tra di loro. Questo aspetto rientra nella parte finale del quarto libro de La Repubblica, in cui Platone presenta il punto di raccordo tra psicologia e antropologia da un lato e psicologia e cosmologia dall’altro, attraverso la tesi socratica della coincidenza del significato politico e morale della vita dell’individuo e del cittadino. Platone, così come Socrate, affida all’indagine filosofica il compito di delineare la giusta condotta dell’uomo. La filosofia ha infatti un compito assolutamente pratico e questo significa che teorico e pratico coincidono e anche che la visione platonica dell’uomo è di natura pubblica, eredità della sua esperienza siracusana, visione che già emergeva nel Simposio a proposito del concetto di bellezza. Il privato riguarda solo la necessità di soddisfare i bisogni materiali dell’essere umano, il lavoro, la famiglia, gli affetti, ma è nella sfera pubblica che l’uomo realizza la libertà e la felicità: perciò Platone definisce l’uomo un animale politico. Di qui la condanna inevitabile del carattere individualista dato alla politica da alcuni Sofisti minori, tra cui Trasimaco, che ritenevano la politica solo come utilità, come realizzazione degli interessi personali: ma se così fosse non avrebbe senso parlare di politica. Platone ritiene che il politico sia come un artigiano che sa fare bene il suo mestiere: la sua bravura non consiste nel profitto che ricaverà ma dalla bontà del suo prodotto. E il compito del politico è quello di “fare la giustizia” nella sua comunità.
Platone delinea uno stato ideale simile a un grande organismo vivente, in cui ogni individuo non può bastare a sé stesso. La giustizia è data dall’armonia tra le sue componenti, ognuna delle quali esercita una funzione in base alle sue attitudini, alle sue competenze, ai suoi bisogni. La competenza è fondamentale: il sapere non è qualcosa di individuale ma viene messo al servizio della comunità. Il macrocosmo sociale dello stato si allinea perciò al microcosmo psico-biologico dell’anima individuale. In base alla tripartizione delle funzioni dell’anima avremo tre classi sociali: quella dei GOVERNANTI, in cui prevale l’anima razionale, che ha il compito di guidare la comunità; quella dei GUERRIERI,  in cui prevale l’anima irascibile, dotati di coraggio e di ardimento, che ha il compito di difendere e di proteggere la comunità; e infine quella dei LAVORATORI, ossia artigiani e commercianti, in cui prevale l’anima concupscibile o appetitiva, che ha il compito di produrre i mezzi di sussistenza per la comunità. Platone non assegna all’economia un valore etico-politico, in quanto l’arte di sopravvivere non è una virtù ma solo una necessità. Nello stato ideale platonico l’aspetto culturale e quello conoscitivo costituiscono la fonte primaria dell’armonia tra le diverse componenti, infatti gli stessi governanti devono possedere le conoscenza più alte, necessarie al governo della comunità, di cui la filosofia è ovviamente portatrice.
Accanto alla teoria dello stato ideale Platone delinea una teoria della società, spesso semplicisticamente definita dalla più recente critica filosofica come COMUNISMO PLATONICO. Si tratta di una definizione impropria, sopratutto per l’abissale differenza con il comunismo politico nato col pensiero di Marx: in Marx infatti il lavoro era considerato uno strumento di emancipazione della classe operaia, mentre nella teoria platonica della società la classe dei lavoratori non solo è la più bassa ma il produrre mezzi di sussistenza per la comunità costituisce per Platone un fatto privato, in cui il lavoro non ha alcun significato etico-politico. Nella teoria della società disegnata da Platone la proprietà privata spetta solo alla classe dei lavoratori, mentre i guerrieri ed i governanti sono obbligati a una comunione delle proprie risorse, delle donne e dei figli. L’educazione è pubblica e inizia subito dopo la nascita, a cura dello stato stesso: musica e ginnastica sono materie di studio obbligatorie per tutti i cittadini, mentre i cosiddetti guardiani della comunità, cioè i guerrieri, devono conoscere anche la matematica, l’astronomia e la filosofia. Le cosiddette arti imitative sono bandite se intese come una copia della copia, ossia riproduzione della realtà che è già di suo una copia delle idee, ma sono ammesse se il loro scopo è quello di incoraggiare l’esercizio e predisporre la conoscenza. Inoltre i vari aspetti della vita civile come il matrimonio e la procreazione sono regolati dallo stato, che si incarica anche di ridistribuire le ricchezze per evitare un’eccessiva distanza tra ricchi e poveri nella classe dei lavoratori, altrimenti causa di disarmonia e squilibrio. 

27.2 - La dimensione politico-sociale trova una netta corrispondenza nella costituzione della cosmologia, come si nota dalle seguenti relazioni:
anima - cosmo individuale - psicologia
città - cosmo intersoggettivo - politica
universo - cosmo fisico - cosmologia
Nel Timeo Platone spiega, in maniera epica, la nascita dell’universo fisico, cioè il mondo della sensibilità. A formare il mondo delle cose è il DEMIURGO, che, guardando alle idee e sopratutto all’idea somma, quella del bene, forma dapprima l’ANIMA DEL MONDO e poi il CORPO DEL MONDO, costituito dai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco). Dall’anima e dal corpo del mondo nascono le anime e i corpi degli esseri viventi. Questi ultimi sono in continuo divenire, a causa del MOVIMENTO  dei quattro elementi in modo proporzionale, e per regolare il processo di trasformazione viene creato il TEMPO - che Platone definisce immagine mobile dell’eternità poiché è riflesso del mondo delle idee dove tutto è eterno e immobile - quale ordine perfetto del moto circolare di tutte le cose celesti e quale ordine imperfetto del moto irregolare di tutte le cose terrestri. 
La natura dei quattro elementi che formano i corpi è geometrico-matematica, e si sviluppa in una dimensione PIANA e BIDIMENSIONALE corrispondente alla superficie, e in una SOLIDA e TRIDIMENSIONALE, corrispondente alla profondità, attraverso la figura regolare e perfetta del TRIANGOLO. Dalla combinazione di diversi triangoli si generano le FORME STEREOMETRICHE REGOLARI: il tetraedro o piramide (fuoco), il cubo (terra), l’ottaedro (aria) e l’icosaedro (acqua). Il quinto poliedro regolare, il dodecaedro, è la figura più perfetta perché la più vicina a quella della SFERA e raffigura l’immagine del cosmo intero, immagine che poi verrà assimilata alla QUINTESSENZA.
Il Timeo è  l’opera di Platone più vicina al pensiero cristiano e in generale alle dottrine religiose creazioniste, in quanto la cosmogonia platonica divide il creatore dalle cose create, diversamente dalle concezioni panteiste in cui Dio viene fatto coincidere con le cose create. Occorre però definire alcuni aspetti importanti della cosmogonia platonica. In primo luogo il demiurgo non crea dal nulla.: le idee, la materia, lo stesso concetto di bene, sono preesistenti alla creazione. Il demiurgo è quindi una specie di formatore, o di plasmatore della materia, sulla base delle idee. La materia non va intesa in un senso realistico e negativo, ma come la potenzialità del divenire, il ricettacolo che accoglie le forme perfette delle idee per farne cose sensibili. Essa non può essere definita oggettivamente, ma colta solo attraverso il ragionamento. Il demiurgo non crea con un atto necessario, causale o meccanico, ma per sua libera scelta, come atto d’amore, il cui fine ultimo è il bene. Egli crea il migliore dei mondi possibili, contemplando la purezza dell’essere del mondo delle idee, da cui deriva la forma degli animali visibili, ossia i corpi celesti, e degli animali sensibili, ossia il mondo delle cose, secondo la proporzione geometrica 8:12=18:27, dove i numeri estremi 8 e 27 sono i più piccoli numeri solidi (2 al cubo e 3 al cubo). Si tratta di una concezione geometrica continua, in cui l’identità dei rapporti corrisponde alla diversità progressiva dei termini (8:12=12:18=18:27). Pur avendo i due mondi natura diversa esiste tra di essi una similitudine nei rapporti geometrici, con una analogia trascendentale.

27.3 - Secondo un’interpretazione delle dottrine non scritte di Platone le idee avrebbero una struttura affine a quella dei numeri e si fonda su due principi, l’UNITA’ corrispondente al bene, al limite, all’identico e la DIADE INDEFINITA corrispondente al male, all’illimitato, al diverso. Questa particolare interpretazione matematica del pensiero platonico allontana il pensiero del filosofo dai contenuto programmatico del suo corpus dottrinale, trasformando la filosofia platonica in una scienza logico-deduttiva, schiacciata sulle filosofie successive.

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1B - U5
Aristotele

ARISTOTELE - LEZIONE 28
Biografia e “corpus aristotelicum”

28.1 - A differenza di quello platonico il sistema filosofico aristotelico non intende rappresentare la realtà ma vuole essere la realtà stessa. La realtà perù è complicata dal molteplice che ne rende variabili i diversi aspetti: per questo motivo è necessario che venga definita una logica accurata che consenta di comprendere nel modo più rigoroso possibile tutti questi aspetti. Come in un dipinto di Mondrian la realtà è un intreccio di linee geometriche che delimitano diversi spazi. Noi non possiamo saltare da uno spazio all’altro liberamente, così dobbiamo imparare a conoscere le regole che li delimitano e li collegano tra di loro. Questo è il compito della filosofia.
Aristotele nasce a Stagira, nella penisola calcidica, non lontana dall’odierna Salonicco, nel 384 a.C., all’alba del predominio macedone sulla Grecia. Le notizie che abbiamo non sono autobiografiche come nel caso di Platone, ma dobbiamo ricavarle da diverse fonti. Si lui sappiamo che il padre era medico personale del re; Aristotele respirò quindi fin da piccolo il clima culturale della corte macedone, avverso alla concezione classica della politica ateniese, ma, dopo la morte del padre Nicomaco, fu affidato alle cure di uno zio in Asia Minore. Fece quindi ritorno, diciassettenne, ad Atene, dove fu allievo dell’Accademia platonica, presso cui rimase fino alla morte del maestro, proprio nel periodo in cui - mentre Platone era impegnato nel suo secondo viaggio in Sicilia - la direzione dell’Accademia era affidata al grande astronomo Eudosso di Cnido, che per il giovane Aristotele fu un maestro di scienza. Dei suoi rapporti con Platone occorre dire che tra maestro e allievo, nonostante le divergenze dottrinali, ci fosse molto rispetto, anche se vanno ritenute infondate le voci di una presunta influenza aristotelica nel pensiero dell’ultimo Platone; è vero invece l’opposto, ossia che Aristotele trasse molta ispirazione dal platonismo tanto da individuare una fase platonica nel pensiero aristotelico. La formazione del giovane Aristotele viene segnata dall’avvento della conquista macedone della Grecia ad opera di Filippo II, che piega la città di Atene nella battaglia di Cheronea e poi del suo successore Alessandro. Conseguenze dell’espansione macedone furono il tramonto dell polis e l’universalizzazione della cultura greca, esportata in buona parte delle terre toccate dall’esercito macedone. 
A causa della sua vicinanza alla corte macedone e in aperta polemica con Speusippo, erede designato e nipote del fondatore, Aristotele viene costretto a lasciare l’Accademia e si trasferisce ad Asso, in Asia Minore, dove inizia a dedicarsi all’approfondimento degli studi naturalistici; viene quindi chiamato da Filippo come precettore del figlio Alessandro. Tra i due non ci fu mai un vero rapporto di discepolato, a causa della distanza culturale e politica delle loro idee. Tornato ad Atene, ormai lontano dall’ambiente dell’Accademia platonica, diretta ora da Senocrate, fonda una scuola tutta sua, il Liceo o Peripato, caratterizzata dallo studio delle discipline naturalistiche come la biologia, l’astronomia e la medicina. Morto Alessandro il potere fu preso da fazioni anti-macedoni che non vedevano di buon occhio i legami di Aristotele con il suo ex allievo. Accusato di empietà Aristotele fu costretto a lasciare Atene e a rifugiarsi presso l’isola di Eubea, dove morì nel 322 a.C.. 

28.2 - Gli scritti aristotelici presentano diversi problemi di ordine filologico, a causa della loro frammentarietà, del numero ridotto e dell’incertezza nell’attribuzione; a ciò si deve aggiungere anche la sorte rocambolesca delle opere, affidate post mortem al discepolo Teofrasto e pervenute dopo svariati  incidenti di percorso, non ultimi gli incendi che distrussero la Biblioteca di Alessandria, che sono una delle cause della difficoltosa ricostruzione della letteratura aristotelica. A differenza del corpus platonico, costituito dagli scritti essoterici, le opere di Aristotele ci sono pervenute infatti in numero ridotto e a costituire il cosiddetto corpus aristotelico sono sopratutto gli scritti esoterici - che sarebbero dovuti essere circa un migliaio e di cui ci restano solo 162 scritti - mentre delle opere essoteriche, tra cui quelle a carattere compilativo ed enciclopedico, ci sono pervenuti pochissimi frammenti. 
Occorre anche sottolineare che gli scritti, oltre a non essere particolarmente esaustivi dal punto di vista scientifico, essendo spesso dedicati a un uso didattico e quindi usati come tema di discussione più che come un manuale vero e proprio. In molti testi poi sono presenti scritti redatti da allievi della scuola, che si confondono con quelli originali. Alcune opere essoteriche sono di chiara ispirazione platonica, per esempio il CONVITO, SULLA GIUSTIZIA, il MENESSENO, e SUL BENE. Ci sono poi alcune opere che testimoniano il distacco dal platonismo: per esempio l’EUDEMO, sull’immortalità dell’anima; il PROTRETTICO o esortazione alla filosofia, e infine i tre libri di SULLA FILOSOFIA, vera e propria storia del termine sapienza pubblicati dopo la morte di Platone e in aperta e dichiarata confutazione della dottrina delle idee in favore della concezione dei gradi dell’essere, che si conclude con Dio quale causa delle cause e primo motore dell’universo.
Per ciò che riguarda gli scritti esoterici si usa una particolare classificazione che li raggruppa in base al loro argomento:
1) gli scritti di logica, che in epoca bizantina furono raccolti nel cosiddetto ORGANON (ossia strumento), comprendenti i TOPICI, sull’argomentazione e sul ragionamento dialettico, SULL’INTERPRETAZIONE, sulle proposizioni e i giudizi, le CATEGORIE, sui predicati primi, gli ELENCHI SOFISTICI, sulla dimostrazione e confutazione dei ragionamenti sofistici, gli ANALITICI PRIMI sul procedimento deduttivo e gli ANALITICI SECONDI sul procedimento induttivo;
2) gli scritti di fisica, relativi ai corpi materiali in relazione allo spazio, al tempo, al movimento, cioè a tutto ciò che concerne il divenire, di storia naturale e di matematica, comprendenti la FISICA, SUL CIELO, SULLA GENERAZIONE E CORRUZIONE, la STORIA DEGLI ANIMALI, METEOROLOGICA, SULLE PARTI (...)  DEGLI ANIMALI;
3) gli scritti di psicologia, affiancati agli scritti di fisica, perché riguardano l’anima come forma del corpo, comprendenti SULL’ANIMA  e PARVA NATURALIA;
4) gli scritti di metafisica, la filosofia prima, che contengono essenzialmente l’ontologia aristotelica, comprendenti tutti i quattordici libri della METAFISICA, titolo probabilmente attribuito in modo arbitrario dai discepoli del filosofo, che con tutta probabilità aveva contrassegnato i quattordici tomi con titoli diversi, e quindi accolto da Andronico di Rodi;
5) gli scritti di etica, nei quali Aristotele presenta il secondo genere di razionalità, ossia la ragione pratica, intesa come saggezza e virtù etica quale giusto mezzo, comprendenti l’ETICA NICOMACHEA, l’ETICA EUDEMICA e l’opera apocrifa GRANDE MORALE;
6) gli scritti di politica, dove Aristotele espone la sua teoria dello Stato e delle forme di governo, comprendenti la POLITICA e LA COSTITUZIONE DEGLI ATENIESI (incompleta);
7) gli scritti di retorica e di estetica, che concernono il terzo genere di sapere dopo quello teoretico e quello pratico, il sapere poietico, che ha per oggetto l’arte, riabilitata dopo la svalutazione platonica, comprendenti la RETORICA  e la POETICA.

ARISTOTELE - LEZIONE 29
Le critiche a Platone, lo spirito di sistema 
e l’indagine scientifica della natura

29.1 - Le divergenze dottrinali tra Platone e Aristotele sono state nel tempo oggetto di strumentalizzazioni, sopratutto nel periodo rinascimentale, tanto da confondere le vere ragioni della distanza tra i due filosofi. Tali ragioni possono essere riassunte come di seguito:

REALISMO (oggetto dell’indagine scientifica deve essere il mondo sensibile e fenomenico, i suoi enti individuali ed i suoi aspetti generali universali) - Se l’orientamento del pensiero platonico fu di tipo dialettico e politico, dominato dalla figura di Socrate, l’interesse di Aristotele è sopratutto scientifico e naturalistico, volto alla definizione e alla classificazione dei fenomeni, i cui principi vanno ricercati, a differenza di Platone, all’interno della realtà sensibile, unico e solo oggetto della conoscenza; quello aristotelico è chiamato un REALISMO MODERATO o EMPIRICO, in base al quale l’essere esiste distributivamente, ossia in relazione ad enti individuali e ad aspetti generali o universali che possono essere unificati solo logicamente, per differenziarlo dal REALISMO ASSOLUTO di Platone, in cui la sola vera realtà era l’idea e la realtà sensibile era ammessa in quanto partecipava dell’idea. In poche parole mentre nella filosofia platonica l’essere ha un solo significato, in quanto l’idea è univoca, nella filosofia aristotelica dobbiamo specificare un aspetto individuale e uno di natura generale.

RAZIONALISMO (se l’oggetto dell’indagine scientifica non ha un carattere univoco la razionalità non può limitarsi al solo aspetto teoretico ma deve anche contemplare altri saperi, come quello legato all’agire e quello legato al fare) - Alla base della divergenza tra Platone e Aristotele si trova sicuramente la distinzione tra univocità e molteplicità, che porta Aristotele ad accusare Platone di rifiutare un’indagine propriamente scientifica della natura per concentrarsi sull’identificazione dell’idea unico oggetto della conoscenza teoretica; di qui la distinzione tra l’univocità razionale platonica, praticamente una ragione a senso unico che considera l’idea quale unico possibile oggetto di vera conoscenza, e la molteplicità razionale aristotelica, che considera tre aspetti, quello teoretico dell’essere, quello pratico della morale e dell’etica e quello poietico del fare, ossia delle arti.

DUALISMO (la vera realtà è quella che possiede un’esistenza unitaria e non possono esistere duplicati) - Nonostante Aristotele entri nell’Accademia nel momento in cui la fase di revisione della prospettiva dualistica sia già avviata non può fare a meno di criticarla, ritenendo l’idealismo platonico e la teoria della separazione tra i due mondi non solo inutili a spiegare il reale ma perfino dannosi in quanto offrivano una visione raddoppiata della realtà, che è una; da qui anche la critica al vano tentativo di riunificazione dei due mondi dopo la loro separazione. Aristotele sottopone a critica anche la concezione cosmologica espressa dal Timeo, che lui stesso usa per alcune conoscenze di natura astronomica.

LOGICA (l’indagine naturale deve essere supportata da un rigoroso metodo scientifico) - Aristotele sente la mancanza di un metodo rigoroso e scientifico per lo studio della natura. Egli condanna la dialettica diairetica platonica sia per la sua natura circolare  sia per la sua natura ipotetica e induttiva, che non conducono mai a una certezza definitiva. Occorre dire che comunque Aristotele non rifiuta il procedimento induttivo, pur ritenendo più opportuno un metodo deduttivo, sposando una prospettiva analitica dell’induzione, in cui l’idea, che viene intesa aristotelicamente come forma, non è più trascendente e può quindi essere pensata (astratta) dall’intelletto come la parte universale di un ente individuale. Con l’astrazione l’anima entra in possesso dei principi primi da cui partire per la dimostrazione: così la dialettica diventa un efficace strumento di appoggio per il procedimento deduttivo. 

SINGOLARI E UNIVERSALI (l’estensione del metodo scientifico alle cose naturali prescinde dagli aspetti singolari e accidentali dell’individuo per studiare quelli universali, ossia ciò che hanno in comune individui con le stesse caratteristiche) - Il rigore del metodo aristotelico esige che si passi dalla logica del singolare tipica del pensiero platonico alla logica delle classi, generi e specie. Mentre in Platone si parla di una logica intensionale, ossia basata sulle caratteristiche del singolo oggetto, nella filosofia di Aristotele -  che ha un approccio analitico - la logica non può prescindere dalla gerarchia di generi e specie, i cosiddetti universali. Alla logica deduttiva aristotelica interessano proprio questi aspetti generali, che accomunano più individui con le medesime caratteristiche.

29.2 - La distanza tra il sistema platonico e quello aristotelico si basa proprio su questi aspetti. Le idee sono viste da Aristotele come forme universali dei giudizi, immanenti la materia. Viene quindi a cadere non solo la loro trascendenza ma anche la loro univocità, oltre all’inutilità della divisione della realtà in due mondi. Dato il carattere deduttivo e dimostrativo della scienza aristotelica, non possono essere presi in esame gli aspetti singolari e individuali della realtà, in quanto le idee in senso platonico non hanno ragione di esistere, ma quelli universali relativi ai generi e alle specie. Ma questa pretesa classificatoria rigorosa ha trasformato il sistema aristotelico, secondo molti critici, in un sistema statico e chiuso, diverso dalla natura dinamica del sistema platonico. Il fatto è che mentre Platone è costretto a usare una logica  equivoca, a causa dei differenti significati dell’essere - non ultimo la differenza tra il senso copulativo e quello esistenziale - Aristotele, che fa coincidere il sapere autentico col ragionamento dimostrativo, usa una logica di tipo univoco, basata sul grado di inferenza o meno di un predicato nei confronti di un soggetto e declinata secondo una gerarchia di generi e specie. L’aspetto negativo di questo procedimento è chiaramente l’impossibilità di giungere al compito supremo di ogni filosofia scientifica, ossia quello di operare una vera e propria sintesi delle sintesi. La filosofia aristotelica non riesce ad arrivare a cogliere il principio dell’essere ed è costretta a sconfinare in un razionalismo teologico secondo cui la verità è interamente rivelata. Il razionalismo teologico rivela un interessante aspetto del sistema aristotelico cioè la concezione del vivere filosofico come fine a se stesso, interrompendo quell’unità della virtù, coincidenza di sommo bene e conoscenza, che aveva contraddistinto le filosofie di Socrate prima e di Platone poi. La separazione è netta: da una parte la conoscenza teoretica, fondata sul sapere dimostrativo e necessario, dall’altra il possibile e il probabile, che derivano dall’abitudine e dall’esperienza. Solo la conoscenza teoretica è veramente scientifica: in tal senso Aristotele si discosta dall’aspetto “decisivo” e motivazionale dell’eros platonico, dando più importanza a sophia, la sapienza, piuttosto che a philia, l’amare.

ARISTOTELE - LEZIONE 30
La Logica come scienza: dalle idee alle classi.
Le categorie tra logica e realtà.

30.1 - La filosofia aristotelica tende a un sapere unitario. La conoscenza per Aristotele si sviluppa come un organismo vivente, formato da tante scienze particolari che ruotano attorno alla metafisica, o filosofia prima, che si occupa dell’essere. A mantenere unite queste scienze particolari è un filo conduttore comune, costituito dalla LOGICA o ANALITICA, che si incarica di garantire lo stesso procedimento pur nella diversità dei contenuti. La logica funziona come il sistema nervoso di un organismo, ha cioè il compito di preservare la correttezza del ragionamento e delle dimostrazioni, che sono le condizioni formali di ogni conoscenza, ma non prescrive un contenuto, così come i nervi recano la sensazione al cervello ma non sono essi stessi la sensazione. Per questo la logica ha una funzione preliminare alla conoscenza, anzi, come la definisce Aristotele, di strumento (organon). I termini utilizzati - logica e organon - non sono propriamente aristotelici ma più recenti, risalirebbero il primo a Cicerone e il secondo ad Alessandro di Afrodisia; tuttavia sono usati comunemente dal VI secolo d.C. per designare il complesso degli scritti aristotelici sull’argomento. Il termine corretto è ANALITICA, che indica il metodo di risoluzione di una conclusione sulla base delle sue premesse fondanti, ossia che ne accertano la validità. La logica aristotelica ha degli aspetti innovativi e degli aspetti comuni alla logica antica. Tra gli aspetti comuni ricordiamo:

il carattere ONTOLOGICO della logica, relativo all’essere, un ragionamento dimostrativo conforme alla realtà che ci dice “com’è” una cosa; 
i PRINCIPI LOGICI, non semplici regole ma proposizioni vere o false; quando una proposizione è vera, ciò che viene asserito esiste realmente;
la corrispondenza tra grammatica, logica e psicologia, in quanto i principi logici sono LEGGI DI NATURA  e REGOLE DEL PENSIERO, dato che non vi è differenza tra l’ENUNCIATO (la lingua) e la PROPOSIZIONE (il linguaggio).

Accanto a questi aspetti Aristotele ne introduce due, atti a dare una rigorosità scientifica e una maggiore sistematicità alla logica:

lo sviluppo e la critica della dottrina delle idee di Platone, che arriva a una rinnovata concezione delle idee non più come enti intelligibili ma come generi e specie;
l’approfondimento della forma e delle relazioni, sintattiche e semantiche, che si istituiscono all’interno del linguaggio ordinario.

A tal proposito distinguiamo una PRIMA LOGICA, in cui sono assenti formule sillogistiche e variabili, una SECONDA LOGICA di transizione, caratterizzata dall’uso iniziale di sillogismi e variabili, e infine una TERZA LOGICA, che contiene una sillogistica modale e una metalogica dei sillogismi. La logica si sviluppa dunque in modo complesso e sistematico partendo da una struttura che si potrebbe definire atomica - relativa cioè alle parti semplici - per giungere a una struttura di tipo molecolare - relativa ai giudizi - e molare - relativa ai ragionamenti - dando luogo a una compagine articolata come segue:

CATEGORIE - i termini, le parole e i concetti, come soggetti e come predicati;
SULL’INTERPRETAZIONE - l’enunciato, la proposizione e il giudizio;
ANALITICI PRIMI - la struttura generale del ragionamento sillogistico;
ANALITICI SECONDI - il sillogismo apodittico, scientifico e dimostrativo;
TOPICI - sillogismo dialettico e ipotetico;
ELENCHI SOFISTICI - il sillogismo sofistico o fallace.

Nel sistema aristotelico sussiste, come si può notare, una stretta correlazione tra pensiero e linguaggio. Il discorso di cui si occupa la logica si articola dunque in:
 
(secondo una prospettiva psicologica)
CONCETTI, semplici rappresentazioni di cose o situazioni;
GIUDIZI, concetti dotati di posizione di realtà, in grado di motivare l’esistenza o la non esistenza di una cosa in un dato contesto;
RAGIONAMENTI, concatenazioni di giudizi formate da due proposizioni, un presupposto e una conseguenza.

Si può anche dire che un discorso è logico quando è costituito da:

(secondo una prospettiva linguistica)
ARGOMENTI, a loro volta in funzione delle 
PROPOSIZIONI, a loro volta in funzione del significato di
TERMINI o ESPRESSIONI che costituiscono l’enunciato.

30.2 - Primo requisito di un discorso logico è quello dell’UNIVOCITA’ DEL LINGUAGGIO ovvero l’eliminazione di qualsiasi fraintendimento nella misura in cui un termine o concetto pul avere più significati. Si tratta di una condizione fondamentale per la chiarezza dell’argomentazione. A questo proposito Aristotele delinea una sua concezione circa il rapporto semantico tra nome e oggetto, cioè la relazione tra il segno e ciò che con questo segno viene designato, che si articola in tre forme correlative:

uno-uno: a ogni nome corrisponde un unico oggetto, come nel caso del nome proprio di un individuo, per esempio Mario Rossi;;
uno-molti: a ogni nome corrispondono più oggetti; qui si può verificare il caso dell’OMONIMIA, ASSOLUTA se relativa agli individui e alla specie, come per esempio dire “leone” che può riferirsi a un animale o a una costellazione, e RELATIVA se relativa ai soli individui ma non alla specie, come per esempio dire “animale” che può essere riferito a un uomo o a un bue;
molti-uno: è la cosiddetta relazione di SINONIMIA, ossia molti nomi per un solo individuo.

A queste tre forme correlative Aristotele ne aggiunge una quarta, quella della PARONIMIA, ossia la relazione molti-molti, una sintesi verticale di omonimia (diversità) e sinonimia (identità) che corrisponde all’accidente grammaticale della FLESSIONE del nome: in questa quarta forma il rapporto tra nome e oggetto non è diretto ma indiretto, ossia ricaviamo il suo significato da una radice (la flessione appunto) per esempio: medico, medicamento, medicale, medicina, medicinale hanno in comune la stessa radice. Si tratta di una forma molto importante per Aristotele poiché la userà per definire il rapporto uni-equivoco tra la sostanza e i suoi attributi.

Secondo requisito di un discorso logico è la CONNESSIONE PREDICATIVA. I nomi, presi da soli, non hanno senso rappresentativo, cioè non sono veri o falsi, lo acquistano in una connessione semantica. Non tutte le connessioni sono però semantiche, ossia rappresentative: la sola e unica connessione sintatticamente corretta e quindi avente senso rappresentativo è quella che comprende un soggetto e un predicato, poiché riproduce la stessa struttura ontologica del rapporto tra sostanza e attributo. Occorre però sottolineare che la connessione predicativa più consueta, quella sostenuta dalla copula “è” (per esempio: Socrate è un uomo) non è tipica della logica aristotelica: Aristotele usa infatti la connessione nella funzione di “appartenenza a qualcosa o qualcuno” (per esempio: l’umanità è di Socrate)  piuttosto che in quella di “essere qualcosa”: questo rende ancora più evidente l’esistenza di un criterio formale di oggettività che altrimenti non traspare dalla semplice relazione copulativa tra soggetto e predicato. Questo aspetto vale sia in una connessione di tipo affermativo sia di tipo negativo (per esempio nella frase “l’essere quadrupede non è di Socrate”). Va detto che l’attributo non indica  un “essere in” ma un “essere di”: tra il soggetto e l’attributo sussiste infatti un’ASIMMETRIA FUNZIONALE che rende non solo impossibile uno scambio tra la funzione soggettiva e quella predicativa ma anche la conversione dei due termini. Si tratta di una modalità che supera chiaramente l’accezione eleatica secondo cui ogni predicazione deve avere valore d’identità e che corrisponde alle relazioni di inclusione  e di appartenenza, che a differenza delle relazioni di identità non sono simmetriche.

Il terzo requisito di un discorso logico è costituito dal LIMITE SUPERIORE E INFERIORE DELLA CONNESSIONE PREDICATIVA. A definire la funzione di soggetto e predicato in una connessione predicativa è la struttura della realtà, in base alla gerarchia di generi e specie, o SOSTANZE SECONDE (che nella relazione predicativa possono avere carattere relativo, potendosi scambiare la funzione di soggetto e predicato: il bue è un animale) e degli individui, o SOSTANZE PRIME, che non possono MAI essere predicati. 
Le sostanze prime corrispondono all’uso DENOTATIVO del significato, ossia il nome proprio di un oggetto o il nome comune a un insieme di oggetti, le sostanze seconde corrispondono all’uso CONNOTATIVO, cioè l’attributo descrittivo di una qualità o di un insieme di qualità. I termini denotativi, individui o gruppi di individui, hanno valore estensionale e possono fungere solo da soggetti: essi costituiscono il limite inferiore della connessione predicativa. I termini connotativi, qualità o proprietà comuni a più individui,  hanno valore intensionale e possono fungere solo da predicati. Se il limite inferiore della relazione predicativa è costituito dalle sostanze prime, il limite superiore coincide con le CATEGORIE o GENERI SOMMI, i predicati ultimi e termini primitivi di un sistema, indefinibili, e indicate da Aristotele in numero di dieci: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, abito, azione e passione. In alcuni scritti Aristotele ne indica solo otto, includendo abito e situazione sotto altre categorie.

Il quarto requisito di un discorso logico è rappresentato dalla SOSTANZA e dai RAPPORTI TRA LE CATEGORIE. Qui sono due gli aspetti degni di nota: la trascendentalità dell’essere rispetto alle categorie, ossia il presupposto necessario dell’esistenza e la sua realtà o immanenza, e la primalità della sostanza nei confronti dei suoi accidenti. Le ragioni di questa primalità sono:

1 - La sostanza è al tempo stesso attributo (ESSENZA) e soggetto, sostegno delle attribuzioni (SOSTRATO): in quanto essenza è CAUSA FORMALE di un fatto, ossia condizione della sua intelligibilità;  in quanto sostrato è CAUSA MATERIALE, ossia condizione della sua esistenza; la correlazione tra i due aspetti porta a identificare le sostanze prime come SINOLO, ossia unione indissolubile di materia e forma.

2 - La sostanza non può essere predicata di altre categorie ma solo di sé stessa, a differenza delle categorie che possono essere predicate della sostanza.

3 - Le relazioni tra le categorie sono garantite dalla sostanza (RELAZIONE INTERNA) mentre le relazioni tra le sostanze sono garantite solo dalla loro comune partecipazione alla stessa categorie (RELAZIONE ESTERNA) come conoscenza ma non come esistenza.

4 - Solo la sostanza può essere individuale, mentre le categorie non individuano il loro oggetto, solo la sostanza ha infatti un significato reale: poiché esse presuppongono la conoscenza ne deriva che gli individui, o sostanze prime, siano inconoscibili.

5 - Le sostanze seconde, GENERI e SPECIE, non possono includere, quanto a esistenza, le sostanze prime: un concetto per quanto ricco non rivela una POSIZIONE DI REALTA’ ossia non ci dice se qualcosa “esiste”. L’esistenza non può essere predicata dell’essenza.

6 - Il rapporto tra le categorie non è quindi di natura inclusiva o identitaria ma esclusiva: non si può dunque passare da un genere all’altro (METABASI).

7 - Tutti i termini compresi tra i due limiti indefinibili degli individui e delle categorie sono conoscibili attraverso la DEFINIZIONE, ossia il discorso che esprime l’essenza, formato dalla somma di genere prossimo e differenza specifica. In questo tipo di discorso soggetto e predicato sono interscambiabili.

Occorre infine sottolineare che i singoli termini non sono mai veri o falsi, in quanto questo implica unificazione o separazione, che sono caratteristiche solo del giudizio e della proposizione.

ARISTOTELE - LEZIONE 31
Il giudizio, l’argomentazione e il ragionamento
Il trattato Sull’interpretazione e gli Analitici Primi e Secondi

31.1 - Quando uniamo dei termini tra loro otteniamo la PROPOSIZIONE.  Dal punto di vista logico-semantico essa esprime l’insieme dei termini, dal punto di vista psicologico-mentalistico questo insieme - tramite la copula “è” (per esempio: la neve è bianca) - essa esprime un GIUDIZIO, che da un punto di vista logico-espressivo costituisce l’ENUNCIATO. Questi tre punti di vista non coincidenti tra di loro sono sinonimi della PROPOSIZIONE CATEGORICA. Si tratta di una espressione linguistica che ha le seguenti caratteristiche:
è costituita da almeno due termini, un soggetto e un predicato;
può essere distinta per QUALITA’ COPULATIVA (“è” oppure “non è”, ossia affermazione o negazione) e per QUANTITA’ SOGGETTIVA (“tutti” “non tutti” “uno soltanto”, cioè universale, particolare, singolare);
non è né APODITTICA (necessaria) né PROBLEMATICA (possibile) ma ASSERTORIA di un fatto. 
Una proposizione così articolata può essere vera o falsa, e il discorso capace di questa determinazione si chiama APOFANTICO (dichiarativo o descrittivo). Tali aspetti, dal punto di vista della logica aristotelica, portano alle seguenti conclusioni: una proposizione logica deve essere identificabile come vera o falsa; il criterio di verità offerto da Aristotele è CORRISPONDENTISTICO (il vero e il falso indicano l’esistenza o la non esistenza di una corrispondenza tra l’enunciato e lo stato di cose che viene enunciato) e si basa sulla formula: è vero il giudizio che congiunge ciò che è congiunto e disgiunge ciò che è disgiunto, è falso il giudizio che congiunge ciò che NON è congiunto e che disgiunge ciò che NON è disgiunto. Questa corrispondenza tra l’enunciato e lo stato delle cose dell’enunciato si chiama PROPRIETA’ SEMANTICA della proposizione, qualità e quantità sono invece le PROPRIETA’ SINTATTICHE della proposizione. 
Le proprietà sintattiche della qualità copulativa (“è” e “non è”, affermazione e negazione) esse sono opposte, in contraddizione e senza una via di mezzo, e perciò se una è vera l’altra è falsa (PRINCIPIO DELLA BIVALENZA o della necessità del vero e del falso). 
La quantità di una proposizione esprime l’ESTENSIONE del soggetto da un massimo (tutti), passando per un valore intermedio (qualcuno), fino a un valore minimo (uno solo) o zero (nessuno). In base a questi aspetti i seguaci di Aristotele, basandosi sulle relazioni di contraddittorietà e contrarietà incluse nei Libri IV e V della Metafisica, costruirono quello che in epoca medievale fu chiamato il QUADRATO DELLE OPPOSIZIONI. Questo schema è dal punto di vista logico estremamente importante, per due motivi: sia perché chiarisce la differenza tra contraddittorietà e contrarietà e sia perché offre ad Aristotele la possibilità di presentare il principio di bivalenza. Infatti il contraddittorio di una proposizione universale affermativa è una particolare negativa, mentre il suo contrario è una universale negativa. Per esempio:
UNIVERSALE AFFERMATIVA: tutti gli uomini sono bianchi
PARTICOLARE NEGATIVA: qualche uomo NON è bianco (contraddizione)
UNIVERSALE NEGATIVA: nessun uomo è bianco (contrario)
Una proposizione contraddittoria implica una netta opposizione, in quanto se è vera significa che l’altra è falsa e viceversa; una proposizione contraria, invece, anche se falsa può coesistere con una universale affermativa falsa, infatti le due universali:
tutti gli uomini sono bianchi (affermazione)
nessun uomo è bianco (contrario)
sono entrambe false dal momento che è vero che: qualche uomo è bianco. Quindi la contraddizione è più forte rispetto alla contrarietà. A queste figure i filosofi medievali aggiunsero a completamento del quadrato delle opposizioni, le relazioni di SUBCONTRARIETA’ (per esempio: le proposizioni “qualche uomo è bianco” e “qualche uomo non è bianco” possono coesistere come vere ma non come false) e di SUBALTERNITA’ (la proposizione universale “tutti gli uomini sono bianchi” implica la particolare “qualche uomo è bianco” ma non viceversa).
Aristotele indica quali proposizioni, verità ontologiche o leggi del pensiero, gli assiomi logici principali, non dimostrabili, che sono:

principio di IDENTITA’  (A è uguale ad A)
(una mela è uguale a una mela)

principio di NON CONTRADDIZIONE (A non è uguale a NON A)
(SE una mela è una mela ALLORA non è uguale a una pera) 

principio del TERZO ESCLUSO (A è diverso da B, C, D....)
(SE una mela è una mela e SE non è uguale a una pera, ALLORA una pesca non è uguale né a una mela né a una pera)

Questi tre principi primi e non dimostrabili non possono essere applicati solo in un caso, ossia nel caso delle azioni contingenti future (per es.: “domani ci sarà il sole”) di cui non è possibile accertare la verità o la falsità. I due fatti (ossia se domani ci sarà il sole oppure no)  sono possibili in egual misura e di sicuro uno solo dei due sarà vero e ‘altro no ma nessuno dei fatti si è ancora verificato e quindi non possiamo attribuire alcun principio. 
Aristotele è considerato il fondatore della LOGICA MODALE. La modalità si riferisce al MODO in cui soggetto e predicato possono essere congiunti o disgiunti. Ci sono tre modi:
NECESSARIO - deve essere così
POSSIBILE - può essere così
ASSERTORIO - è così
La logica modale è importante poiché si ricollega nella Metafisica all’ontologia dinamica di potenza e atto, mentre la logica assertoria si ricollega, sempre nella Metafisica, all’ontologia statica di materia e forma.
Riassumendo: i termini sono riuniti sotto le categorie, ossia i generi sommi entro cui sono ricondotti i predicati; a partire dalle categorie i termini possono essere estesi da un massimo - i generi (o classi) e le specie (o sottoclassi) -   ad un minimo - gli individui - cioè i nomi propri. Questa differente estensione permette di unificare e dividere i termini attraverso le proposizioni o giudizi. Tuttavia affermare o negare qualcosa non significa ancora ragionare; inoltre le relazioni tra termini sono spesso complicate da ulteriori collegamenti a fatti, sempre espressi da giudizi, con cui si stabilisce un ulteriore collegamento di consequenzialità.

31.2 - L’unione di più proposizioni si chiama SILLOGISMO, e rappresenta un discorso articolato in premesse e conseguenze. Nei vari ragionamenti le proposizioni appaiono come TESI che vengono argomentate. Una tesi è tale solo se rientra in un ragionamento: Aristotele classifica le tesi in base alla DOTTRINA DEI PREDICABILI, secondo cui la tesi può concernere: la DEFINIZIONE (il predicato ha la stessa estensione del soggetto e ne esprime l’essenza); la PROPRIETA’ CARATTERISTICA o proprio (il predicato ha la stessa estensione del soggetto ma non concorre alla definizione); il GENERE (il predicato è più esteso del soggetto e concorre alla sua definizione); l’ACCIDENTE (il predicato è meno esteso del soggetto e non concorre alla sua definizione). Definizione e proprietà sono predicazioni di identità, genere e accidente sono di inclusione. 
L’argomento non è la tesi, ma ha la funzione di produrre o dimostrare la tesi. Gli argomenti, come i sillogismi, non sono tutti uguali, ma differiscono a seconda del tipo di argomento che viene esposto, nonostante tutti i sillogismi abbiano tre elementi formali comuni: tre termini, uno minore, uno medio e uno maggiore, ossia due PREMESSE  e una CONCLUSIONE. Si chiama maggiore la premessa che contiene oltre al termine medio anche il termine maggiore; si chiama minore la premessa che contiene, oltre al termine medio, anche il termine minore; si chiama conclusione la proposizione priva del termine medio e che unisce le due premesse. Questa struttura garantisce la validità SINTATTICA del sillogismo, mentre la validità SEMANTICA viene giustificata dalla MODALITA‘  e dall’ORIGINE delle premesse.
Secondo la modalità delle premesse un sillogismo può essere:
APODITTICO o SCIENTIFICO: le premesse sono vere, l’inferenza è corretta;
DIALETTICO: le premesse sono topici o luoghi comuni, l’inferenza è corretta, ma a causa della natura topica delle premesse esso deve essere espresso nella forma ipotetica “se.... allora....”;
RETORICO: se siamo in presenza di ENTIMENTI, ossia se ignoriamo la validità delle premesse e la correttezza dell’inferenza.
Tutte queste modalità sono in correlazione con la forma enunciativa, ossia con le cosiddette FIGURE o SCHEMATA, che Aristotele distingue in tre tipi in base alla posizione occupata nelle premesse dal termine medio: 

PRIMA FIGURA - il termine medio M fa da soggetto nella premessa maggiore in cui compare il termine maggiore P e da predicato nella premessa minore dove compare il termine minore S: M-P + S-M = S-P;

SECONDA FIGURA - il termine medio compare come predicato in entrambe le premesse: P-M + S-M = S-P;

TERZA FIGURA - il termine medio compare come soggetto in entrambe le premesse: M-P + M-S = S.P;

QUARTA FIGURA (detta GALENICA, attribuita a Teofrasto) - il termine medio compare come predicato nella premessa maggiore e come soggetto nella premessa minore: P-M + M-S = S-P.

Le premesse possono essere universali, particolari, affermative o negative: questo fa sì che esistano 64 modi per ogni figura per un totale di 256 combinazioni.

31.3 - Perché un sillogismo possa offrire una PROVA della conclusione, non basta che le premesse siano vere, ma è necessario che siano CAUSE della conclusione stessa. Questo requisito viene soddisfatto dal sillogismo di I figura, nel Modus Barbara (il nome si riferisce all’acronimo usato per definire il primo dei 256 modi nella tavola dei sillogismi), in cui la premessa maggiore è universale e la minore affermativa: questa condizione infatti permette di staccare la conclusione dall’argomento come una proposizione a sé stante, condizione dei sillogismi scientifici. Al contrario nel sillogismo di II figura si perviene a una conclusione sempre negativa proprio perché tale condizione necessaria non viene soddisfatta: questo tipo di conclusione negativa trova applicazione nei sillogismi dialettici. Nel sillogismo di III figura la validità viene garantita attraverso una premessa minore affermativa pervenendo ad una conclusione particolare, ossia a una esemplificazione: per ottenere questa conclusione è necessario che le premesse abbiano carattere esistenziale e che si argomenti per analogia, condizioni incompatibili col carattere scientifico del sillogismo di I figura. Oltre alla funzione causale instaurata dal termine medio nelle premesse, esiste una seconda condizione del sillogismo scientifico: l’origine incontrovertibile delle premesse, che devono essere universali  e già note ossia VERITA’ PRIME, non suscettibili di ulteriori dimostrazioni e perciò evidenti. Le verità prime sono colte in due modi, INTUIZIONE e INDUZIONE.
Si chiama intuizione l’atto, puro e semplice, che ci permette di cogliere i principi indimostrabili della scienza. Poiché questi principi non sono sempre presenti all’intelletto, spesso bisogna ricavarli mediante il processo induttivo che giunge all’universale a partire dal particolare, la cui funzione deve però essere sempre mediata dall’intuizione stessa, poiché l’induzione da sola non arriverebbe mai a una forma conclusiva. Come si può notare, queste funzioni,  apprensive e astrattive, si discostano dall’oggettività della logica per giungere a implicazioni ontologiche, metafisiche e psicologiche. 
Viene in ultima analisi dedicato uno spazio per spiegare il motivo per cui la logica aristotelica non si può dire puramente formale: ciò dipende dal fatto cje nel sillogismo scientifico il predicato dovrebbe essere espresso nella più corretta forma di appartenenza piuttosto che in quella copulativa, a significare l’inclusione delle sostanze seconde negli individui a cui vengono predicate.

ARISTOTELE - LEZIONE 32
La suddivisione del sapere e le origini del problema metafisico.
La filosofia prima e le quattro cause.

32.1 - Si è già osservato che la logica non è una scienza come tutte le altre in quanto non prescrive un contenuto ma solo la strumentazione necessaria al ragionamento, e per questo il corpus logico aristotelico viene definito organon, cioè strumento. Le altre scienze hanno un contenuto, che può essere ordinato e classificato in base allo scopo o alla razionalità: questo aspetto rimanda necessariamente tutte le scienze a una metafisica, quella che Aristotele chiama filosofia prima, poiché ha il compito di ricondurre il contenuto dell’esperienza ricavata dalla materialità della percezione sensibile  a quelle dotazioni non-empiriche che fanno parte della soggettività, ossia il pensiero e il linguaggio: infatti il problema metafisico consiste nella domanda “come è possibile che l’elemento A nel pensiero e nel linguaggio corrisponda ad A anche nella realtà?”, Aristotele specifica che è necessario dapprima identificare il tipo di realtà con cui abbiamo a che fare e in secondo luogo la relativa FORMA DI RAZIONALITA’ che viene espressa.
Abbiamo quindi le SCIENZE TEORETICHE, che hanno come oggetto il vero in sé - senza alcuna finalità esterna - e sono per questo scienze puramente contemplative, come la fisica, la matematica e la filosofia prima. La fisica ha per oggetto gli enti naturalidel mondo esterno CHE SONO INDIPENDENTI DAL PENSIERO e soggetti al movimento e al divenire. Non è una scienza astratta e quantitativa degli enti, che cerca le leggi dei corpi, ma qualitativa. La matematica ha per oggetto numeri e figure, enti immutabili ma privi di realtà propria e per questo irrimediabilmente DIPENDENTI DALLA MATERIA: come generi e sono dipendenti dai corpi anche numeri e figure sono legati alla materia e possono essere separati da essa attraverso il pensiero. Si tratta di una dipendenza ontologica e non logica in quanto il pensiero non li crea, esistono già de re (REALISMO MODERATO o CONCETTUALISMO). La filosofia prima invece ha per oggetto l’essere nei suoi due aspetti, quello eterno e immutabile di Dio (e in questo caso è teologia) sia l’essere in quanto tale e comune a tutte le cose (e in questo caso è METASCIENZA in quanto fondamento di tutte le altre scienze).
Accanto alle scienze teoretiche sono collocate le scienze PRATICHE, etica e politica. Il loro scopo è l’agire, e il loro oggetto sono norme e valori. A differenza delle scienze teoretiche esse non sono necessarie e immutabili ma coincidono con l’agire: non presuppongono quindi la conoscenza ma una dimensione assolutamente pratica che giustifica il senso stesso delle azioni. 
Abbiamo infine le scienze POIETICHE o produttive, legate al sapere tecnico e artistico. A differenza delle scienze pratiche qui lo scopo è il fare anzi la cosa fatta, e questo indipendentemente dal comportamento di chi la produce. Se la razionalità pratica è INTERNA, la razionalità poietica è ESTERNA e presuppone una dipendenza dell’uomo dall’oggetto prodotto: questo avvicina i prodotti dell’arte e della tecnica alla natura.

32.2 - La logica aristotelica, dando la possibilità di predicare la non identità, traspone in ambito linguistico-formale il carattere molteplice della realtà, costituita di individui, generi, specie ed entità supreme: a questo proposito, il problema metafisico dovrà quindi essere articolato in base a questi aspetti, compendiabili nel concetto di EQUIVOCITA’ DELL’ESSERE. La connessione predicativa esprime tuttavia l’unità: a differenza della logica, che ha il compito di scomporre la realtà nei suoi vari aspetti, la metafisica ha invece il compito di ricondurre tutti questi aspetti a dei principi unitari.  Il carattere naturalistico e organicistico della filosofia aristotelica ripropone perciò il PROBLEMA DEI PRINCIPI, orientato sul carattere immanente e continuo della sostanza. Un sapere di questo genere non può essere di tipo assertorio o ipotetico-ideale ma DEDUTTIVO e legato quindi al sillogismo scientifico, basato su premesse e conclusioni: poiché la realtà è una serie di CAUSE ed EFFETTI il metodo “archeologico” della metafisica è l’AITIOLOGIA (da aitios,  causa) ossia il sapere attraverso le cause. Tutto ciò che esiste deve avere una causa, ad eccezione delle CAUSE PRIME  che non sono causate.
Aristotele distingue quattro cause (EFFICIENTE, FORMALE, MATERIALE e FINALE) già note al pensiero tradizionale: tuttavia la metafisica aristotelica è interessata alle cause prime, in quanto ontologia fondamentale, poiché essa indaga l’essere in quanto tale. Proprio questo aspetto rivela la metafisica non solo come AITIOLOGIA ma anche come OUSIOLOGIA, cioè scienza della sostanza (ousia). Accanto a questi aspetti occorre sottolineare che l’interesse fondamentale della metafisica riguarda il principio. Ora, questo principio non può essere molteplice, altrimenti risulterebbero dei principi relativi, finiti, e dipendenti tra di loro: è necessario dunque che il principio sia uno, e viene identificato con Dio. Per questo motivo la metafisica è anche TEOLOGIA.  Ma ancora, poiché tutto tende a un ordine universale garantito da un ente supremo, la metafisica che spiega questo ordine è anche TELEOLOGIA cioè scienza delle finalità ultime della realtà.

32.3 - In quanto aitiologia (o eziologia) la metafisica è la scienza delle cause. In base all’esperienza è possibile risalire alla causa di un evento, ma questa conoscenza non è oggettiva e universale ma soggettiva e particolare. Una scienza non può fermarsi al particolare, ma deve contenere il “perché” ossia una condizione riconosciuta valida da tutti i soggetti conoscenti. I primi due aspetti che vengono astratti - cioè pensati - nella conoscenza sono la MATERIA e la FORMA: la materia è solitamente soggetta al mutamento (CAUSA MATERIALE), la forma invece è l’aspetto di questo mutamento (CAUSA FORMALE): per esempio l’uomo è fatto di scheletro e organi interni (materia) e di ragione e intelletto, sentimenti e animo (forma). Queste due cause sono dette STATICHE poiché ci mostrano solo un punto di vista - quello dell’oggetto nel momento presente - ma non ci raccontano la sua storia, ossia l’inizio e la fine del processo di trasformazione. Dunque a queste due cause se ne affiancano altre due DINAMICHE che evidenziano la forza che ha generato il movimento, la direzione verso cui tende e l’obiettivo finale della trasformazione. Queste due cause sono la CAUSA EFFICIENTE, che fa iniziare il movimento, e la CAUSA FINALE, che lo indirizza verso un obiettivo: per esempio, restando nel paragone col copro umano paragoniamo la causa efficiente ai muscoli e ai nervi che fanno muovere il corpo e la causa finale al luogo di  destinazione di una qualsiasi  persona.
Le cause non sono però tutte uguali, non sono sullo stesso piano: la causa formale e la causa finale stanno su un piano più alto di quella efficiente e di quella materiale, poiché forma e scopo  danno il senso della realtà. Inoltre nei principi causali c’è sempre omogeneità tra le cause e gli effetti: genere causa genere, le cose particolari causano cose particolari, le cose possibili causano cose possibili, e così via, non può esistere un salto tra le cause.
Le cause sono principi di realtà (ONTOLOGICI cioè relativi all’esistenza delle cose) e principi di intelligibilità (GNOSEOLOGICI cioè relativi alla conoscenza delle cose): esse si configurano come una forza irresistibile a determinare il loro essere e il loro agire.

ARISTOTELE - LEZIONE 33
L’ontologia, la teoria della sostanza e la teologia

33.1 - Dopo il problema dei principi, il secondo problema della metafisica è quello ontologico, concernente la forma dell’essere. Si tratta qui di superare l’univocità ASSOLUTA di Parmenide, che predicava l’identità di tutte le cose, e l’univocità RELATIVA di Platone, che giustificava la non identità ricorrendo al mondo delle idee e dunque alla trascendenza. 
Per Aristotele l’essere è caratterizzato da una molteplicità di significati: la realtà, che è unitaria, si costituisce di INDIVIDUI, “sinolo di materia e forma”, che costituiscono le SOSTANZE PRIME, le uniche a esistere veramente in quanto realtà; mentre generi, specie e categorie (cioè i generi sommi) sono SOSTANZE SECONDE ed esistono solo in relazione all’individuale. L’essere non può però riguardare in modo esclusivo i soli individui: se così fosse infatti avremmo un’omonimia e un’equivocità, ossia useremmo dei nomi simili per indicare le cose: si tratta del NOMINALISMO in cui l’universale esiste solo nel linguaggio come un puro nome. Ma l’essere non può riguardare nemmeno in modo esclusivo le sostanze seconde: se così fosse si porrebbe infatti al di fuori della considerazione ontologica proprio ciò che giustifica l’esistenza, ossia l’individuale. Ma la vera difficoltà sarebbe che se l’essere fosse un genere, una specie o una categoria, perderebbe il suo carattere universale e trascendentale. Infatti ogni termine categoriale si comprende mediante una categoria complementare che lo contraddice, un termine negativo che si contrappone ad esso (esempio: bianco, non bianco), e nel caso dell’essere la categoria complementare è il non essere che nega l’esistenza; inoltre se così fosse l’essere non esisterebbe universalmente ma solo in modo attuale, quando cioè viene pensato, e quindi basterebbe pensare qualsiasi cosa per giustificare che essa è. Tutte queste difficoltà sono riassunte nei concetti di UNIVOCITA’ e di SINONIMIA, dovuti alla conformità dell’essere ai generi e alle specie e ciò causerebbe una diversa interpretazione del significato dell’essere che da molteplice diventerebbe univoco, come sostenuto da Parmenide e da Platone. Deve dunque esistere una funzione intermedia di essere che concili l’omonimia e la sinonimia dei significati.
In poche parole il significato di essere non può quindi essere circoscritto e incasellato entro i termini categoriali, non può avere solo un significato molteplice o solo univoco, ma deve avere una “libera circolazione” tra tutti i generi: il passaggio da un genere all’altro dell’essere, così come nelle quattro cause, non avviene per similitudine o identità ma per ANALOGIA. Infatti l’essere assume nolti significati ma non può mai essere uguale, e allo stesso tempo non può certo essere ricondotto a un solo significato. Il solo modo per conciliare questi due aspetti - sinonimia (molti significati) e univocità (un solo significato) - è appunto il concetto di analogia. Come si ricorderà anche Platone aveva usato l’analogia, riferita a una proporzione verticale tra mondo sensibile e mondo ideale, ma Aristotele si muove in un diverso contesto, riducendo tutti i significati dell’essere a una sola realtà. Al centro dell’indagine aristotelica c’è infatti la SOSTANZA per cui OGNI COSA ESISTE IN QUANTO SOSTANZA, IN QUANTO SUA AFFEZIONE O ACCIDENTE, IN QUANTO SUA CAUSA GENERATRICE E DISTINTRICE. Non può esistere altro significato dell’essere se non in riferimento alla sostanza. Si tratta della relazione di PARONIMIA già esaminata nella lezione 30. 
Nella filosofia medievale questo tipo di relazione viene usato in ambito teologico per riferire i rapporti di somiglianza a Dio, secondo la cosiddetta ANALOGIA ATTRIBUTIVA, che a differenza di quella proporzionale presenta una relazione a tre termini (esempio: la sapienza di Socrate è simile alla sapienza di Dio). Si tratta però di una forzatura, peraltro imperfetta, sia perché nella filosofia aristotelica l’analogia è sempre di natura proporzionale, sia perché questa analogia attributiva implica una relazione tra soggetti e non la relazione diretta dei molti con un solo soggetto, cioè la sostanza. Questo aspetto, che rimanda al concetto platonico di partecipazione, mostra peraltro un solo significato dell’essere, quello teologico, che non esaurisce per evidenti motivi il discorso sulla funzione della sostanza.

33.2 - Aristotele individua quattro significati di essere:

1 - essere ACCIDENTALE, ossia non necessario, possibile e contingente;
2 - essere ESSENZIALE, per sé, autonomo da qualsiasi genere;
3 - essere MENTALE, secondo cui è vero ciò che esiste ed è falso ciò che non esiste, secondo il criterio corrispondentistico di verità, per cui è vero ciò che corrisponde a realtà;
4 - essere DINAMICO, come potenza (dynamis) e come atto (energheia), che attraversa tutte le categorie.

Come si vede questi quattro significati suppongono l’essere delle categorie e da queste l’essere della sostanza, secondo una relazione paronimica che ha carattere equivoco sul piano ontologico ed univoco su quello logico.

33.3 - Aristotele ha dunque ridotto il problema dell’essere al suo aspetto più essenziale, ossia la sostanza o ousìa. Adesso bisogna definire cosa è la sostanza. Questo problema si svolge in due questioni: cosa è la sostanza? quali sostanze esistono?
Ogni cosa della nostra esperienza sensibile è un SINOLO (cioè unione) DI MATERIA E FORMA. La forma è l’elemento che caratterizza una cosa, e non servirebbe se non fosse riferita a una materia, e viceversa una materia senza forma non sarebbe determinata. Materia e forma hanno una diversa rilevanza a seconda della prospettiva di indagine che viene adottata, ma in ogni caso la cosa certa è che la materia esiste in quanto sostanza solo in modo improprio e derivato. La prospettiva di indagine invece ha importanza nella relazione tra forma e sinolo. Infatti da un punto di vista empirico e descrittivo la vera sostanza è il sinolo, ma da un punto di vista ontologico-metafisico la sostanza è la forma in quanto causa e fondamento dell’essere.
Dunque il sinolo è il concetto più elevato di sostanza a livello ontico, cioè sul piano puramente esistenziale, mentre la forma rappresenta il concetto più elevato di sostanza sul piano ontologico, ossia riguardo la possibilità della sua esistenza. Quando conosciamo la forma viene trattata come una specie o un genere, con un significato universale astratto, mentre da un altro punto di vista la sostanza è una realtà non universale: questo dipende dai diversi significati dell’essere.

33.4 - Le sostanze sensibili sono dunque INDIVIDUI EMPIRICI. Dopo aver chiarito questo, Aristotele passa a esaminare le sostanze sovrasensibili o immateriali. A differenza delle cose empiriche, soggette alla posizione di realtà, la forma nel suo grado più elevato, ossia la forma in quanto causa e fondamento di tutte le cose, deve esistere, poiché tutta la natura tende a un aspetto unitario e gli individui sono generati da un principio. Non essendo possibile, empiricamente, risalire a un principio di tutte le cose, Aristotele esamina dunque l’aspetto COSMOLOGICO della metafisica, individuando una FORMA PURA, primordiale e necessaria, origine e fondamento di tutte le forme. In quanto fondamento essa è la CAUSA PRIMA del movimento e ATTO PURO all’origine di tutte le potenze e di tutti gli atti, che Aristotele definisce significativamente MOTORE IMMOBILE: si tratta dunque di un atto compiuto (entelechia), non soggetto a cambiamento, quindi perfetto, forma e condizione di tutte le forme, di tutto ciò che è, al di fuori del quale nulla può essere. Questa forma pura, questa causa pura, è Dio. La TEOLOGIA, o scienza del divino, è perciò l’ultimo aspetto della metafisica o filosofia prima. La teologia aristotelica si configura anche come TELEOLOGIA o scienza dei fini ultimi, in quanto il movimento che inizia da Dio non è considerato come  una causalità efficiente - non essendo Dio una potenza ma un atto puro - ma una causalità finale, ragione e scopo di tutti i movimenti.
Dio non è separato dal mondo ma è in un rapporto di continuità con esso. Ciò significa che Dio non è per Aristotele un creatore come il Dio della tradizione ebraico-cristiana ma generatore del tempo e del movimento, che sono eterni e continui. Questa relazione di continuità riflette la doppia natura di Dio: così come l’essere è al tempo stesso univoco ed equivoco a seconda del punto di vista da cui lo siguarda (logico o metafisico) così anche Dio è immanente e trascendente al tempo stesso; immanente come fine delle cose, trascendente in quanto principio. Egli è pensiero puro, o pensiero di pensiero, ma non si rivolge direttamente alle cose in quanto non è un creatore nel vero senso della parola. Questo rapporto fa sì che la teologia aristotelica sia un PANTEISMO MODERATO, in cui la sostanza divina è al tempo stesso quasi impersonale, e riconoscibile nella natura e intelligenza o atto personificata dal movimento. 

ARISTOTELE - LEZIONE 34
Il mondo fisico

34.1 - La fisica è la filosofia seconda. Ha per oggetto i fenomeni sensibili e il loro movimento, in quanto soggetti al divenire. Il suo nome deriva dal greco physis, natura, l’ambito dell’oggettività materiale, caratterizzata dall’instabilità e dal mutamento. La fisica è una scienza teoretica: non si limita a descrivere gli oggetti materiali ma cerca di individuarne i criteri di comprensione. 
La fisica aristotelica si distingue dalla fisica moderna, poiché in quanto scienza teoretica e contemplativa non ha alcun carattere sperimentale o tecnico ma si tratta a tutti gli effetti di una metafisica o ontologia della natura, una indagine di tipo qualitativo. Proprio il suo carattere di scienza riabilita la conoscenza del mondo fenomenico, ambito del non essere parmenideo e soggetto al controllo del mondo del vero essere ideale platonico. In quanto metafisica naturale la fisica ha in comune con l’ontologia i principi dell’essere. Essa ha un’impostazione razionale-deduttiva, ed è costituita da una struttura semplice, prossima alla tautologia, in cui l’essere è esattamente come appare, spiegabile attraverso gli elementi sostanziali della metafisica stessa: potenza, e atto, materia e forma, essenza e accidente.

34.2 - Individuato l’oggetto della fisica (ossia i fenomeni sensibili ed il loro movimento) passiamo a individuarne i principi, cioè gli elementi o aspetti che lo determinano. Sono quattro e sono divisi in:

due CONDIZIONI ONTOLOGICHE, che riguardano cioè i fenomeni fisici in sé stessi, ovvero la MATERIA o SOSTRATO, elemento indeterminato e in attesa quindi di determinazione, e la FORMA in quanto ESSENZA, causa motrice e fine di tutte le determinazioni;

due CONDIZIONI FENOMENICHE che riguardano il movimento degli enti fisici, ovvero l’AUTONOMIA CINETICA, secondo cui tutti gli esseri hanno in comune dentro di sé le condizioni del movimento, e il DIVENIRE in quanto REALIZZAZIONE DEL MOVIMENTO, sinonimo della trasformazione di tutti gli esseri.

Nel dettaglio:

PRIMA CONDIZIONE ONTOLOGICA - LA MATERIA (hyle): è l’elemento che rappresenta l’esistenza di una causalità necessaria e irrazionale, legata al divenire e obbediente al caso. Come tale, essa possiede le caratteristiche della possibilità in quanto divenire e di necessità in quanto resistente a ogni finalizzazione. Alla materia vanno infine riconosciute tutte quelle variazioni che concorrono a distinguere un individuo da un altro (cioè il PRINCIPIO DI INDIVIDUAZIONE).

SECONDA CONDIZIONE ONTOLOGICA - LA FORMA (morphè): è la “causa intelligente” (esterna) dell’arte, principio di organizzazione della materia. Come tale possiede due aspetti, uno STATICO-ESSENZIALE, legato alla stabilità e alla permanenza, e uno DINAMICO-FUNZIONALE, legato invece al movimento e subordinato all’aspetto statico-essenziale.

PRIMA CONDIZIONE FENOMENOLOGICA - L’AUTONOMIA CINETICA: ogni movimento è autonomo in quanto le sue condizioni sono già comprese nel sinolo di materia e di forma. La natura non opera che da sé stessa e per sé stessa.

SECONDA CONDIZIONE FENOMENOLOGICA - IL DIVENIRE: il movimento è mutamento e trasformazione, ossia divenire in senso generale, nel senso di un passaggio determinante da qualcosa che “prima non era” a qualcosa che “adesso è”, dando quindi una nuova identità al non essere.

34.3 -  Il movimento è per Aristotele un dato di fatto della natura che non ha bisogno di essere giustificato ma solo spiegato. Si tratta di una modifica dello stato dell’essere da una posizione a un’altra, scandita dal passaggio dalla potenza all’atto. Dichiaratamente realista, Aristotele afferma che la posizione di partenza di una trasformazione fisica non è un non essere assoluto, bensì relativo, poiché si tratta di una realtà in potenza, in quanto l’ente in fase di modifica resta sempre lo stesso, cambiando solo la sua posizione. In poche parole non esiste per Aristotele qualcosa che “non esiste”. Potenza e atto però da sole non bastano a spiegare il movimento: a rendere possibile la trasformazione, ossia il passaggio dalla potenza all’atto, concorrono le due condizioni ontologiche, materia e forma, e la STERESI, o mancanza. La forma è ciò che l’essere diviene, il suo fine; la materia è ciò che l’essere è nel divenire; la steresi è invece ciò che “non è” nel divenire, ossia il divenire nella sua essenza, colto nella sua tensione verso l’essere. Il divenire conduce quindi alla pienezza dell’essere, attraverso il passaggio dalla potenza all’atto. Se applichiamo questo aspetto alle categorie otterremo 4 tipi di movimento:

secondo la sostanza: GENERAZIONE e CORRUZIONE;
secondo la qualità: ALTERAZIONE;
secondo la quantità: AUMENTO  e DIMINUZIONE;
secondo il luogo: TRASLAZIONE.

Innanzitutto bisogna dire che il movimento si riferisce al passaggio tra due termini contrari all’interno dello stesso essere e rispetto allo stesso genere: la sostanza - rispetto alle altre categorie - implica un carattere diverso, poiché generazione e corruzione riguardano un passaggio strutturale dall’essere al non essere (e viceversa) che sono termini CONTRADDITTORI, mentre le trasformazioni avvengono di solito tra termini contrari all’interno della stessa sostanza (per esempio: caldo e freddo). Il mutamento sostanziale, cioè la trasformazione, rappresenta il limite della continuità del movimento.: in tal senso non parliamo più di steresi o contrarietà ma di una negazione assoluta (per esempio quando un uomo muore). La natura viene rappresentata come un grande organismo vivente in cui ogni cosa è parte della totalità. Agli estremi di questa totalità ci sono la FORMA PURA (cioè Dio) e la MATERIA PURA, principi opposti e contraddittori ma coincidenti nella loro caratteristica di purezza. 

34.4 - La concezione aristotelica di spazio ha influenzato il dibattito intorno alla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Lo spazio non è un corpo fisico ma un luogo (topos), autonomo e indipendente dai corpi fisici. Esso non potrebbe avere un corpo, altrimenti dovrebbe trovarsi a sua volta in un luogo, e deve avere un essere altrimenti i corpi fisici non esisterebbero, ovvero sarebbero privi di posizione di realtà. In quanto tale lo spazio viene definito da Aristotele il LIMITE IMMOBILE E IMMEDIATO DEL CONTENENTE IN QUANTO CONTIGUO AL CONTENUTO. Esso non va inteso come un recipiente, ossia come un contenitore che può essere trasportato, nè si può ammettere che sia vuoto. A differenza degli atomisti Aristotele considera nello spazio l’inammissibilità del vuoto e l’esistenza di LUOGHI NATURALI, a cui ciascuno dei quattro elementi tende quando non trova ostacoli. Nell’universo avremo dunque un ALTO e un BASSO come determinazioni naturali oggettive, ossia non relative al soggetto: essi costituiscono un insieme finito, delimitato dal CIELO, che si muove circolarmente su sé stesso. 
Il mondo sensibile è costituito da due SFERE, una SUBLUNARE, caratterizzata da diversi generi di movimento, in particolare dal movimento rettilineo, la cui materia costitutiva sono i quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco, e una SOPRALUNARE o CELESTE, caratterizzata dal movimento circolare e continuo, perfetto, costituita dall’ETERE o QUINTA ESSENZA.
Alla nozione di spazio è collegata la nozione di tempo. Esso è relativo in senso fisico al movimento dei corpi e in senso psicologico all’anima. In un senso fisico il tempo è il numero e la misura del movimento, scandito dal prima e dal poi, secondo la teoria degli INTERVALLI ossia degli ISTANTI NUMERABILI. Se il tempo è numero e misura è necessario qualcuno che possa numerare e misurare, e in senso psicologico è necessaria un’anima che possa pensare il numero, in mancanza della quale non esisterebbe il tempo ma solo il movimento dei corpi.
Aristotele ammette l’infinito. Egli sostiene la possibilità per lo spazio, il tempo e il numero di aumentare e diminuire in modo POTENZIALE, ossia senza mai esaurirsi. L’infinito esiste dunque solo in modo potenziale, poiché collegato alla quantità, presente nel solo mondo sensibile: questo porta Aristotele, pitagoricamente, a considerare l’infinito imperfetto rispetto al finito perfetto.

ARISTOTELE - LEZIONE 35
Il mondo psichico

35.1 - La psicologia, o dottrina dell’anima, costituisce parte della biologia, quale scienza degli organismi viventi, e possiamo considerarla il compimento della metafisica, indispensabile per completare il concetto di sostanza.  Nella sua indagine analitica Aristotele spiega l’origine delle sostanze seconde, generi e specie, ma non è in grado di definire in modo apofantico (deduttivo) le sostanze prime, limitandosi a fornirci un criterio per la loro individuazione: la causa di questo limite è proprio la caratteristica estensionale dell’indagine analitica, basata sull’esperienza, che privilegia le classi. E in questo senso la psicologia diventa uno strumento fondamentale da accoppiare al principio di individuazione.

35.2 -  La sensazione è il naturale canale di scambio tra la psiche e il mondo esterno. La sua relazione con esso ha origine nella fondamentale distinzione tra esseri animati, cioè viventi, e inanimati. Tutte le cose sono sinolo di materia (potenza) e forma (atto), in cui l’elemento corporeo è proprio la materia in trasformazione, mentre la forma o atto ne costituisce l’anima cioè la sua individuazione sostanziale. Aristotele definisce l’anima come FORMA DI UN CORPO NATURALE CHE HA LA VITA IN POTENZA.
Questa concezione ileomorfica ha due conseguenze, la prima è quella di staccare una volta per tutte l’anima dal contesto fisico e naturalistico tipicamente presocratico, conferendole una caratteristica immateriale, la seconda è quella di evitare la contrapposizione col corpo, attribuendole la caratteristica di essere al tempo stesso immanente e trascendente: l’anima è secondo la concezione ileomorfica inseparabile dal corpo e ad esso legata in quanto sua forma. Ma l’anima non può essere solo contingente, altrimenti non potremmo arrivare a conoscere le forme sovrasensibili. Così come Platone anche Aristotele individua tre parti o funzioni dell’anima, classificate non secondo un criterio etico e morale ma biologico. Esse sono:

parte VEGETATIVA - serve a regolare la nascita, la nutrizione, la crescita e la riproduzione;
parte SENSITIVA e MOTORIA - da qui provengono le sensazioni e i movimenti del corpo;
parte INTELLETTIVA o RAZIONALE - presiede al pensiero, alla speculazione e all’elaborazione concettuale.

Queste tre parti, che sono in realtà funzioni, rispettano un ordine gerarchico che va dal termine più semplice al più complesso, secondo un meccanismo di inclusione ed esclusione: il termine più semplice esclude gli altri, mentre quello più complesso racchiude tutti quelli al di sotto. Ad esempio l’intelligenza non può prescindere dalla nutrizione, mentre quest’ultima può stare benissimo anche da sola. Occorre infine precisare che il criterio di distinzione non è di rdine qualitativo ma operativo. Così come Anassagora anche Aristotele ritiene che ogni parte possieda le qualità del tutto e che quindi svolga una funzione complementare alle altre parti del tutto, pur nella sua specificità funzionale.

35.3 - L’anima vegetativa occupa un grado molto basso nella gerarchia aristotelica, mentre hanno maggiore rilevanza sensibilità e intelletto. Tali facoltà hanno in comune il carattere TRANSIENTE, entrambe si rivolgono a un oggetto, che ne specifica le funzioni in base al tipo. Questa caratteristica è caratteristica della psicologia aristotelica e anticipa il concetto più recente di intenzionalità della coscienza, secondo cui la coscienza è sempre “coscienza di” qualcosa. Se la natura transiente è comune a sensazione e intelletto, vediamo ora le caratteristiche specifiche.

SENSAZIONE - Per Aristotele non esistono idee innate: tutto ha infatti inizio dalla sensazione. Essa non è una facoltà passiva che prevede una modifica dell’organo di senso ricevente, bensì attiva, e comporta un’ALTERAZIONE determinata dall’oggetto sensibile. Questa alterazione può essere definita come il passaggio della facoltà sensibile dalla potenza all’atto. Essa è a tutti gli effetti un PROCESSO DI ASSIMILAZIONE, poiché associa e rende simili l’oggetto sensibile e la facoltà stessa, in modo differente al processo della nutrizione poiché riguarda solo la forma dell’oggetto e non la materia come nella nutrizione. La sensazione quindi è insieme un movimento e una sintesi di sensibile e senziente, poiché mette insieme la potenza dell’oggetto di essere percepito e l’avvenuta sensazione che è l’atto. Quindi l’atto comune è il ponte che unisce il mondo fisico e il mondo psichico. Per quanto concerne la possibilità di distinguere gli stimoli sensibili Aristotele precisa che oltre ai cinque sensi  ordinari esiste anche un sesto senso noto come senso comune, a cui vanno aggiunte altre facoltà come l’immaginazione e la memoria e sopratutto una facoltà elementare che presiede alla capacità di discriminare tra le varie stimolazioni. A differenza dei cinque sensi che sono specifici a seconda dell’oggetto - per esempio il colore si vede con gli occhi, il profumo si sente col naso - il senso comune è appunto comune a più sensi - per esempio la percezione del movimento o della figura - pur mancando di un suo proprio organo sensoriale. Si tratta di una rudimentale facoltà di giudizio, collegata all’IMMAGINAZIONE, intesa come una facoltà attiva e spontanea in grado di interpretare la sensazione. Ma la sensazione non si limita alle sole facoltà teoretiche della percezione e dell’immaginazione: essa presiede infatti anche al desiderio che è una facoltà pratica. La funzione appetitiva si orienta in senso positivo (desiderativo) o negativo (avversativo) verso un oggetto, secondo uno schema razionale che, muovendo da premesse verso una conclusione, si configura come un vero e proprio SILLOGISMO PRATICO.

INTELLETTO - Questa facoltà si colloca a un livello più alto rispetto all’anima sensitiva alla quale è peraltro collegata, e non ha bisogno di un organo suo proprio per conoscere né di un contatto diretto con l’oggetto. Aristotele spiega la conoscenza intellettuale ricorrendo ancora una volta al passaggio dalla potenza all’atto, e descrivendo la differenza tra la possibilità del conoscere e l’attualità della conoscenza stessa: l’attualità comprende sia il sensibile sia l’intelligibile. Aristotele distingue due tipi di intelletto, uno ATTIVO o produttivo e uno PASSIVO. Quello passivo rappresenta la possibilità della materia di “essere” qualcosa, quello attivo invece rappresenta l’attualità del conoscibile: come accendere la luce in una stanza buia e illuminare gli oggetti presenti rendendoli visibili e perciò conoscibili. Questa caratteristica produttiva riporta l’intelletto attivo al suo collegamento col principio divino, collegamento che va stabilito tenendo presente che il principio divino è per Aristotele in un rapporto di continuità col reale e che l’attività creatrice non avviene ex nihilo: lo stesso intelletto attivo costituisce una attività che “crea” attraverso le immagini.

ARISTOTELE - LEZIONE 36
Il mondo estetico, etico e politico

36.1 - Aristotele suddivide le scienze in due grandi gruppi, quelle teoretiche e contemplative e quelle pratiche, a loro volta suddivise in base a due ambiti, quello dell’agire e quello del fare. La scienza assume un carattere di necessità nelle scienze contemplative, dove si ha bisogno di una conoscenza rigorosa, giustificata dalla logica; ma esiste anche una logica relativa alle scienze pratiche, che si fonda su un sapere probabile, dato dalle opinioni, dalle convenzioni e dalle tradizioni. Pur avendo un contenuto inferiore rispetto al sapere teoretico, il sapere pratico ha una struttura definita che può essere formalizzata e tale formalizzazione riguarda l’intero ambito pratico, relativo sia all’agire sia al fare. Aristotele discute la forma logica del sapere non apodittico in due opere dell’Organon, i TOPICI e gli ELENCHI SOFISTICI. Si tratta di una logica non scientifica ma comunque rigorosa, tanto da ricondurre ai sillogismi di seconda e terza figura, dato che solo i sillogismi di prima figura possono essere considerati veramente scientifici in quanto le due premesse sono certamente vere e dimostrabili. Nel caso del sillogismo dialettico invece, nonostante l’inferenza sia corretta, non possiamo stabilire con certezza se le due premesse siano vere e per questo si fa ricorso a topici o “luoghi” entro cui viene inquadrata una discussione fondata su opinioni: la loro caratteristica è, come si ricorderà, quella di non essere espressi in una forma affermativa con la conclusione “staccabile” dalle premesse, ma nella forma condizionale di “se.... allora....”.  Nel campo del possibile, dove non possiamo accertare la verità delle premesse, seppur un ragionamento è sintatticamente corretto, la fallacia delle argomentazioni utilizzate ne compromette la conclusione. Così abbiamo: a) i sillogismi ERISTICI in cui le premesse sembrano fondate sulle opinioni, ma inrealtà non lo sono; b) i PARALOGISMI, ragionamenti errati basati su false argomentazioni; e infine c) i sillogismi RETORICI, basati sugli entimenti, in cui si ignora non solo la verità della conclusione ma anche la correttezza dell’inferenza. Proprio questa forma argomentativa collega la logica topico-dialettica all’ESTETICA, articolata in POETICA o teoria dell’arte e RETORICA o teoria del discorso persuasivo. Poetica e retorica sganciano dunque l’evento particolare dalla realtà empirica facendogli assumere un aspetto universale: non si tratta ovviamente di un universale logico ma di un universale concreto, cioè simile al vero. Nell’arte l’impossibile e l’irrazionale possono apparire simili al vero,poiché la funzione imitativa dell’arte li rende verosimili e quindi credibili. Aristotele ritiene che sia preferibile un impossibile verosimile a un possibile non verosimile: questo perché l’estetica si fonda su una struttura logica comunque rigorosa, che conferisce all’impossibile una verità anche se si tratta di qualcosa di falso, e che implica due aspetti, quello dell’utilità (pragmatismo) e dell’imitazione della natura. Il primo aspetto viene espresso nella funzione catartica della tragedia, che purifica e ripulisce dalle passioni negative, mentre il secondo si applica nella concezione del bello, e quindi riguarda misura e proporzione delle forme, limiti e simmetria. 

36.2 - i concetti sopra esposti - ossia verosimiglianza, probabilità, possibilità, credibilità, proporzione - stabiliscono delle relazioni strutturali tra il mondo estetico e quello etico, ossia l’ambito pratico dell’agire umano, in cui si indaga la condotta individuale e sociale dell’uomo. Il sapere pratico concerne la conoscenza dei fini dell’agire in quanto essenziali, immutabili e necessari. La loro peculiarità è quella di essere VALORI IN SE’: non è importante se essi siano tanto immanenti o trascendenti, ma che abbiano una loro oggettività, una loro realtà e di una loro perfezione, in quanto corrispondenti al bene. Essi devono sopratutto essere autonomi e indipendenti da qualsiasi volontà o impulso. Nel mondo greco, specie presso i Sofisti, si sviluppa però anche un altro tipo di agire pratico, che non ha nulla a che vedere con l’etica del fine, ma riguarda invece la ricerca delle cause e dei motivi dell’agire umano. In questo caso non possiamo parlare di valori in sé ma di utilità, di convenienza, di piacere e di vantaggio: l’azione non è più disinteressata e indipendente ma è viziata dallo scopo del raggiungimento. L’azione morale non si traduce in questo caso in un dover essere poiché è presente uno scopo da cui l’azione dipende (per esempio: SE  vuoi essere promosso ALLORA devi studiare, SE non vuoi finire in prigione ALLORA non devi rubare). Aristotele chiama genericamente il sapere pratico POLITICA, e lo suddivide in ETICA ossia scienza del bene, e POLITICA (in un senso più stretto) ossia scienza dello Stato. Questa dipendenza dell’etica dalla politica, seppure in un senso molto generico, richiama la tendenza tipica del pensiero greco di identificare l’uomo col cittadino: scopo del sapere politico è proprio quello di individuare il fine dell’agire umano, cioè il bene in sé, e i mezzi per raggiungerlo. Il traguardo è la felicità o EUDEMONIA: tutti gli uomini vogliono raggiungerla ma non sono d’accordo su cosa sia veramente. La felicità non va però confusa con l’onore, il piacere, o la ricchezza, che sono mutevoli e appaiono più come mezzi che come fini: essi vanno comunque perseguiti, con moderazione, ma devono dipendere da un fine superiore, intrinsecamente connesso alla natura umana, cioè la RAGIONE. La virtù propria dell’uomo è la volontà secondo ragione e questo coincide con la posizione gerarchica dell’anima razionale. Poiché sia la sensibilità sia l’intelletto concorrono alla conoscenza, è lecito attendersi che anche il sapere pratico, oltre a quello teoretico, sia determinato da entrambe le dimensioni psichiche. Questa è anche la ragione per cui il concetto di bene non è mai univoco, e il suo significato deve essere distinto in base ai sensi (impulsi, tendenze, passioni) o alla ragione (moderazione, controllo, dominio). Aristotele opera una distinzione tra le virtù ETICHE, ossia le condotte relative a un’applicazione “esterna” della volontà razionale, che hanno a che fare proprio coi sensi, e le virtù DIANOETICHE che sono le condotte propriamente razionali.
Le virtù etiche sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la giustizia e così via. Ogni individuo è caratterizzato da impulsi, tendenze e desideri, che fanno parte della sua formazione e della sua cultura. Data la complessità dell’uomo non è possibile fondare una scienza dei principi che possa indicare all’uomo cosa è giusto e cosa non lo è: ci si può solo affidare all’educazione e all’induzione, il cui esercizio spinge all’abitudine di compiere azioni buone. Le virtù etiche sono quindi acquisite con l’esperienza e nascono proprio da una disposizione a indirizzare il comportamento in mezzo alle diverse inclinazioni individuali. Così le passioni come il desiderio, l’ira, l’amicizia, la pietà, sono finalizzate  al raggiungimento del bene. Come si acquistano queste virtù e in cosa consistono? Le virtù etiche implicano la giusta proporzione, il GIUSTO MEZZO, tra eccessi e difetti. Il giusto mezzo esprime infatti l’affermazione etica della ragione: il coraggio è il giusto mezzo tra la temerarietà e la viltà; la temperanza è il giusto mezzo tra l’intemperanza e la dissolutezza. Le virtù etiche non sono valide sempre e ovunque ma hanno come unica norma la misura. Tra esse prevale la GIUSTIZIA, che consiste nel rispetto delle leggi dello Stato e abbraccia l’intera vita morale: nella giustizia è insieme compresa ogni virtù, sottolinea Aristotele, e come tale essa è la forma delle virtù etiche. La giustizia non è però una forma a sé stante, essa si esprime infatti nelle leggi dello Stato, che ne costituiscono la materia. Come tale essa costituisce misura e proporzione tra i membri della società: se la proporzione è di tipo GEOMETRICO, ovvero se distribuisce a ciascuno in base ai propri meriti, in un’uguaglianza di rapporti, saremo di fronte alla giustizia DISTRIBUTIVA; se la proporzione è invece di tipo ARITMETICO, ovvero distribuisce a ciascuno in parti uguali a prescindere dal proprio status, siamo di fronte alla giustizia RETRIBUTIVA, detta anche regolatrice o correttiva. Il contenuto universale delle leggi fa sì che sia la giustizia distributiva che quella retributiva non siano sempre adeguate al caso specifico: per questo motivo entrambe vanno ricomprese in una forma di giustizia superiore che applica di volta in volta al particolare la giusta correzione, o EQUO, che permette di adeguare la legge al caso specifico.
Le virtù dianoetiche, al contrario di quelle etiche che si realizzano esercitando la pratica empirica dell’abitudine, si realizzano con l’esercizio del pensiero. La  razionalità si rivolge a due tipi di oggetti, quelli necessari e sottratti al divenire e quelli soggetti al divenire. A queste due funzioni di oggettivazione sono collegate due tipi di virtù dianoetiche: le virtù della ragione TEORETICA, cioè INTELLIGENZA (nous), SCIENZA (episteme) e SAPIENZA (sophia), e le virtù della ragione PRATICA ovvero ARTE (techne) e SAGGEZZA (phronesis). La virtù teoretica per eccellenza è la sapienza, cioè la capacità di dedurre e guidare la verità, mentre la virtù pratica più importante è la saggezza, ossia la capacità di deliberare ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo, individuando i mezzi più idonei al raggiungimento di determinati fini. Va detto che la saggezza ci dice quali mezzi impiegare ma non ci dice quali fini siano giusti: a questo compito assolvono infatti le virtù etiche, che sono in grado di individuare casi particolari e decidere rispetto ad essi. La collaborazione tra la saggezza e le virtù etiche ci porta a considerare i fondamenti logici delle azioni pratiche. Infatti per poter decidere e deliberare occorre avere come punto di partenza una verità, che tuttavia, nella ragione pratica, non è mai fine a sé stessa.ma un mezzo, limitando così il concetto di verità in senso pratico a indicare ciò che è buono o giusto in un caso particolare. Questo aspetto permette ad Aristotele di superare il problema della conoscenza del bene dell’intellettualismo etico di Socrate e Platone: infatti la conoscenza del bene - non epistemica ma tipologica - è una condizione necessaria per agire correttamente ma non è sufficiente: sono necessarie anche la deliberazione e la scelta (che sono di carattere fronetico e non teoretico, ossia legate alla saggezza) altrimenti il bene resta solo a livello potenziale e ideale e non si concretizza. A cosa serve infatti conoscere il bene se poi  non si ha la forza di metterlo in pratica? Come si vede la conoscenza del bene non è dunque la condizione fondamentale per essere uomini saggi: non è necessario essere dei filosofi, basta essere coraggiosi, temperati e liberali, come lo furono molti statisti, Pericle ad esempio.

36.3 - L’uomo è un animale sociale, egli non può vivere infatti se non in comunità. Questa esigenza non fa capo solo a cause materiali ma sopratutto al fatto che solo nella comunità l’uomo realizza la sua più intrinseca natura,   quella razionale. Questa finalità viene espressa proprio dall’istituzione dello Stato, mezzo di elevazione spirituale di tutti i componenti di una comunità. Ogni membro della comunità è una parte di un intero, rappresentato dallo Stato, che quindi comprende e precede il singolo. Esistono anche altre forme associative che nascono prima dello stato, come la famiglia o il villaggio, che però rispondono a bisogni più concreti e diversi, e non realizzano certamente il significato più profondo della vita umana: infatti la caratteristica dello Stato è quella di essere costituito non da parenti, come la famiglia, o da uomini che perseguono un medesimo interesse produttivo, bensì da cittadini, diversi tra loro, legati non da interessi privati ma dall’agire per il bene della comunità a cui appartengono, esprimendo un interesse pubblico e collettivo. Questa finalità pubblica si esprime in diversi assetti costituzionali. Per Aristotele gli scopi di una costituzione sono essenzialmente due: determinare la sovranità e stabilire il funzionamento delle cariche. Di queste la sovranità è il problema più importante poiché riguarda la detenzione del potere legittimo e in base a essa si articolano le diverse forme dello Stato, a seconda che sia esercitata da uno (MONARCHIA), da pochi (ARISTOCRAZIA), o dalla maggior parte dei cittadini (POLITIA). La correttezza di tali forme dipende dal fatto che il potere viene esercitato nel pubblico interesse, ovvero a favore della collettività; quando ciò non avviene, cioè quando il potere viene esercitato per sé stessi, si hanno le cosiddette forme corrotte o degenerate che sono rispettivamente la TIRANNIDE, l’OLIGARCHIA  e la DEMOCRAZIA o DEMAGOGIA, in cui il potere della maggioranza dei cittadini, solitamente poveri e bisognosi, viene esercitato in funzione della sola maggioranza, scambiando così l’uguaglianza sul piano giuridico con quella sociale e antropologica. Tutte e tre le forme di potere, se esercitate correttamente sono legittime e buone ma Aristotele indica quale forma preferibile la politia, espressione del CETO MEDIO, la maggioranza agiata, più stabile e in possesso della misura e dell’equilibrio necessari al governo dello Stato.