martedì 31 maggio 2016

Filosofia 3

Filosofia 3
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3A - U1 + U4 + L30
3B - U7 + U8
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Volume 3 - Tomo 3A
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3A - U1
La reazione all'hegelismo

FEUERBACH - LEZIONE 1
La disputa sull’hegelismo
Ludwig Feuerbach 

1.1 - Hegel muore nel 1831, lasciando un’eredità pesante, quella di una filosofia in cui si era praticamente detto tutto. Questo aspetto totalizzante, che riguarda diversi sviluppi del pensiero - incluse arte, religione, diritto, storia, la stessa filosofia - non incarna tanto una pretesa  hegeliana di voler dare una risposta a tutto, ricomprendendo questi aspetti in un unico sistema, quanto la difficoltà, una volta individuato il metodo nella dialettica, di riaprire il problema hegeliano, quello della vera essenza del reale. Eppure alla morte di Hegel i suoi seguaci si dividono in correnti, che produssero la frattura all’interno della scuola hegeliana, condannando il paradigma stesso dell’idealismo. 
La spaccatura si formalizza nel 1837 grazie a Strauss, che propone di rinominare i vecchi ed i giovani hegeliani come destra e sinistra hegeliana, riprendendo la consuetudine parlamentare francese, evidenziando nei primi l’ortodossia e nei secondi il riformismo e la modernizzazione. Il dibattito tra le due correnti inizia su aspetti religiosi e si sviluppa poi su temi storico-politici. I vecchi hegeliani erano assolutamente sostenitori del sistema del maestro, tanto da applicarne i dettami in ambito politico e istituzionale, sopratutto per quanto concerne la teoria hegeliana dello stato razionale e reale, arrivando a supportare il regime prussiano. I cosiddetti giovani hegeliani si oppongono al rigido conservatorismo della destra sfruttando proprio gli aspetti dinamici del sistema hegeliano, quelli legati alla contraddizione del reale e al conflitto,  elementi imprenscindibili della dialettica.
Molto probabilmente l’opera che ruppe lo schieramento fu la VITA DI GESU’ del già citato David F. STRAUSS, che destò molto scalpore descrivendo la religione cristiana come un mito, non perché mancasse di verità ma per la mancanza di un qualsiasi fondamento critico, separando il Gesù storico dal Cristo della fede, e portando il dibattito nell’ambito del Nuovo Testamento, provocando quindi un vespaio di critiche. A raccogliere le posizioni di Strauss fu tra gli altri Bruno BAUER, autore del pamphlet LA TROMBA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE CONTRO HEGEL, opera che spinge le conclusioni di Strauss verso un convinto ateismo. Accanto a Bauer ricordiamo anche Moses HESS e Arnold RUGE.

1.2 - Con la sinistra hegeliana si consuma il definitivo passaggio dall’idealismo a una filosofia della prassi, in cui il contributo maggiore, prima del suo esponente più organico e completo, ossia Marx, è sicuramente quello di Ludwig FEUERBACH. Feuerbach inizia come hegeliano, diventa poi un esponente della sinistra hegeliana e quindi di quella anti.hegeliana, con cui si allontana decisamente da Hegel. Gli aspetti che Feuerbach contesta del suo ex maestro sono i seguenti:
a) la pretesa assolutizzante del sistema hegeliano;
b) la concezione dialettica della storia;
c) la tendenza immaterialista e spirtiualista;
d) l’incapacità di cogliere concretamente il reale.
Va detto che Feuerbach mette in evidenza che il pensiero hegeliano è la consacrazione delle tendenze della filosofia moderna, da Cartesio in poi, e questo aspetto rende ancora più marcato il distacco dal suo maestro, tanto che il pensiero feuerbachiano si propone come un’assoluta novità. Sono due le opere in cui si estrinseca questa novità, entrambe scritte tra il 1842 e il 1843: le TESI PROVVISORIE PER LA RIFORMA DELLA FILOSOFIA  ed i  PRINCIPI DELLA FILOSOFIA DELL’AVVENIRE. Nelle due opere, sopratutto nella seconda, divisa in 65 principi dichiaratamente anti-idealistici si consuma un’irrevocabile transizione  alla filosofia della prassi. Feuerbach irride la pretesa idealistica di far coincidere materia e spirito, finito e infinito, ed elegge la condizione sensibile a principio primo della conoscenza filosofica, quale altro del pensiero, e molto più adatta alla vita umana e terrena. La filosofia di Feuerbach potrebbe essere distinta come una antropologia filosofica, oppure come un umanesimo materialistico, data la sua specifica concentrazione sul problema uomo. Feuerbach opera una vera e propria rivoluzione copernicana dell’hegelismo, attribuendo la realtà al finito e l’idealità all’infinito, e spostando la loro coincidenza, in forma negativa, non più a un assoluto ma all’uomo, a partire dal quale l’infinito può essere pensabile. Infatti al centro del pensiero di Feuerbach, ci sono la corporeità, la sensibilità e la materialità, incarnate dall’uomo, essere finito, limitato, fatto di bisogni: Mann ist was isst, (l’uomo è ciò che mangia), afferma Feuerbach con un gioco di parole - comprensibile solo in tedesco - che afferma la natura finita dell’uomo. In questo capovolgimento il pensiero non è più espresso soggettivamente ma oggettivamente, come predicato del reale finito che per Feuerbach costituisce la vera soggettività. L’unica vera realtà è perciò quella sensibile: Feuerbach ripristina la scissione tra soggettivo e oggettivo, riportando la dialettica a un confronto umano tra esseri finiti. A denunciare l’umanesimo di Feuerbach è la frase “io sono uomo con gli uomini” opposta alla frase tipica dei filosofi assoluti: “io sono la verità”.
Nella letteratura filosofica feuerbachiana assumono una determinante rilevanza gli scritti di argomento filosofico-religioso, tra cui L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO del 1841 e L’ESSENZA DELLA RELIGIONE del 1845. La prima delle due opere si concentra sul tema dell’ALIENAZIONE, un tema non nuovo e trattato anche da Hegel, a cui però Feuerbach conferisce una direzione particolare, considerando la religione come alienazione, nel senso di una proiezione della finitezza umana in un essere altro, identificato come Dio. Questo processo di oggettivazione è causato dalla tendenza del luomo a superare i propri limiti - AUTOTRASCENDIMENTO - che lo porta a proiettare una parte di sé stesso in un essere altro, da cui però ben presto finisce con l’allontanarsi - ESTRANIAZIONE - non riconoscendosi più in questa figura perfetta, illimitata, assoluta, così diversa da sé. Dio finisce quindi con l’espropriare l’uomo delle sue facoltà, la ragione, la volontà, il sentimento, facendogli pesare tutta la limitatezza della sua condizione, schiacciandolo e non elevandolo. Questo è un canone tipico delle figure dell’Antico Testamento che rivendicano un Dio ESSENZA DELL’INTELLETTO, in quanto RAGIONE ASSOLUTA, e ESSENZA MORALE in quanto VOLONTA’ ASSOLUTA. Nel Nuovo Testamento compare invece la personificazione del Dio cristiano come ESSENZA DEL CUORE in quanto SENTIMENTO ASSOLUTO, che per amore dell’uomo si incarna in Gesù. Qui emergono due aspetti: l’AMORE, ossia lla funzione riconciliatrice tra gli uomini, e la FEDE, espressione dice Feuerbach di un egoismo supernaturalistico, che mira per contro a rafforzare la scissione tra uomo e Dio. Feuerbach evidenzia dunque due nature nella religione, una vera e una falsa, da un lato il tentativo vano dell’uomo di superare la propria condizione, dall’altra il presagio di quello che l’uomo è veramente. Per questo Feuerbach affida alla filosofia - quale antropologia materialistica - il compito di DISALIENARE l’uomo, ossia di liberarlo,  compito terapeutico, mostrandogli l’aspetto antropologico alla base di ogni religione e mettendo bene in chiaro che Dio altro non è che la proiezione e l’oggettivazione di alcuni aspetti dell’uomo stesso.
Questi temi tornano in uno scritto successivo, L’essenza della religione, dove però Feuerbach non mette in risalto gli aspetti essenziali dell’uomo ma della natura, da cui l’uomo si sente dipendente. La natura infatti viene vista come una manifestazione del divino fino a diventare autonoma e base di ogni credo religioso, finendo col sopraffare l’uomo: per questo motivo anche questo scritto ha uno scopo terapeutico, quello cioè di liberare l’uomo dalla malattia religiosa, ossia la cancellazione di qualsiasi desiderio soprannaturale. 

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SCHOPENHAUER - LEZIONE 2
La realtà metafisica dell’uomo

2.1 - La filosofia di Schopenhauer prende le distanze dalla filosofia hegeliana per abbracciare una concezione della realtà fondata sulla volontà e sulla rappresentazione, e in cui la filosofia deve essere lo strumento per superare la conoscenza rappresentativa della realtà per isolarne l’essenza, ossia la volontà. L’opera più importante di Schopenhauer è sicuramente IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE. Nella prefazione Schopenhauer indica quali fonti d’ispirazione le opere di Kant e di Platone e i libri sacri della tradizione induista, Veda e Upanishad. Da Kant Schopenhauer eredita la scissione tra fenomeno e noumento, ma a differenza di Kant egli considera il noumeno conoscibile, attraverso il concetto di volontà. Da Platone eredita invece la divisione dei due mondi, a cui accompagna la creazione di un mondo intermedio fondato sulla volontà. Dai testi sacri dell’induismo infine egli eredita la concezione illusoria della realtà empirica, che è solo apparenza, e che deve essere superata per passare a una verità più stabile e meno effimera. Come i filosofi del suo tempo anche Schopenhauer sente l’esigenza di dare un’espressione sistematica e scientifica al suo pensiero, ma non segue la concezione architettonica dei suoi contemporanei, bensì predilige una prospettiva organica e circolare, in cui ogni parte sostiene il tutto e viceversa. L’esigenza di abbandonare una tradizione gerarchica nasce dal fatto che ogni uomo è portato a interrogarsi sulla realtà da una continua meraviglia. Lo stupore filosofico è la conseguenza dalla ricerca dell’uomo che non si arrende di fronte alla morte, al male, al dolore, e cerca di soddisfare il proprio bisogno metafisico. L’inquietudine deriva dalla consapevolezza che la non esistenza del mondo è possibile quanto la sua stessa esistenza. Ma per questo motivo Schopenhauer non si rivolge al concetto tradizionale, razionalistico, di metafisica, quella che Kant aveva definito abisso senza fondo, e che pretende di andare oltre il fenomeno: egli elabora la concezione di una metafisica immanente, che parte proprio dal fenomeno empirico, e che considera indispensabile per spiegare la realtà, in quanto gli stessi concetti che la metafisica usa per spiegare il reale partono dal reale stesso, e quindi è necessario ammettere una metafisica che parta dal fenomeno per spiegare il fenomeno stesso. Si tratta dunque di una metafisica completamente diversa da quella degli idealisti, che Schopenhauer critica e dileggia per il linguaggio oscuro, espressione a suo dire di una disonestà intellettuale. Obiettivo delle suecritiche è sopratutto il pensiero hegeliano, non solo per la mistificazione di un’illusoria coincidenza tra ideale e reale ma sopratutto per aver occultato quelle caratteristiche umane che permettono all’uomo di agire, imprigionando l’uomo nell’obbedienza alla religione e allo Stato.

2.2 - Kant aveva sostenuto che del reale si potesse cogliere il solo aspetto fenomenico, relegando quello noumenico a qualcosa di pensabile ma non conoscibile, e per questo limite indispensabile della conoscenza umana. Schopenhauer riprende questa dicotomia nella sua descrizione del mondo, indicando il fenomeno come la RAPPRESENTAZIONE del mondo stesso, ossia come effettivamente appare ai nostri sensi, e affermando il noumeno come VOLONTA’, ossia il mondo come noi vorremmo che fosse, espressione di quella forza metafisica che eccede il piano empirico. Schopenhauer però prende le distanze da Kant, in quanto Kant considerava il mondo una delle idee della ragion pura, di natura dunque noumenica e inconoscibile, mentre il filosofo di Danzica pone il mondo al centro di tutta la sua speculazione. Nella sua riflessione Schopenhauer considera il mondo come rappresentazione, dal punto di vista fenomenico, e come volontà, dal punto di vista noumenico. Nel primo caso, relativo alla conoscenza scientifica, il mondo viene visto come un oggetto per il soggetto. Il soggetto è ovviamente l’uomo che lo deve conoscere. Nel secondo caso invece il mondo è l’oggettivazione di quella forza metafisica che è la volontà in quanto forza viva, ossia volontà di vivere. Il mondo in quanto rappresentazione non può prescindere dai due aspetti,  inseparabili, di soggetto e oggetto, che caratterizzano ogni esperienza. La dimensione oggettiva si basa a sua volta sulle forme di spazio e e tempo e sulla causalità: ogni esperienza infatti non potrebbe prescindere dallo spazio, dalla successione temporale e dalle relazioni causali che legano gli oggetti tra di loro. Si tratta del mondo del cosiddetto PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS per cui la realtà appare frammentata e divisa come sono separati soggetto e oggetto, e che  Schopenhauer riconduce al termine sanscrito AHAMKARA che nei Veda indica praticamente la coscienza nel suo atto rappresentativo del reale (da aham, cioè io, e  kara, fare). Il soggetto, in quanto condizione della stessa esperienza, a differenza dell’oggetto, non può essere conosciuto e a lui non si possono ricondurre le stesse prerogative dell’oggetto poiché la è unitario e non frammentato come la realtà: per questo motivo le forme del mondo della rappresentazione sono a priori e indipendenti sia dall’esperienza sia dal soggetto stesso da cui ogni esperienza dipende. Rispetto a Kant Schopenhauer riduce le dodici categorie a una sola, quella della causalità, e, in un modo diverso da Kant, distingue nel soggetto tre facoltà conoscitive: la SENSIBILITA’, l’INTELLETTO (facoltà delle rappresentazioni intuitive) e la RAGIONE (facoltà delle rappresentazioni astratte). La collaborazione tra sensibilità e intelletto permette di applicare a tutti i fenomeni il principio della causalità. che è forma a priori dell’intelletto: grazie a questa collaborazione le sensazioni esterne sono interpretate dall’intelletto come effetti di cui occorre ricercare le cause, a loro volta proiettate fuori dall’organismo. L’intuizione nella filosofia di Schopenhauer è dunque opera dell’intelletto, e si tratta di una intuizione empirica. La fissazione delle conoscenze acquisite con l’intuizione dà luogo alla conoscenza astratta che è oggetto della ragione e riguarda invece i concetti. La dottrina della causalità, altrimenti detta da Schopenhauer PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE, riveste un ruolo fondamentale nel sistema (tanto che egli dedica a questo problema la sua tesi di laurea): niente è senza ragione. La formulazione wolffiana di tale principio (nihil est sine ratione cur potius sit, quam non sit) non viene assunta da Schopenhauer in senso ontologico ma critico, riferendosi cioè al modo in cui il soggetto si rapporta agli oggetti e al modo in cui gli oggetti si rapportano tra loro. Schopenhauer individua quattro forme del principio di ragion sufficiente, che corrispondono ad altrettanti modi di connessione necessaria tra gli oggetti:

DIVENIRE - si applica alle rappresentazioni intuitive che ci permettono di avere un’immagine della realtà empirica e coincide con la necessità fisica delle relazioni causali;
CONOSCERE - si applica alle rappresentazioni astratte, cioè ai concetti, e coincide con la necessità logica delle relazioni tra premesse e conseguenze;
ESSERE - si applica alle intuizioni a priori di spazio e di tempo in ambito matematico e coincide con la necessità matematica e geometrica;
AGIRE - si applica al soggetto e coincide con la necessità morale, in quanto spiega il motivo delle azioni.

Queste quattro forme del principio di ragion sufficiente forniscono nell’insieme una prospettiva del mondo, ma la conoscenza del mondo per Schopenhauer non finisce qui: anzi, l’immagine del mondo che ci rappresentiamo è solo una parvenza illusoria che nasconde la vera essenza, quella che Kant chiamava la cosa in sé. Il compito della filosofia è quello di svelare questa essenza, liberandola dal velo di illusorietà che Schopenhauer chiama col termine sanscrito maya.

SCHOPENHAUER - LEZIONE 3
La liberazione della volontà

3.1 - L’esperienza che l’essere umano fa del proprio copro nell’autocoscienza è la dimensione che permette di connettere la rappresentazione e la volontà. Anche il corpo è un oggetto, ma a differenza degli altri oggetti è immediato, poiché ne facciamo continuamente esperienza diretta nell’autocoscienza. Ma il corpo è sopratutto forza viva, e lo si vede da ogni movimento che si compie, che costituisce un atto di volontà: il soggetto conosce dunque continuamente sé stesso come soggetto dei propri atti volontari. Schopenhauer apre dunque ad una conoscenza metafisica. Non tutte le forze della natura possono infatti essere spiegate con l’atteggiamento scientifico-naturalistico, e necessitano di essere spiegate in prospettiva metafisica, facendo coincidere tutte queste forze proprio nella volontà di cui facciamo esperienza nell’autocoscienza: ecco che troveremo nei minerali gravitazione, fossilizzazione e coesione, nei vegetali nutrizione e crescita, negli animali l’istinto e la sensibilità, nell’uomo la consapevolezza di sé. La volontà è una forza unica, indistruttibile ed  eterna, che si presenta, intera e indivisa, in ogni fenomeno naturale.
Per spiegare la mediazione tra l’unicità e della volontà e la molteplicità dei fenomeni Schopenhauer riccorre al significato platonico dell’IDEA. Le idee sono i diversi gradi di oggettivazione della volontà, cioè le forme degli oggetti attraverso cui la volontà si manifesta nel mondo. Come in Platone le idee non appartengono al mondo del divenire ma a quello dell’essere. Schopenhauer sottolinea che la volontà è cieca e irrazionale, inconscia, priva di fondamento e di scopo: essa è volontà di volere, desiderio, bisogno, mancanza, in poche parole DOLORE. Questo bisogno è all’origine di una contesa tra le volontà, una lotta quasi animalesca che in senso umano si traduce nell’hobbesiano homo homini lupus: ma Schopenhauer compie una distinzione gerarchica tra le diverse forme, fino ad arrivare all’uomo, in cui alle rappresentazioni intuitive, tipiche dell’intelletto, si accompagnano le rappresentazioni astratte, tipiche della ragione. Compare quindi non più una forza inconsapevole ma la coscienza, che dipende dal cervello, strumento al servizio della volontà al fine di conservare l’individuo e la specie.

3.2 - La conoscenza scientifica non è sufficiente. Per questo Schopenhauer considera l’arte fondamentale, non solo dal punto di vista estetico ma anche metafisico: spetta ad essa il compito di comunicare, in modo contemplativo e disinteressato, che l’essenza del mondo della rappresentazione è la volontà: l’arte è il primo grado del processo di liberazione dalla volontà. In quanto tale l’arte è una conoscenza geniale: essa è disinteressata e non utilitaristica. Qui l’intelletto non è asservito alla volontà come nella conoscenza empirica: nel genio la conoscenza è spropositata rispetto a ciò che serve alla volontà. Il genio conosce le cose indipendentemente dal principio di ragion sufficiente. L’intuizione geniale non si rivolge alle cose, agli oggetti della realtà empirica, ma alle loro forme, ossia alle idee: essa è contemplazione, non conoscenza, e in quanto tale essa trascende il principium individuationis. Il soggetto qui diventa puro soggetto del conoscere, l’intelletto si libera del suo asservimento alla volontà ed è libero di cogliere il significato metafisico della realtà. Dunque il soggetto si rivolge all’essenza delle cose, a “ciò che le cose sono”.
Schopenhauer elabora una gerarchia delle arti, procedendo dall’architettura alla pittura figurativa, dalla scultura alla poesia, dal dramma alla tragedia, fino  ad arrivare alla musica. La tragedia è la più importante dei generi poetici dato che mette in scena il lato negativo della vita, l’essenza dell’umanità, ma è la musica la forma d’arte più elevata. Essa è infatti un’espressione diretta della volontà: il linguaggio universale della musica consente di cogliere l’essenza della realtà, non questo o quel dolore, non questa o quella gioia, ma la gioia e il dolore in sé stessi. Perciò la musica costituisce l’equivalente della filosofia, che esprime invece il linguaggio dei concetti astratti.

3.3 - L’arte come via di liberazione ha un carattere fugace e momentaneo, ma essa prefigura il passaggio al grado successivo, che ha carattere etico e non più estetico, quello della negazione della volontà e del suo abbandono in via definitiva e duratura. Il primo passo è quello dell’azione morale. La moralità è come in Kant un’azione disinteressata, volta a superare gli atteggiamenti egoistici degli uomini nei confronti della realtà, ma Schopenhauer non pone l’imperativo categorico come principio: egli fonda la moralità sulla pietà, cioè l’altruismo disinteressato, per cui il bene degli altri è il nostro bene, e sulla compassione, per cui il dolore degli altri è il nostro dolore. Ma la pietà e la compassione non nascono dalla conoscenza del dolore ma dall’esperienza del dolore degli altri. Poiché la volontà è libera, la morale di Schopenhauer non è una morale del dovere ma un atto di volontà. A differenza del piano fenomenico, dove sussiste una ragion sufficiente per ogni azione, sul piano noumenico l’azione è libera, e proprio per questo l’etica non può imporre qualcosa basato su un principio trascendente ma deve procedere in modo immanente. Schopenhauer afferma che il suo compito non è tanto quello di portare l’uomo dall’egoismo individuale a una moralità più elevata, quanto di renderlo consapevole della vera essenza della realtà. La volontà giunta a uno stadio di consapevolezza nell’essere umano deve scegliere tra continuare a volere (MOTIVO) o rinunciare alla volontà di vivere (QUIETIVO). Se sceglie la seconda strada l’uomo inizia un percorso di liberazione dal condizionamento del volere, che passa attraverso tre gradi: la GIUSTIZIA, ossia il rispetto per gli altri e il rifiuto di fargli male; la carità o AGAPE, ossia l’amore universale, non egoistico e disinteressato, che si traduce nella compassione universale; e infine l’ASCESI, ossia una radicale negazione della volontà di vivere. In qunato tale l’ascesi è diversa dal suicidio, poiché il suicidio è per contro un’affermazione della volontà di vivere, essendo un atto della volontà che esprime una insoddisfazione e un bisogno non colmato. L’ascesi è uno stato inattivo, una contemplazione estatica del nulla, come le vite dei santi e porta l’uomo oltre il principio di individuazione in uno stato di serenità e di quiete, di pace dell’anima, calma, imperturbabilità. Schopenhauer conobbe una certa fortuna negli ultimi anni della sua vita anche in Italia, esercitando una discreta influenza su diversi intellettuali e artisti, sopratutto per merito di alcuni scritti pubblicati nel 1851 col titolo PARERGA E PARALIPOMENA, la cui redazione non contrasta,con la sua principale opera sistematica, ma ne rappresenta, come dice lo stesso Schopenhauer nella Premessa, un’integrazione in senso organico.

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KIERKEGAARD - LEZIONE 5
La realtà esistenziale dell’uomo

5.1 - La filosofia hegeliana aveva l’obiettivo di mostrare la realtà del pensiero, dissolvendo la singolarità nell’universalità della storia dello spirito. La filosofia di Kierkegaard riparte proprio dalla singolarità, dall’uomo visto nei suoi aspetti concreti e possibili. Kierkegaard contrappone al sistema filosofico hegeliano l’esistenza del singolo: ma egli non si considera un vero filosofo quanto uno scrittore di cose religiose, poiché solo la religione riesce a soddisfare i bisogni dell’uomo. Dalla sua posizione duplice di filosofo e di uomo religioso Kierkegaard è con Marx e Nietzsche uno dei critici più radicali della moderna società borghese e uno dei pensatori cristiani più innovatori. La caratteristica più evidente del suo pensiero è la SCRITTURA, non solo per la vocazione di scrittore ma anche per la forte accezione autobiografica della sua riflessione - come testimoniano le pagine del suo DIARIO, che accompagneranno il suo pensiero per oltre un ventennio - influenzata dal rapporto col padre, con la chiesa luterana danese e con la compagna Regine Olsen. Questi aspetti mettono in luce che la dimensione diaristica e autobiografica tipica dell’opera di Kierkegaard è una scelta coerente e voluta proprio per rafforzare la teoria che il pensiero è l’espressione di una esistenza singola, reale, concreta e non vuoto astrattismo. Proprio l’affermazione del primato dell’esistenza singolare e individuale, porta Kierkegaard a una dura critica al conformismo borghese del suo tempo, all’appiattimento dei singoli nella massa, dovuto anche alle dottrine egualitarie contro cui il filosofo si scaglia, nella difesa della monarchia e dell’ordine pubblico. Kierkegaard condannerà i moti insurrezionali del 1848, in quanto la massificazione dei singoli non era garanzia di libertà. Partendo da una prospettiva religiosa arriverà perfino a teorizzare un governo costituito da sacerdoti cristiani. Tuttavia la critica investe anche la stessa chiesa luterana danese, accusata di ateismo cristiano per aver allontanato il singolo da Dio in nome di una religione di stato, e la teologia razionalista, in quanto il cristianesimo non è dottrina ma pratica, basata sull’ascolto della parola di Dio: Kierkegaard infatti è interessato sopratutto all’itinerario esistenziale che porta a diventare cristiani. La dimensione soggettiva della coscienza, coi suoi dubbi, con le sue possibilità, deve essere salvaguardata: perciò Kierkegaard condanna il sistema hegeliano, per aver risolto nel concetto le finalità esterna e interna, pregiudicando così l’integrità dell’agire etico. 
Nella POSTILLA CONCLUSIVA alle BRICIOLE DI FILOSOFIA (1846) emerge tutto il carattere soggettivo del pensare, con la differenza tra il PENSATORE ASTRATTO, calato in una dimensione teoretica e non interessato ai bisogni dell’esistenza, e il PENSATORE ESISTENTE, coinvolto nell’esistenza, e per questo soggettivo, che rappresenta la forma di filosofia che si accorge delle esigenze dell’esistere, esigenze a cui il pensatore astratto, alla ricerca di una impossibile oggettività, invece si sottrae. Kierkegaard contrappone alla verità oggettiva, che prescinde dall’esistenza del soggetto conoscente, una verità soggettiva, indissolubilmente legata all’esistenza del soggetto, attenta non a ciò che si dice bensì al modo in cui qualcosa si dice: se il pensiero oggettivo si rivolge all’esteriorità, quello soggettivo fa i conti con l’interiorità e quindi con la coscienza esistente. Il concetto di verità soggettiva, in aperta opposizione alla filosofia hegeliana, costituisce l’autentico senso del cristianesimo: essa non va intesa come autosufficienza del soggetto ma come individuazione del soggetto quale soggetto dell’esperienza dell’assoluto. Questa affermazione allontana definitivamente Kierkegaard da Hegel, che per il suo tentativo di mediazione tra religione e filosofia e di giustificazione razionale dei contenuti religiosi viene accusato di essere un falsificatore del cristianesimo. La critica a Hegel mette bene in evidenza la distanza tra i due filosofi: se Hegel aveva considerato la figura di Gesù come conciliatrice tra l’uomo e Dio, Kierkegaard parte dal presupposto che tra uomo e Dio esiste una distanza abissale.
La riflessione di Kierkegaard deve tuttavia molto all’hegelismo, sopratutto nel concetto della DIALETTICA DELL’ESISTENZA. A differenza della dialettica di Hegel si deve notare la totale assenza di conciliazione e la presenza della contraddizione, come nei tre stadi dell’esistenza. 

5.2 - Il termine ESISTENZA può avere due significati: il primo ha il senso di “derivato” ossia “essere da” o “proveniente da” di un ente “dato dal di fuori” e cioè creato da Dio; il secondo rimanda alla distinzione aristotelica di potenza e atto e indica la fatticità e l’effettività, l’attualità dell’esserci contrapposta all’essenza in quanto possibilità. Questo duplice significato di esistenza la pone da un lato come CONTINGENZA e dall’altro come REALTA’ IN ATTO. Accanto a questi due caratteri di esistenza, Kierkegaard considera anche un terzo, l’INDEDUCIBILITA’ DELL’ESISTENZA DAL CONCETTO, nella stessa accezione già usata da Kant, nelle prove dell’esistenza di Dio, in cui Kant considera l’esistenza come posizione assoluta, non deducibile  logicamente dall’essenza. L’esistenza non è un concetto e non è deducibile dal concetto: è passione infinita e interesse. Mentre per il concetto non è essenziale che esista, per il singolo l’esistenza è fondamentale. L’esistenza, poiché si svolge nel tempo, è finita e contingente, ma tende alla trascendenza in quanto l’uomo è singolo poiché creato a immagine e somiglianza da Dio. 
La categoria che descrive meglio di tutte l’esistenza è la POSSIBILITA’ perché l’uomo, a differenza di altri animali, “è ciò che sceglie”: questo aspetto mette in evidenza tutta la problematicità e la complessità del modo di essere dell’uomo che esiste nel tempo. Essendo soggetta al divenire l’esistenza è estranea alla necessità: essa è possibilità e scelta, quindi libera. Questa libertà non va intesa in senso positivo, infatti la vita pone l’uomo di fronte a continue decisioni, scelte e alternative, inconciliabili, che mettono in gioco la stessa esistenza, poiché l’uomo è ciò che sceglie. Non è detto che nella scelta una possibilità si debba per forza realizzare, essa potrebbe diventare nulla. Il singolo che si trova a fronteggiare questa sorta di onnipotenza della possibilità sprofonda nell’ANGOSCIA, definita da Kierkegaard sentimento puro e angosciante possibilità di potere, da cui si guarisce solo affidandosi alla fede e al rapporto con Dio.

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MARX - LEZIONE 8
La realtà storica dell’uomo

8.1 - La filosofia di Marx è una speculazione dai molteplici orientamenti - diritto, economia, sociologia, storia - riconducibili all’analisi della realtà storica e sociale. Rispetto ad altri filosofi non si limita agli aspetti teorici ma cerca di individuare le dinamiche di sviluppo di quelle strutture che hanno reso possibile la trasformazione della società industriale e capitalistica del suo tempo. Teoria e scienza non sono per Marx due prospettive distinte ma due aspetti concomitanti alla prassi sociale. Karl Marx nasce a Treviri, in Renania, nel 1818, e a 17 anni inizia a Bonn gli studi di Legge, che tuttavia abbandona dopo un anno, iscrivendosi quindi alla facoltà di Filosofia dell’Università di Jena, dove consegue la laurea nel 1841: determinante fu l’incontro con i giovani hegeliani. A causa delle tendenze reazionarie del governo prussiano, Marx è costretto ad abbandonare il suo progetto di dedicarsi alla docenza universitaria, ripiegando sul giornalismo politico. La sua attività lo porta a trasferirsi a Parigi, dove incontra Proudhon e Bakunin ma sopratutto il suo amico Friedrich Engels, che condivide con Marx un sodalizio durato tutta la vita. In questo periodo vedono la luce due opere che segnano il passaggio di Marx dall’ideologia liberale al comunismo: i MANOSCRITTI ECONOMICO-FILOSOFICI e LA SACRA FAMIGLIA, quest’ultima scritto con Engels. Dopo Parigi si trasferisce a Bruxelles, dove scrive altre due opere, le TESI SU FEUERBACH e L’IDEOLOGIA TEDESCA, di nuovo con Engels, opera in cui appare per la prima volta la concezione materialistica della storia. Durante la cosiddetta primavera dei popoli, Marx, molto vicino ai movimenti rivoluzionari e comunisti, elabora con Engels il MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA. Dopo il Quarantotto si trasferisce definitivamente a Londra, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel 1883, conducendo una vita molto precaria. A Londra si dedica a studi sull’economia, pubblicando il primo libro de IL CAPITALE (gli altri due saranno pubblicati postumi a cura di Engels). 

8.2 - Lo sviluppo della concezione marxiana dell’uomo e della società nasce sicuramente dalla critica rivolta ai vari predecessori, sopratutto a Hegel e Feuerbach, oltre a diversi esponenti della sinistra hegeliana. Contro Hegel  scrive la CRITICA ALLA FILOSOFIA HEGELIANA DEL DIRITTO PUBBLICO, opera incompleta e pubblicata postuma, che è considerata importante per lo sviluppo della concezione dello stato. In quest’opera Marx inizia dalla critica al metodo usato da Hegel nella sua concezione del diritto e dello stato: il solo elemento di positività è la dialettica, che ha consentito a Hegel di focalizzare la distinzione tra stato e società civile, caratteristica del mondo moderno, mettendone in luce gli aspetti contraddittori. Ma gli aspetti positivi finiscono qui. L’errore di Hegel sarebbe stato quello di assegnare alla dialettica un carattere speculativo, facendo della famiglia, della società civile e dello stato, tre momenti dell’idea, attribuendo realtà al pensiero e viceversa assegnando al concreto un carattere astratto. Si tratta quindi dello stesso capovolgimento operato da Feuerbach. Si tratta dice Marx, di un MISTICISMO LOGICO, di una divinizzazione dell’idea che diventa il soggetto del processo di sviluppo storico, facendo derivare da essa tutti gli aspetti reali del processo stesso. Quello hegeliano, scrive Marx, è un empirismo inconsapevole, che vede il finito e il presente come un riflesso dell’assoluto, dando a questi elementi un carattere di eternità.
In un’altra opera, LA QUESTIONE EBRAICA, Marx esamina il rapporto tra stato e società civile con una critica alle idee di rappresentanza, libertà ed eguaglianza, proprie della concezione borghese di democrazia. Nella società borghese è presente la scissione tra il citoyen, il cittadino, membro partecipe della vita politica dello stato, e il bourgeois, il borghese che fa parte cioè della società, impegnato nella realizzazione delle proprie aspirazioni. Questa scissione era sconosciuta nella polis greca, in cui il cittadino era davvero parte della comunità - Marx parla di unità sostanziale con la comunità - e questa distinzione chiarisce il carattere illusorio dell’egalitè rivoluzionaria, che si è sempre propagandata come una conquista dei cittadini: come si sa invece il decennio rivoluzionario francese mostra una profonda divisione nella società civile. La tanto decantata uguaglianza dei diritti si scontrava infatti con una disuguaglianza dei rapporti all’interno della società civile francese del Settecento, profondamente stratificata, che riconduceva alla guerra di tutti contro tutti già teorizzata da Hobbes. La vera emancipazione è pertanto il superamento di questa scissione, riportando individuo, società e politica a questa unità sostanziale. Questo risultato si potrà ottenere solo con una  trasformazione decisiva di quelle strutture economiche e sociali fautrici della disuguaglianza.

8.3 - Marx si discosta ben presto dai giovani hegeliani e da Feuerbach, di cui condivide la concezione sensibile e naturale dell’uomo, ma a cui rimprovera il carattere estremamente passivo e ricettivo di questa concezione, oltre  all’assenza di qualsiasi storicità, quasi dimenticando la caratteristica di attività che contraddistingue l’essere umano: l’uomo non è infatti semplicemente un essere sensibile ma è anche prassi, attività spontanea, inserito nel processo storico; tutti gli uomini tendono a trasformare in meglio le loro condizioni di vita, senza accettare passivamente ciò che gli deriva dalla propria condizione materiale. Un altro punto di contrasto tra Marx e Feuerbach è la religione, e anche qui si nota la diversità di impostazione. Entrambi vedono la religione come un’alienazione e una forma di dipendenza, in realtà non è Dio ad aver creato l’uomo ma il contrario, è l’uomo a creare Dio a sua immagine e somiglianza. Ma l’errore feuerbachiano è aver imprigionato l’essere umano in una sorta di dimensione astratta, come se non avesse occasione di rimediare a questa proiezione inevitabile verso l’esterno: Marx ritiene invece che questa condizione abbia una determinazione storico-sociale ben precisa, ossia il processo di alienazione derivante dalla condizione di sfruttamento del lavoratore salariato nell’economia capitalistica.

8.4 - Lo scritto che conferma il distacco di Marx dai giovani hegeliani, sopratutto da Feuerbach, ma anche da Bauer e da Stirner, è L’IDEOLOGIA TEDESCA, opera scritta a quattro mani con l’amico Friedrich Engels, che non fu subito pubblicata in quanto serviva sopratutto come chiarimento della visione che Marx ed Engels avevano sviluppato circa il problema storico. 
L’opera segna il passaggio dalla concezione hegeliana della storia alla concezione materialistica della storia (MATERIALISMO STORICO). La storia viene considerata come un processo obiettivo, con leggi sue specifiche, radicato nei bisogni umani. In questa opera i due autori vanno alla ricerca di un metodo critico in grado di fondare una nuova concezione della storia, legata alla dimensione reale dell’umanità. Appare qui evidente il valore negativo dato all’IDEOLOGIA, inteso da Marx non come un insieme organico di idee ma come una specie di velo che mistifica la realtà, nascondendo le sue vere caratteristiche, la sua struttura, le sue forze motrici, e sostituendo ai rapporti reali un’immagine assolutamente deformata. Si tratta di una prospettiva ancora romantica e idealistica in cui il carattere spirituale e quello ideale sono considerati i motori propulsori e autonomi della realtà materiale che è alla loro base. La concezione marxiana della storia umana non può prescondere dalla PRASSI. Infatti la storia viene vista non come un processo estraneo agli uomini ma un processo che li coinvolge direttamente, ossia un divenire regolato dai bisogni a cui gli uomini cercano di far fronte attraverso il lavoro. La differenza tra uomini e animali è che gli uomini producono da sé stessi i propri mezzi di sussistenza. A questa fase ne segue una seconda, quella relle relazioni sociali, della cooperazione, della riproduzione: e solo dopo questo sviluppo possiamo veramente parlare di COSCIENZA. Per Marx non è la coscienza a creare la vita ma è la vita a creare la coscienza. Infatti gli uomini - dopo essersi assicurati i mezzi di sussistenza e dopo aver creato una rete di legami sociali - non solo modificano le loro condizioni ambientali ma anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Lo strumento ideale per comprendere la natura dello sviluppo di queste fasi è sicuramente l’economia, definita da Marx l’anatomia della società civile (nella prefazione a PER UNA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA). 
Usando una metafora architettonica Marx ed Engels chiamano STRUTTURA ECONOMICA l’ambito della vita umana, i rapporti di produzione e i mezzi produttivi che costituiscono la dimensione sociale ed economica in cui gli uomini vivono, lavorano, e si relazionano. Tutto quello che emerge da questo ambito, ossia il pensiero umano, le teorie, la cultura, le istituzioni politiche e religiose, viene invece definito SOVRASTRUTTURA. Per Marx la sovrastruttura è condizionata dalla struttura economica, per questo motivo tutti i prodotti del pensiero umano sono soggetti alle influenze dei rapporti produttivi e dalle relazioni che si sviluppano al loro interno.

8.5 - Lo sviluppo della concezione storico-materialista di Marx ed Engels ha una svolta applicativa nel MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA, opera ancora una volta scritta a quattro mani, in cui si chiarisce non solo il significato del processo storico nei termini di una LOTTA DI CLASSE ma anche il futuro ruolo egemone del proletariato e la conseguente necessità di una transizione dalla società borghese, capitalistica e classista a  una società COMUNISTA e senza classi sociali, nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarebbe stato condizione del libero sviluppo di tutti. L’aspetto dinamico del processo storico è rappresentato dal conflitto sorto nel contesto della società borghese, che ha come sua caratteristica quella di aver polarizzato i suoi membri in borghesia e proletariato, quest’ultima la parte più estesa e tendente all’impoverimento. Ma la società borghese non viene demonizzata, anzi, gli stessi autori nel confronto con le classi sociali di un tempo ritengono che la borghesia abbia un carattere rivoluzionario, con una continua modifica dei rapporti produttivi, dei mezzi di produzione e delle relazioni sociali da essi derivati. Proprio perché spinta dalla continua ricerca del profitto la borghesia è stata capace di migliorare le condizioni della società, defeudalizzandola e laicizzandola, abbandonando vecchie usanze e convenzioni decrepite, e creando poi la grande industria che ha generato la classe operaia. Ma questa grande borghesia mostra inevitabilmente i limiti e le contraddizioni al suo interno quando si analizzano le condizioni storiche dello sfruttamento del lavoratore salariato, ossia la proprietà dei mezzi di produzione che appartiene al padrone e il limitato compenso spettante all’operaio. 
Marx ed Engels rivolgono una critica al socialismo utopistico, individuando nell’ultima parte del Manifesto tre forme di socialismo che non si basano su una corretta analisi della realtà socio-economica, e per questo motivo distinte da Engels, in un altro scritto, dalle forme scientifiche: il SOCIALISMO REAZIONARIO, diviso nelle sue forme feudale, piccolo-borghese e tedesca, è un tipo di socialismo che propone un ritorno alle società del passato; il SOCIALISMO CONSERVATORE, a cui viene ascritto Proudhon, propone una correzione della dimensione socio-economica borghese e capitalistica senza abbandonare la sua base materiale, la proprietà privata; il SOCIALISMO UTOPISTICO di Saint Simon, Fournier e Owen propone invece modelli ideali di società che non poggiano su una concreta analisi sociale ed economica delle condizioni materiali dell’umanità. Il socialismo marxiano-engelsiano offre una prospettiva SCIENTIFICA, basata sull’analisi delle condizioni sociali ed economiche che hanno reso possibile lo sviluppo della società capitalistica borghese. Tale analisi conduce i due studiosi a ritenere necessaria una nuova rivoluzione storica e culturale, come quella che ha sancito il passaggio dalla vecchia economia feudale al capitalismo, ossia una rivoluzione che segna il passaggio dalla società borghese alla società comunista con l’abbandono della proprietà legata al capitale. Si tratta di un processo naturale, poiché è la stessa borghesia ad aver creato la classe sociale che la sostituirà nel ruolo egemone, favorendo, con la creazione del mercato mondiale e di un potere centralizzato, le condizioni per l’unificazione del proletariato e l’estensione del processo rivoluzionario. A queste condizioni oggettive vanno aggiunte quelle soggettive, ossia la maturazione di una COSCIENZA DI CLASSE da parte dei proletari. La rottura rivoluzionaria avverrà quindi secondo Marx mediando questi aspetti, quello storico e oggettivo legato all’economia e alla società, e quello soggettivo e umano legato alla coscienza individuale e collettiva.

MARX - LEZIONE 9
La critica dell’economia politica

9.1 - La critica dell’economia politica è la definizione usata dallo stesso Marx per dichiarare la distanza della sua analisi dell’economia capitalistica rispetto a quelle formulate da altri economisti, tra cui Adam Smith. Nella sua critica a Hegel Marx mette in evidenza che all’uguaglianza giuridica tra i cittadini non corrisponde una vera uguaglianza sul piano sociale; inoltre, nella sua critica a Feuerbach, rivendica un diverso concetto di alienazione religiosa, basato non già sull’autotrascendimento dell’uomo ma sulle condizioni di vita del lavoratore salariato, costretto a guarire la sua frustrazione con la religione. Di qui la necessità di operare una vera e propria analisi dell’economia borghese: nella pars destruens della sua critica Marx intende decostruire le categorie proprie dell’economia del capitale, e nella pars construens intende sviluppare un’analisi critica delle condizioni economiche e politiche che condurranno al suo superamento. Questo lavoro critico, iniziato col MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA, ha il suo coronamento nel CAPITALE.
Nonostante il rifiuto della prospettiva idealista Marx utilizza delle categorie mutuate dal pensiero hegeliano per asserire il carattere naturalistico e non dialettico dell’economia politica, L’economia, dice infatti Marx, ha come base la proprietà privata, ma non sa come spiegarlo: non riflette infatti sulle reali condizioni da cui essa deriva, assimilando le leggi del capitalismo alle leggi della natura. Marx ritiene invece che la proprietà privata rappresenta l’esito di un preciso processo storico, e per comprenderne il significato occorre procedere a un’analisi del lavoro umano, che ne è parte. Il lavoro, per Marx, è uno strumento di oggettivazione delle capacità e della creatività dell’uomo, ma nella società capitalistica l’oggettivazione si trasforma in una alienazione  dal lavoro poiché il lavoratore salariato è ridotto ad essere solo una MERCE. Marx elenca quattro forme di alienazione dell’operaio dal proprio lavoro:
alienazione dal prodotto del lavoro
alienazione dall’attività lavorativa
alienazione da sé stesso
alienazione dal genere umano
La condizione forzatamente costrittiva del rapporto di lavoro tra il padrone e il salariato costituisce inequivocabilmente un danno per gli uomini, privandoli della consapevolezza di sé stessi, in quanto il lavoro mercificato toglie al lavoratore la possibilità di trasformare in modo creativo e autonomo la natura.  Il lavoratore salariato non conosce infatti il progetto lavorativo a cui sta prendendo parte, e sopratutto non ha alcuna conoscenza dell’intera filiera produttiva; inoltre non ha alcuna possibilità di manifestare la propria creatività limitandosi a ubbidire agli ordini del padrone. Per questo il rapporto diretto col padrone spersonalizza l’operaio, deprimendo gli stessi rapporti con l’intero genere umano, ridotti a una mercificazione delle competenze individuali.

9.2 - Marx prende le distanze dunque dall’economia classica, colpevole di aver incarcerato le sue concezioni in una visione fenomenica e naturalistica dei rapporti sociali e produttivi, e si rivolge a una prospettiva di tipo dialettico, derivata direttamente da Hegel: Marx non si ferma dunque al fenomeno come apparenza ma va direttamente a ricercare l’essenza interna, la connessione fondamentale delle forme economiche. Scopo di Marx è quello di mettere in evidenza l’esistenza di queste connessioni, vedendo la vita economica nella sua totalità, le cui parti svolgono hegelianamente un’intensa azione dialettica. Infatti, i quattro momenti fondamentali che fanno parte del ciclo economico (la produzione, la distribuzione, lo scambio, il consumo) esercitano un’azione reciproca continua. Ma Marx non ammette nel suo pensiero il concetto di idea che Hegel esprime quale inizio e fine dell’intero processo, sostituendo all’idealità la realtà della prassi: per questo motivo la filosofia marxiana non si limita ad analizzare le condizioni dell’economia capitalistica, ma i presupposti per il suo dissolvimento. La critica di Marx si concentra dunque sul cosiddetto capitale, ossia l’insieme dei beni e degli acquisti in un processo produttivo, nei suoi diversi aspetti e articolazioni. Alla base del processo produttivo c’è la MERCE, che è la cellula fondamentale del processo: a prima vista si direbbe un oggetto semplice, ma rivela al suo interno una fitta rete di articolazioni e di contraddizioni che si riflettono nella società. Gli esseri umani hanno trasformato la merce in una divinità, un feticcio, fino a farsi dominare da essa; in realtà occorre smascherare la vera identità della merce, e chiarire che essa è semplicemente un prodotto sociale in quanto prodotto del lavoro degli uomini e serve solo a soddisfare i loro bisogni. La merce ha un doppio valore: un VALORE D’USO, di tipo qualitativo, basato sul bisogno, e un VALORE DI SCAMBIO, di tipo quantitativo, basato sull’interesse. Questo valore è un’astrazione, poiché non ha direttamente a che vedere col valore d’uso della merce, e viene rappresentato dal DENARO, con cui viene stabilito in maniera quantitativa un confronto tra le merci. Rifacendosi all’economista inglese David RICARDO, Marx attribuisce il valore di una merce alla quantità di lavoro necessario alla sua produzione e in particolar modo alla quantità di lavoro socialmente necessario. Qui entrano in gioco diverse variabili, legate per esempio all’età del lavoratore, al sesso, alla sua forza, alla sua efficienza fisica, alle sue capacità e competenze: per poter valutare una merce occorre quindi innanzitutto capire in quale società essa viene prodotta, da chi, in quali condizioni e in quanto tempo: solo così possiamo confrontare realisticamente analoghi tipi di merce. Diversi economisti oppongono a questa concezione di valore quella basata sulle leggi del MERCATO, basate sulla DOMANDA  e sull’OFFERTA: Marx ritiene però che il valore di scambio di una merce dipende da fattori contingenti, come per esempio i gusti degli acquirenti, le tendenze, la scarsità o l’abbondanza di certe merci. Il modo di produzione capitalistico si basa sulla valorizzazione del capitale: infatti la produzione delle merci non è finalizzata al consumo immediato ma allo sviluppo del capitale. La formula del ciclo dell’economia pre-capitalista (M-D-M) si trasforma nella formula (D-M-D’) in cui:
1) nel primo caso la merce M viene venduta in cambio di denaro D per acquistare nuova merce M (M-D-M);
2) nel secondo caso il denaro D viene investito nell’acquisto di una merce M per ottenere una somma di denaro maggiore di quella iniziale D‘ (D-M-D’). 
La somma di denaro che si ottiene nel secondo caso ha quindi un valore superiore a quella iniziale e pertanto si chiama PLUSVALORE. Il plusvalore non nasce però dal denaro o dallo scambio ma viene ricercato da Marx in una merce particolare che il padrone acquista per guadagnare di più, ossia la capacità di produrre, ossia il lavoro dell’operaio. Si tratta della cosiddetta FORZA LAVORO, ossia la merce umana comprata dal capitalista per produrre e guadagnare: il padrone compra il lavoro come una qualsiasi merce, pagando il tempo socialmente necessario all’operaio  salariato per riprodurre la forza lavoro. Questo valore corrisponde al valore dei mezzi necessari al lavoratore per vivere, per far vivere la sua famiglia, per educare i figli. Nel mondo capitalistico questo rapporto si traduce però nello SFRUTTAMENTO del lavoratore, costretto a lavorare, oltre alle ore di lavoro necessarie a produrre la merce con cui sostenere le proprie condizioni di vita, altre ore di lavoro supplementare che Marx chiama PLUSLAVORO: è questa fonte di lavoro non pagato a generare il plusvalore. Il plusvalore pur derivando dal profitto, non si identifica con esso. Marx opera una distinzione tra CAPITALE VARIABILE (cioè il denaro onvestito nella forza lavoro, quindi il salario) e il CAPITALE COSTANTE (cioè il denaro investito nell'acquisto delle macchine e di quanto necessita alla fabbrica per prdourre). Il plusvalore nasce proprio dal salario, copè dal capitale variabile ed è legato quindi al pluslavoro.  Marx chiama SAGGIO DEL PLUSVALORE il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile e SAGGIO lpDEL PROFITTO il rapporto tra il plusvalore e la somma tra capitale costante e capitale variabile.  È evidente che le due formule non coincidono e che il saggio del plusvalore è sempre superiore al saggio del profitto. La principale conseguenza dell'economia capitalista è l'aumento del capitale costante, e la conseguente tendenza del padrone ad aumentare la produzione. Questo è secondo Marx la causa del collasso dell'economia capitalista, a causa della diminuzione del plusvalore e quindi del profitto (legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). Marx individua diverse cause antagoniste che si oppongono a questa legge:
lo sfruttamento della forza lavoro;
la riduzione dei salari;
la creazione di un esercito industriale di riserva a causa della disoccupazione, conseguente alle innovazioni tecnologiche;
l'abbassamento dei costi:8 produzione;
il calo dei prezzi per l'allargamento dei mercato.
Tuttavia, avvisa Marx, anche queste cause non sono rimedi veri e propri ma aggiustamenti, destinati a rivelare ben presto le contraddizioni del capitalismo, prima fra tutti la ciclicità delle CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE cioè l'eccesso di produzione che non viene assorbita dalla domanda dei mercati.queste contraddizioni sono per Marx il segnale del tramonto dell'economia del capitale e l'avvento di una nuova società senza classi e senza stato, in cui non esiste più lo sfruttamento.

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3A - U4 + L30
Nietzsche e Freud

NIETZSCHE - LEZIONE 22
Vita e opere di Nietzsche

22.1 - il pensiero di un filosofo e il corso della sua vita sono due percorsi intrinsecamente correlati: in una delle sue opere più celebri, AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE, Nietzsche paragona il pensiero di un filosofo quasi a un autodafè. Sarebbe sicuramente riduttivo interpretare l'intero corso del pensiero niceano in chiave strettamente autobiografica, ma è tuttavia importante la sua biografia, in quanto egli stesso afferma nella NASCITA DELLA TRAGEDIA di aver condotto la sua speculazione "nell'ottica della vita" esulando da qualsiasi prospettiva sistematica tradizionale. Pertanto le tappe esistenziali e intellettuali della vita di Nietzsche sono una base fondamentale per capire il suo progressivo allontanamento dalla religione cristiana fino al nichilismo, l'interesse per la filologia classica e la ricerca di un nuovo percorso di consapevolezza per l'uomo. Nietzsche nasce nel 1844 a Röcken, una cittadina della regione prussiana Sassonia-Anhalt nei pressi di Lützen, da una famiglia di solide tradizioni protestanti (i genitori erano entrambi provenienti da famiglie di pastori luterani e lo stesso padre di Nietzsche lo era). Due anni dopo la sua nascita venne alla luce la sorella Elisabeth, e a distanza di altri due anni il fratello Joseph, che muore a soli 2 anni, poco dopo la scomparsa del padre. Nietzsche fu sempre legato alla figura del padre, mentre maturò forti contrasti con la madre e la sorella, sopratutto a causa del suo spirito libero che lo portò ad allontanarsi dal cristianesimo luterano praticato in famiglia. Dopo la morte del fratello la famiglia si trasferì a Naumburg, dove Nietzsche iniziò ad andare a scuola e dove ricevette una precoce educazione musicale, tanto che, ancora dodicenne, cominciò a comporre piccoli brani e a scrivere poesie. A 14 anni, tramite una borsa di studio, fu ammesso al ginnasio di Pforta, scuola rinomata per la qualità dell'insegnamento umanistico, dove Nietzsche si appassionò alla filologia classica e dove strinse una delle amicizie più importanti della sua vita, quella col futuro orientalista e studioso di sanscrito Paul Deussen; pochi anni più tardi, insieme a due amici d'infanzia, fonda l'associazione Germania e scrive i primi saggi, ispirati alle opere di Ralph Waldo Emerson. Ventenne si iscrive alla facoltà di Teologia dell'Università di Bonn, che però abbandonò l'anno seguente per studiare filologia a Lipsia. La scelta segnò l'inizio dei contrasti con la famiglia, che auspicava per lui il ruolo di pastore luterano come da tradizione. A Lipsia Nietzsche si avvicinò allo studio della filosofia, sopratutto dei presocratici, di Kant e di Schopenhauer, e iniziò le prime collaborazioni nelle attività di scrittore e conferenziere. nel 1867 intraprese il servizio militare a Naumburg ma fu congedato dopo un anno a causa di una brutta caduta da cavallo che gli procurò una brutta ferita al petto. Nel novembre di quello stesso anno Nietzsche incontra per la prima volta il compositore Richard Wagner, iniziando cpn questo un sodalizio destinato a segnare un solco intellettuale profondo nella vita di Nietzsche.

22.2 - Dopo aver conseguito il dottorato in Filologia a Lipsia, nel 1869 Nietzsche ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca all'Università di Basilea. Qui, oltre a stringere altre amicizie importanti, Nietzsche rinuncia alla cittadinanza prussiana per diventare ufficialmente apolide, rifiutando anche la cittadinanza elvetica. Nel 1870, oltre a tenere due conferenze sul dramma musicale greco e su Socrate e la tragedia, scrisse anche un saggio sulla visione dionisiaca del mondo: si tratta del nucleo iniziale dell'opera LA NASCITA DELLA TRAGEDIA. In questo periodo Nietzsche comincia a non sentire più la vocazione accademica, tanto da arruolarsi nella Guerra Franco-Prussiana. Ma al fronte fu colpito dalla difterite e fu rimpatriato. Fece quindi ritorno a Basilea dove cercò invano di ottenere la cattedra di Filosofia e dove si dedicò alla stesura della sua prima opera filosofica, LA NASCITA DELLA TRAGEDIA. Conclusa nel 1871 e pubblicata l'anno seguente, l'opera fu accolta con ostilità dal mondo accademico. L'opera, ancora sotto l'evidente influsso di Schopenhauer, esprimeva una concezione del mondo in cui dionisiaco e apollineo non erano semplicemente due caratteri della tragedia ma due principi della realtà. Nietzsche prendeva le distanze dal razionalismo socratico, considerato responsabile del decadimento della civiltà occidentale, ed esaltava la musica di Wagner, considerata espressione proprio di quel decadimento. Profondamente deluso dalle critiche alla sua opera Nietzsche decise di abbandonare l'insegnamento, anche a causa delle frequenti nausee ed emicranie che lo tormentavano dai tempi di Lipsia, e abbracciò il progetto di dedicarsi alla propaganda wagneriana. La decisa svolta intellettuale porta Nietzsche a prendere le distanze dalle sue amicizie giovanili e a contrarne di nuove, come quella con Paul Ree e quella con Peter Gast, che fu anche un suo fidato collaboratore nella fase più avanzata della malattia. È questo il periodo delle CONSIDERAZIONI INATTUALI, una serie di quattro scritti che, secondo una tendenza già presente nella prima opera filosofica di Nietzsche, costituiscono una critica della cultura. Le tematiche affrontate in queste opere rappresentano una vivace reazione al filisteismo della cultura tedesca, una condanna  dei miti e delle ideologie, e l'esaltazione dello spirito wagneriano nella visione tragica dell'arte.
Tra il 1878 e il 1879 due avvenimenti segnano profondamente la vita di Nietzsche: la rottura del suo sodalizio con Wagner e il definitivo abbandono dell'insegnamento universitario. Questi due eventi aprono una fase di grande fervore critico ma anche di tensioni e inquietudini, ben rappresentate nell'opera UMANO, TROPPO UMANO pubblicata tra il 1878 e il 1880, il cui primo tomo recava il sottotitolo "un libro per spiriti liberi", e nell'opera tardiva ECCE HOMO.

22.3 - Dopo l'abbandono dell'insegnamento Nietzsche, a cui l'università riconobbe una modesta pensione, trascorse alcuni anni senza fissa dimora, in condizioni psicofisiche piuttosto precarie, spostandosi tra la Svizzera, il Nord Italia e la Francia Meridionale, alla ricerca di climi favorevoli al suo stato di salute. Nel 1881 pubblica AURORA, saggio sulla critica della morale, e l'anno seguente LA GAIA SCIENZA, dove trovano posto due tra i temi più importanti della fase matura del suo pensiero, la morte di Dio e il superuomo. Nella primavera di quello stesso anno Nietzsche incontrò a Roma la giovane intellettuale russa Lou von Salomè, di cui si innamorò. Di Lou si innamorò anche l'amico di Nietzsche, Paul Ree: il triangolo amoroso causò la fine dell'amicizia con Ree. Inoltre questo legame  causò una forte tensione tra Nietzsche e la sorella, ostile alla giovane russa. Tutti questi avvenimenti portarono il filosofo a una profonda depressione.
Tra il 1883 e il 1885 Nietzsche completa le quattro parti di COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA, dove troviamo i temi dell'eterno ritorno dell'uguale, della morte di Dio, del nichilismo, e dove si compendia e si sviluppa la visione dionisiaca già mostrata nella NASCITA DELLA TRAGEDIA. Nel frattempo Nietzsche fu coinvolto in una nuova lite familiare a causa del fidanzamento di Elisabeth con Bernhard Forster, un wagneriano antisemita: il filosofo giunse a rompere i rapporti con la madre e la sorella, con le quali poi si riconciliò, ma non volle essere presente al matrimonio. Mentre progettava un'opera sistematica sulla critica della morale, che però rimase incompiuta, tra il 1886 e il 1888 Nietzsche fece pubblicare quattro opere fondamentali:

AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE (1886)
GENEALOGIA DELLA MORALE (1887)
L'ANTICRISTO (1888)
CREPUSCOLO DEGLI IDOLI (1888)

Sempre nel 1888 vedono la luce l'opera autobiografica ECCE HOMO e i due saggi IL CASO WAGNER e NIETZSCHE CONTRA WAGNER. Si tratta delle ultime opere di Nietzsche: oramai prigioniero delle sue allucinazioni egli si trasferisce a Torino, da cui invia lettere dal tono enfatico ed esaltato che allarma gli amici. Ricoverato in una clinica psichiatrica di Basilea e poi in un'altra clinica a Jena, il filosofo, ormai ottenebrato dalla malattia, trascorre i suoi ultimi anni di vita dapprima a Naumburg, ospite della madre, e dal 1897, dopo la morte di quest'ultima, a Weimar a casa della sorella Elisabeth, che fonderà l'Archivio Nietzsche. Si spegne a Weimar nel 1900.

NIETZSCHE - LEZIONE 23
La Nascita della Tragedia

23.1 - il primo impianto della concezione filosofica tragica niceana appare nel 1872 con l'opera LA NASCITA DELLA TRAGEDIA, opera in cui Nietzsche utilizza categorie di tipo estetico e ricorre a due immagini di natura mitologica, DIONISIACO e APOLLINEO. In quest'opera non solo Nietzsche spiega la nascita della tragedia attica, a partire dallo spirito della musica, ma elabora anche una moderna concezione dell'arte e della cultura. Nel TRATTATO DI AUTOCRITICA del 1886, che costituiva la prefazione di una nuova edizione del libro, Nietzsche definisce quest'opera come problematica, stravagante e di difficile accesso; nel saggio autobiografico  ECCE HOMO sostiene che questo libro ha agito e affascinato proprio per ciò che aveva di sbagliato. Questa ambivalenza riflette bene la natura dei suoi rapporti con Wagner, dall'ammirazione giovanile per il compositore, di cui condivideva l'amore per il pensiero di Schopenhauer e il progetto di rinnovamento della cultura tedesca, al definitivo allontanamento. L'influenza wagneriana e schopenhaueriana si fa sentire sopratutto nel significato metafisico dell'arte e nella concezione del mondo come fenomeno esterno. In questa prospettiva l'arte e la musica sono esperienza che consentono di cogliere l'essenza della realtà: guardando alla realtà nella prospettiva dell'arte il filosofo riesce infatti a scorgere il mondo oltre il velo dell'apparenza. Nietzsche non era interessato a mostrare attraverso strumenti filologici la nascita della tragedia ma intendeva invece interrogarsi sul significato metafisico del reale, guardando la razionalità e la scienza nell'ottica dell'arte e l'arte nell'ottica della vita. In ECCE HOMO Nietzsche delinea il profondo antagonismo tra la tendenza dionisiaca dell'epoca tragica e il SOCRATISMO, la cui forza razionale reprime l'istintualità del dionisiaco. Alla visione concettuale della filosofia post-socratica Nietzsche oppone una filosofia tragica che traspone l'elemento dionisiaco in pathos filosofico o saggezza tragica.
Alla base della concezione niceana c'è il rifiuto della classicità ellenica.e dei suoi concetti di armonia, bellezza, equilibrio, proporzione e misura, che hanno valore secondo Nietzsche solo per l'arte del V secolo, per la scultura e l'architettura, ma non per l'intera grecità. L'analisi psicologica di Nietzsche porta a 4 domande: 

1) da  quale bisogno nascono l'arte e la ragione presso i Greci? 
2) qual è il rapporto dell'uomo greco con il dolore e con la sofferenza?
3) il pessimismo è un segno di forza o di debolezza e di decadimento?
4) l'avvento del razionalismo socratico - che ha portato alla fine della tragedia - è esso stesso un segno di decadimento?

23.2 - Lo sviluppo dell'arte, afferma Nietzsche, si deve alla coesistenza di due principi opposti, chiamati APOLLINEO e DIONISIACO. Si tratta dei due principi di natura mitologica - e non logica - che accoppiandosi danno vita alla TRAGEDIA ATTICA. Coerente con la sua prospettiva psicologica, Nietzsche li definisce IMPULSI e li paragona al SOGNO (l'apollineo) e all'EBBREZZA (il dionisiaco). Il rapporto tra queste due forze, paragonate da Nietzsche a quello tra i sessi finalizzato alla riproduzione, non conduce solo alla nascita della tragedia attica ma influenza lo sviluppo dell'intera civiltà. L'arte apollinea trova la sua maggiore espressione nella scultura: Apollo è il dio del sole e della luce, della chiarezza; l'arte apollinea esprime l'armonia delle forme, equilibrio e misura, perfezione. Apollo rappresenta la bella parvenza del sogno, la fiducia dell'uomo nel principium individuationis e quindi in ciò che appare al di qua del velo di Maya. Apollo dunque è il dio dell'illusione, la magnifica espressione della fiducia nelle apparenze, l'immagine dell'uomo che non sospetta che queste siano derivate dalla più profonda essenza del mondo, nascosta dal velo di Maya. Nell'origine della tragedia l'apollineo  non è un principio autonomo ma è intrinsecamente collegato al dionisiaco, anzi, in questa polarità è proprio il dionisiaco a svolgere il ruolo fondamentale, essendo l'artefice dello smascheramento della vera essenza, celata oltre il velo dell'illusione. Al contrario di Apollo, Dioniso è il dio dell'oscurità, dell'ebbrezza, della smisuratezza: egli simboleggia l'energia degli istinti, il rapimento estatico, il caos e l'eccesso. Il dionisiaco si esprime nella musica che genera stati passionali, in opposizione alla musica armonica e  misurata dell'apollineo. Il dionisiaco è la rottura del principium individuationis, la lacerazione del velo di Maya. Nietzsche si rifà qui a un celebre brano di Schopenhauer che descrive il sentimento di orrore dell'uomo che ha perso la fiducia nelle forme dell'apparenza, l'uomo che si rende conto che il principio di ragione non può essere applicato in tutte le configurazioni del reale: l'uomo abbandona la soggettività e si affaccia a un sentimento comunitario, rappresentato nel canto e nella danza. Egli si riconcilia con la natura, lasciando alla natura il ruolo di artista per diventare esso stesso un'opera d'arte, svelando la sua natura originaria. 
Questi due impulsi si incontrano nella tragedia di Eschilo e di Sofocle, in cui convivono il dionisiaco dell'ebbrezza (la musica e il coro) e l'apollineo del sogno (i dialoghi e il tessuto narrativo). L'elemento caratterizzante la tragedia, secondo una concezione già presente nella POETICA di Aristotele, è il CORO. Ma Nietzsche rompe gli schemi del classicismo e indica nel coro un elemento di voluto squilibrio, di mascheramento, di separazione tra la tragedia e la vita reale. A differenza di Aristotele che indicava la tragedia la vera arte imitativa,, Nietzsche la dipinge come la rappresentazione della parvenza e dell'illusione, ben rappresentate dal mascheramento del komos dionisiaco in figure innaturali (per esempio le maschere dei satiri): questo non significa che la tragedia rappresenta un mondo di fantasia, anzi, il mondo rappresentato sulla scena vuole essere credibile così come la teogonia degli dei dell'Olimpo. Il coro è l'eleemnto dionisiaco e comunitario che si oppone al momento soggettivo della recita dell'attore, quasi una barriera, che mostra il modo in cui la tragedia non si sente obbligata a imitare la vita e ne manifesta  per contro il lato gioioso, non più sofferente della mutevolezza dell'apparenza onirica. La tragedia non è quindi una forma di pessimismo, come aveva detto Schopenhauer, ma una manifestazione di forza vitale.

23.3 - La fine della tragedia coincide con un processo di decadenza che interessa tutta la storia delle civiltà occidentali. In questa fase alla visione tragica si sostituisce quella razionalistica, imponendo il primato dell'intelletto sul mondo e istituendo la conoscenza come valore supremo. La morte della tragedia, che nasce dal conflitto insanabile tra queste due visioni, è in realtà un suicidio, che viene operato da Euripide nell'espulsione dell'elemento dionisiaco: la tragedia perde così il suo aspetto mitico del racconto delle vicende dell'eroe e diventa una rappresentazione - non artistica - della vita quotidiana. Nietzsche attribuisce la responsabilità di questo suicidio alla filosofia socratica. Apollo e Dioniso sono sostituiti dal daimon, felicità e sapere si fondono nell'eudemonismo, la struttura razionale dell'universo soppianta il caos dionisiaco e l'uomo teoretico prende il posto dell'uomo tragico. L'influenza del razionalismo socratico si fa sentire anche nello stile e nella scrittura della tragedia euripidea, sopratutto nell'introduzione del prologo, elemento narrativo che anticipa ciò che succederà nel corso della rappresentazione, privando coaì la tragedia della tensione epica, dell'aspettativa, dell'incertezza. Per recuperare il pathos tragico Euripide è costretto a introdurre delle scene retorico-liriche, ma questo presente drammatico spezza l'equilibrio tra prologo ed epilogo, cassando la sintesi tragica della tragedia pre-euripidea. Epos e pathos vengono dunque separati così come si perde l'unione tra la musica e l'intreccio.
I limiti del socratismo emergono nella crisi della metafisica espressione delle filosofie di Kant e di Schopenhauer, consapevoli dell'irraggiungibilità della cosa in sé se non nella prospettiva di una conoscenza scientifica. Nietzsche vede nella musica di Wagner la possibilità di una RINASCITA DELLA TRAGEDIA in quanto l'opera wagneriana recupera la sintesi tragica riunificando gesto, musica e parola (forse anche a causa dall'abitudine di Wagner di scrivere i libretti dei propri drammi musicali).

NIETZSCHE - LEZIONE 24
La critica della cultura e la morte di Dio

24.1 - Il periodo successivo alla NASCITA DELLA TRAGEDIA è caratterizzato da una profonda anlisi critica della cultura e della storia, considerate dal filosofo "inattuali" poiché non coerenti col presente della civiltà occidentale, inattualità che investe anche la morale tanto da giungere a una auto-dissoluzione della stessa. Questo è il periodo dei due grandi divorzi culturali nel pensiero niceano, quello da Wagner e quello da Schopenhauer, e lo sviluppo delle due tematiche centrali del pensiero più maturo, la morte di Dio e l'eterno ritorno dell'uguale. Il vero obiettivo della concezione tragica niceana non era il progetto di una nuova società o una nuova cultura ma era il risveglio delle forze creative sopite e che avrebbero condotto l'uomo a realizzare un nuovo presente, diverso da quello attuale. Nietzsche non adotta uno stile espositivo sistematico ma preferisce le forme del saggio e sopratutto del pamphlet, rivolgendo una critica "contro il tempo" alla cultura e alla storia. Ancora legato a Schopenhauer, Nietzsche considera la conoscenza come strumento della volontà e interpreta i concetti di vero e falso non in senso morale ma puramente conoscitivo, quali determina89!8 dell'intelletto umano. Il linguaggio, fondato su metafore, assume un ruolo convenzionale: il suo sistema di metafore non può dunque essere il solo strumento per descrivere il mondo, poiché la metafora cristallizza e irrigidisce il vero aspetto del reale, legando immagini, suoni e parole a sensazioni nervose. Nietzsche passa dunque da una concezione tragica a una concezione PROSPETTIVISTICA, in cui la realtà altro non è che il frutto di un sistema di metafore legate a stimoli nervosi.
La critica alla cultura tedesca, allo "svergognato ottimismo filisteo", comincia dalla demolizione di uno dei miti del giovane Nietzsche, l'esponente della sinistra hegeliana David Friedrich STRAUSS, protagonista della prima delle CONSIDERAZIONI INATTUALI. Nella se onda delle INATTUALI Nietzsche rivolge la sua critica alla storia  - sopratutto allo storicismo hegeliano - e allo storiografismo tipico della cultura tedesca del secondo Ottocento: il senso storico di cui la cultura tedesca va fiera nel presente è in realtà se ondo Nietzsche una malattia, sintomo di una decadenza inesorabile, questa malattia è all'origine di due tendenze: un eccesso di consapevolezza storica, che ostruisce la formazione di nuova storia, e l'oggettivazione del sapere storico, che produce un eccesso di dati che l'individuo non è in grado di assimilare. Queste due tendenze provocano rispettivamente una distanza della storia dalla vita e una scissione tra esteriorità e interiorità, che si traduce nella mancanza di stile che è all'origine della decadenza. Rileggendo i versi di Leopardi, Nietzsche paragona a questo proposito uomo e animale, il primo schiacciato dal suo passato, il secondo invece libero poiché vive nel presente. Ma anche l'uomo può essere felice, "mettendosi a sedere sulla soglia dell'attimo": infatti la vita ha bisogno anche dell'oblio e dell'inconsapevolezza, di orizzonti e di prospettive. Ciò che è storico e ciò che non lo è sono entrambi di interesse per un individuo, per un popolo, per una civiltà. La malattia storica si combatte dunque recuperando il rapporto tra la storia e la vita. Esistono tre forme di sapere storico che includono tale rapporto:
la storia MONUMENTALE, che serve al vivente, in quanto attivo, per costruire il futuro;
la storia ANTIQUARIA, che serve al vivente in quanto preserva e venera, per conservare il passato;
la storia CRITICA, che serve alla vita in quanto soffre e ha bisogno di liberazione, e si traduce proprio nella critica al presente storico.
Queste forme non sono esenti da difetti, per esempio la storia monumentale può creare false analogie tra passato e presente, la storia antiquaria può degenerare nel collezionismo, la storia critica può addirittura sradicare il presente nel passato. Per questo è necessario che le tre forme siano in equilibrio che nessuna delle tre prevalga sulle altre.
Un ulteriore cura per la malattia della storia è il ricorso alle tre POTENZE SOVRASTORICHE, arte, filosofia e religione. Nietzsche usa l'aggettivo sovrstorico per riferirsi all'azione del genio creativo che supera le convenzioni sociali e culturali creando un proprio linguaggio: si tratta delle due figure che Nietzsche venera come maestri, Schopenhauer e Wagner, e a cui sono dedicate la terza e la quarta delle CONSIDERAZIONI INATTUALI.

24.2 - L'opera UMANO TROPPO UMANO sancisce il divorzio culturale da Wagner e l'abbandono della cosiddetta metafisica dell'artista in favore della scienza. Nietzsche opera un cambiamento di stile, adottando un linguaggio aforistico più asciutto, a tratti polemico, che sconfina quasi nel sarcasmo, e ridimensiona le speranze in una rinascita della cultura tragica, in precedenza affidate all'opera wagneriana. Questa fase del pensiero niceano viene anche chiamata ILLUMINISTICA: la scienza non viene interpretata infatti in un senso positivistico ma viene vista come una posizione privilegiata per operare l'esercizio del dubbio e la critica del presente storico. Occorre precisare però che questo atteggiamento, nonostante la dedica a Voltaire comparsa nella prima edizione dell'opera, si discosta dall'illuminismo vero e proprio per l'assenza di fede nel progresso e per la concezione non naturalistica della scienza. In questa fase l'atteggiamento niceano ni confronti della civiltà moderna si fa più problematico. Non solo la religione ma anche l'arte viene vista come un'illusione da smascherare, che indebolisce la moralità dell'artista e rende l'arte inadatta a svolgere il compito educativo dei secoli precedenti. Nietzsche individua tuttavia una continuità tra uomo estetico e uomo scientifico, sia perché l'arte, educando al piacere e al bello, svolge im ruolo preparatorio alla scoenza, sia perchè la scienza stessa, come l'arte, è costretta nei limiti delle forme della rappresentazione. Il vero merito della scienza, scrive Nietzsche, è quello di offrire una visione del mondo non più oggettiva dellmarte ma semplicemente libera dai pregiudizi metafisici a cui l'uomo ricorre per tollerare la propria caducità e debolezza: nasce così la figura dello SPIRITO LIBERO, che vive la verità senza illusioni, la vita come un esperimento, abbandonando quella concezione provvidenziale, metafisica, religiosa, da cui nasce l'umanità. Lo spirito libero non va confuso col lobero pensiero, espressione della scienza illuministica: Nietzsche adotta un METODO GENEALOGICO, fondato sul SOSPETTO, una forma di scetticismo, di diffidenza, di critica radicale, che mette in crisi anche le verità più solide, fino a pervenire a una rifondazione della morale.

24.3 - Nell'ultimo aforisma di UMANO TROPPO UMANO Nietzsche auspica l'avvento della cosiddetta FILOSOFIA DEL MATTINO, ossia l'atteggiamento critico di colui che, liberatosi del pregiudizi sedimentati nel passato, si sente un viandante rassicurato dalla mutevolezza e dalla transizione. In questa nuova concezione del filosofare, libera da ogni pregiudiziale metafisica, prende vita una nuova concezione dell'uomo e della vita che dalla dissoluzione della morale - in realtà una auto-dissoluzione che compare nell'opera AURORA - arriva alla MORTE DI DIO, che compare nell'afprisma 125 della GAIA SCIENZA. A dare l'annuncio della morte di Dio è un personaggio fittizio, l'uomo folle, che si autoaccusa, insieme all'umanità, di averlo ucciso. Non è questa una dichiarazione di ateismo, non è il rifiuto dell'esistenza di Dio, ma un evento, spiega Nietzschem che segna la storia moderna dell'umanità, accompagnando alla scomparsa di un Dio trascendentale la scomparsa di quei valori uktraterreni su cui il mondo è stato fondato. La svalorizzazione di questo ideale supremo conduce Nietzsche ad affermare che l'umanità è circondata dal nulla, arrivando quindi a una soluzione NICHILISTA, a causa della mancanza del fondamento su cui era costruita la civiltà occidentale. L'abbandono del valore supremo dell'esistenza di Dio rende l'uomo disorientato, poiché vengono meno i valori fondamentali, bene e male, giustizia e ingiustizia, fino a rendere l'umanità incapace di trovare dei punti di riferimento.

NIETZSCHE - LEZIONE  25
Lo Zarathustra e la volontà di potenza

25.1 - Solo nella fase più matura del suo pensiero, segnata dall'opera COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA, Nietzsche , dopo aver preso in considerazione i temi dell'eterno ritorno, della morte di Dio e del superuomo, giunge all'estremo tentativo di un'opera sistematica che si sarebbe dovuta chiamare LA VOLONTÀ DI POTENZA, che corona il programma della trasvalutazione dei valori. Quella di cui Nietzsche si fa profeta e annunciatore è una nuova dimensione dell'umanità. In questa fase del suo pensiero Nietzsche adotta uno stile molto particolare, che si potrebbe identificare come un poema in prosa, con una scrittura che richiama i versetti del znuovo Testamento. I temi che caratterizzano questa fase si muovono sullo sfondo del NICHILISMO, di cui il filosofo distingue due forme, un nichilismo PASSIVO e uno ATTIVO. Il primo è l'atteggiamento di chi, di fronte alla crisi dei valori, si lascia andare al dolore e al risentimento, il secondo è l'atteggiamento di chi invece, di fronte a questa crisi, contribuisce alla distruzione dei valori oramai inutilizzabili predisponendo la nascita di una nuova umanità. Questa fase del percorso del pensiero niceano è detta filosofia del meriggio, poichè l'insegnamento di Zarathustra - alter ego dello stesso Nietzsche - inizia a mezzogiorno, l'ora senza ombra. È l'ora della grande decisione del superuomo, ma anche l'ora della dissoluzione della soggettività, simboleggiata dalla circolarità dinamica del mezzogiorno a cui tutto torna.

25.2 - Nella prima parte di COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA compare la digura del SUPERUOMO, espressione dello spirito libero niceano. Il superuomo è colui che dice sì alla vita, colui che accetta la vita nei suoi aspetti positivi e negativi, e ne auspica l'eterno ritorno. In tal senso egli esprime un atteggiamento tragico e dionisiaco nei confronti della vita. Il superuomo deve sopportare la morte di Dio, la perdita di tutti i valori trascendentali e del rifugio della metafisica, consapevole dell'aspetto positivo di una rinascita dell'umanità finalmente libera di creare sé stessa e i propri valori. Il superuomo nasce proprio dalla negazione e dal superamento dell'uomo come si è formato nella civiltà occidentale e che deve elevarsi al di sopra di sé stesso. Questo auto-superamento è una transizione che Nietzsche rende con l'immagine di un ponte, di un cavo teso tra la bestia e il superuomo, si tratta di un'immagine purtroppo fraintesa dagli ideologi nazionalisti e nazisti, che videro nel superuomo l'evoluzione della civiltà in una razza pura. A tal proposito il filosofo italiano Gianni Vattimo aveva proprosto la definizione di OLTREUOMO a indicare proprio una "ulteriorità" e un distacco, una rottura radicale piuttosto che una evoluzione. Il superuomo, annunciato da Nietzsche come una speranza di ricomposizione della realtà frammentata, trova il suo complemento nell'ULTIMO UOMO, espressione del nichilismo passivo, privo di slancio creativo. Nietzsche lo definisce spregevole, a causa del disprezzo che egli prova per la vita e per sé stesso, e per la sua incapacità di scagliare la freccia oltre l'uomo, in quanto assente ogni forza decisionale. A differenza dell'ultimo uomo il superuomo è per Nietzsche l'uomo del grande amore e del grande disprezzo, colui che vive secondo la legge dell'eterno ritorno: colui che porterà l'umanità fuori dalla condizione del nichilismo.

25.3 - Esposta per la prima volta nell'aforisma 341 della  GAIA SCIENZA e poi sviluppata nella terza parte dello ZARATHUSTRA, la concezione dell'eterno  ritorno è considerata da Nietzsche una formula suprema, e non a caso è nel suo orizzonte che si possono comprndere le altre due dottrine importanti del pensiero niceano, quella del superuomo e quella della volontà di potenza. Essa rappresenta una concezione circolare e non finalistica del tempo, che si discosta volutamente dalla concezione lineare e provvidenziale della tradizione ebraico-cristiana, ivi comprese le forme scolarizzate di matrice positivista e storicista. Nella concezione dell'eterno ritorno il tempo e il divenire non hanno un fine o uno scopo ma si basano sulla ripetizione, come nella tradizione filosofica presocratica e orientale. Ogni evento non è un momento unico inserito in una linea immaginaria che dal passato porta al futuro e viceversa ma è un momento destinato a ripetersi eternamente, e che trova in sé stesso il proprio senso. Il presupposto di questa dottrina è la caduta del velo che separa mondo vero e mondo apparente apparente, divisi per secoli, la cui riconciliazione inizia dalla morte di Dio e dal processo di liberazione dalla metafisica e da ogni dottrina trascendnetale. La scomparsa dei due mondi, caratteristici della metafisica cristiano-platonica, obbliga a guardare ad una sola realtà terrena assegnandole il giusto valore, e questo è il solo modo di abbandonare il nichilismo.la rinuncia a questo inutile sdoppiamento permette anche di capire il vero significato della legge dell'etrno ritorno: infatti è logico supporre che solo chi è versmente felice possa desiderare la ripetizione degli eventi. Ma questo accade poiché si fa riferimento a una concezione della temporalità tradizionalmente diacronica e lineare, che presuppone una funzione consolatoria per l'infelicità. La piena felicità si realizza invece in una temporalità non lineare, laddove il significato di un singolo evento vale di per sé stesso e non dipende da ciò che viene prima o dopo. La decisione del superuomo di vivere l'eterno ritorno dell'uguale è una scelta di volontà che si attua nell'attimo del presente, cancellando ogni dipendenza dal destino e dalla causalità e trasformando il presente in un attimo immenso. Così il ritorno del passato e l'AMOR FATI non sono più visti in chiave provvidenzialista e fatalista ma come risultato della VOLONTÀ DI POTENZA, vera forza creatrice in grado di eternare il tempo e di imprimerr al divenire il carattere dell'essere.

25.4 - Solo dove è vita è volontà, scrive Nietzsche, ma non volontà di vita bensì volontà di potenza. Il tema della VOLONTÀ DI POTENZA (Wille zur Mach in tedesco) compare nella seconda parte dello ZARATHUSTRA ma è centrale nelle opere dell'ultimo Nietzsche, presente anche in molti scritti rimasti solo frammenti. Si tratta di una forza vitale, di un principio di auto-conservazione che tende ad accrescere se stessa, come già aveva detto Schopenhauer, e secondo Nietzsche, anche Darwin. È la volontà creatrice del superuomo che ha abbandonato i valori del passato come la metafisica per crearne di nuovi: è questa la cosiddetta MORALE DEI SIGNORI, contrapposta alla MORALE DEGLI SCHIAVI, ossia la prospettiva che da Socrate in poi, passando per il Cristianesimo, ha soffocato il genio creativo dell'umanità impedendo di creare nuova storia, nuovi valori, nuova cultura. Puntando il dito contro quella civiltà occidentale ormai in decadenza, Nietzsche affida alla volontà di potenza il compito di creare, allontanando l'uomo dalle ideologie da gregge delle dottrine socialiste ed egualitariste del suo tempo, e dalle interpretazioni che vengono affermate in luogo dei fatti, in una visione PROSPETTIVISTICA che metteva fuori gioco la concezione ingenuamente oggettivista del sapere e della vita.

FREUD - LEZIONE 30
Freud e la psicoanalisi

30.1 - La psicoanalisi nasce nel 1899 con l'opera L'INTERPRETAZIONE DEI SOGNI, che Sigmund Freud significativamente voleva fosse pubblicata nel 1900. La psicoanalisi costituiva una verrà novità, imponendosi non solo come una TERAPIA perla cura delle nevrosi e in genere delle psicopatologie, ma anche una TEORIA GENERALE per la ricostruzione della struttura e dei processi del sistema psichico e un METODO per lo studio dei fenomeni socio-culturali come arte, morale e religione. Concetto centrale della teoria psicoanalitica è l'INCONSCIO. L'importanza data all'inconscio muta in modo radicale la concezione della dimensione umana, portando la disciplina oltre il suo aspetto clinico e arrivando quindi ad assumere implicazioni di carattere filosofico e culturale. Accanto alla dimensione cosciente di ogni persona ne esiste una nascosta, fatta di desideri, passioni, sentimenti, che influenza quella visibile e consapevole: Freud deduce che la personalità è il prodotto di diverse istanze che in buona parte sfuggono alla volontà del soggetto. Si tratta di una prospettiva rivoluzionaria, dato che il tema della coscienza del singolo era stato centrale per tutti i filosofi moderni - da Descartes fino a Hegel - e che adesso diventava secondario rispetto all'inconscio. Va anche precisato però che Freud non fu il primo a "scoprire" l'inconscio tema già presente nelle filosofie di Leibnitz, per esempio, di Schopenhauer e di Nietzsche. L'originalità di Freud consiste nell'aver scoperto, grazie alla sua attività di psicoterapeuta, un metodo per accedere all'inconscio, introducendo una serie di innovazioni della prassi terapeutica. Freud pone il paziente come protagonista del suo percorso di guarigione, svolto attraverso la PAROLA, attraverso una corrente affettiva tra analista e paziente e attraverso quegli aspetti (in apparenza) marginali della vita psichica tra i quali il SOGNO rappresenta il vero cancello d'ingresso alla dimensione inconscia dell'individuo.

30.2 - La psicoanalisi nasce innanzitutto come terapia per la cura dell'isteria, un disturbo tipicamente femminile molto studiato alla fine del XIX secolo e che causava sintomi all'apparenza inspiegabili come la cecità, la paralisi, l'afasia. La medicina di stampo positivista riconduceva la eziologia delle isterie a processi patologici cerebrali. Freud aveva trascorso un periodo presso la Salpetrière di Parigi, dove Charcot utilizzava il metodo dell'ipnosi per curare il disturbo: in questa occasione Freud osservò quanto i gesti e le parole del medico avessero influenza sullo stato delle pazienti, facendo regredire i sintomi più gravi, intuendo così che all'origine dell'isteria non fossero dei processi di natura psicopatologica. Tornato a Vienna Freud inizia ad applicare il metodo dell'ipnosi, con la collaborazione di Josef BREUER, utilizzandolo non solo per inibire i sintomi, ma anche per scoprire le cause che li determinavano. Già nel corso della sua esperienza clinica - ma in particolare nel caso della paziente Anna O. - Breuer aveva ipotizzato che i sintomi presentati dalle pazienti isteriche fossero il risultato di energie psichiche non catalizzate e utilizzate proprio per la produzione dei sintomi stessi. Breuer e Freud elaborarono così il METODO CATARTICO, che consisteva proprio nello scaricamento di queste energie mediante l'ipnosi e la verbalizzazione (per questo motivo la stessa Anna O. definiva questa procedura talking care). Freud - a differenza di Breuer che era più ancorato alla psichiatria tradizionale - intuiva nel legame medico-paziente la vera svolta nel processo di guarigione. Questo legame, interpretato da Freud quasi come un trasporto sessuale, venne codificato in due espressioni, il TRANSFERT, cioè i sentimenti della paziente nei confronti del medico, e il CONTROTRANSFERT, ossia la risposta affettiva del medico. Il caso Anna O. consente a Freud di mostrare l'esistenza di un collegamento tra il sintomo e la storia personale di un paziente. Il sintomo è infatti il sostituto di un evento traumatico, rimosso dal paziente e spostato nell'inconscio. Dunque la guarigione non si ottiene semplicemente con l'inibizione del sintomo, ma con l'esposizione del trauma rimosso perché il paziente lo riconosca e ne divenga consapevole. Freud abbandona l'ipnosi per utilizzare il metodo delle LIBERE ASSOCIAZIONI, che consiste nella verbalizzazione spontanea del paziente, sdraiato su un lettino perché sia rilassato, attraverso ricordi, immagini, fantasie, volte a portare allo scoperto il problema. Un serio ostacolo a questa prassi terapeutica era però il meccanismo della RESISTENZA, collegato alla rimozione stessa del ricordo sgradevole, ossia la tendenza del paziente a razionalizzare gli eventi, filtrando gli aspetti ritenuti inaccettabili dal soggetto: il compito del terapeuta diventa dunque quello di capire il collegamento tra la resistenza e gli elementi rimossi allo scopo di riportare alla coscienza gli eventi traumatici responsabili del sintomo. Freud elabora dapprima una teoria sull'origine delle nevrosi basata su ricordi di seduzione sessuale in età infantile, mentre successivamente, ricollegando questi ricordi a fantasie  - e non a eventi reali - raccontate dai pazienti, perviene alla sua teoria dell'interpretazione dei sogni.

30.3 - Il sogno è, secondo la definizione data da Freud, l'appagamento (mascherato) di un desiderio (represso) rimosso. Il sogno non è qualcosa di irrazionale, ma ha una sua logica, ovviamente diversa da quella che governa i comportamenti nello stato di veglia. Mentre la psicologia positivista del tempo considerava il sogno il risultato dell'attività della corteccia cerebrale, Freud ne indaga l'origine psichica. Infatti il sogno per Freud svela e allo stesso tempo maschera la vita psichica profonda del soggetto. I desideri e i pensieri inconsci, censurati dal soggetto, si manifestano indirettamente attraverso le determinazioni provocate da questo meccanismo:  quella del sogno è un'attività simbolica, poiché i suoi contenuti sono rappresentati attraverso simboli. Freud distingue il contenuto dei sogni in due definizioni: il CONTENUTO ONIRICO MANIFESTO, cioè quello che effettivamente ci ricordiamo del sogno, e il CONTENUTO ONIRICO LATENTE, che rappresenta il vero significato del sogno: poiché il contenuto latente costituisce il vero significato del sogno, è necessario procedere a una interpretazione del sogno stesso per svelare quei desideri, mascherati da simboli, che la coscienza nasconde per poter essere accettabili.

30.4 - Nel corso di queste indagini Freud constata che i sogni spesso esprimono desideri sessuali risalenti all'infanzia del soggetto. La teoria  freudiana dello sviluppo psicosessuale non mancò di destare scandalo negli ambienti scientifici e culturali dell'epoca. Freud propone un concetto di sessualità molto ampio, che abbraccia l'intero spettro dei comportamenti infantili, associando a certe zone del corpo un potenziale erogeno: la pulsione non è circoscritta infatti alla sola area genitale, ma interessa anche meccanismi quali la suzione del seno materno o l'evacuazione delle feci. Il bambino è definito provocatoriamente da Freud un ESSERE PERVERSO POLIMORFO e si  individuano cinque fasi dello sviluppo psicosessuale:

1. FASE ORALE: corrisponde al primo anno di vita del bambino, e in essa la capacità di provare piacere si localizza nella bocca, allo scopo di stimolare la nutrizione.
2. FASE ANALE: la ricerca del piacere si sposta alla zona dell'ano e alle funzioni di evacuazione, allo scopo di esercitare il controllo sfinterico.
3. FASE FALLICA: è caratterizzata dall'interesse del bambino per la zona genitale.
4. PERIODO DI LATENZA: va dai sei anni alla pubertà e si caratterizza per la scomparsa, almeno apparente, delle pulsioni sessuali.
5. SESSUALITÀ GENITALE: corrisponde alla sessualità dell'età adulta.

Nel corso della fase fallica si sviluppa quella tendenza che Freud chiama COMPLESSO DI EDIPO, ossia il sentimento di attrazione del bambino per il genitore di sesso opposto e il conseguente rifiuto del genitore dello stesso sesso. Il mancato superamento di tale conflitto viene posto da Freud all'origine delle nevrosi.

30.5 - Per spiegare la funzione dei fenomeni psichici e il modo in cui essi influenzano la vita dell'individuo, Freud elabora una serie di sistemi, ascrivibili a dei precisi luoghi psichici posti fra di loro in rapporti strutturali e dinamici. Questa geografia del fenomeno psichico è riassunta in due TOPICHE: la prima raggruppa i tre sistemi di inconscio, preconscio e conscio, la seconda raggruppa le tre istanze di Es, Io e Super Io.
Il presupposto della prima topica è il grado di consapevolezza dei contenuti e dei processi psicologici. L'INCONSCIO è l'insieme dei rappresentanti pulsionali, ossia delle rappresentazioni connesse alle pulsioni primordiali, sessuali e aggresive, che non possono accedere al preconscio e al conscio, istinti e desideri che si realizzano indipendentemente dal PRINCIPIO DI REALTÀ. Si tratta di immagini, che seguono la logica di quello che Freud chiama PROCESSO PRIMARIO (tutto ciò che ha a che fare con gli istinti). Il PRECONSCIO è il sistema psichico che contiene quei processi non ancora consapevoli, ma che possono diventarlo. Le rappresentazioni di cui esso è composto sono parole e seguono la logica del PROCESSO SECONDARIO (tutto ciò che ha a che fare con la vita sociale e di relazione). I processi e i ricordi che fanno parte del preconscio possono essere portati alla coscienza grazie allo sforzo dell'attenzione. Il CONSCIO o SISTEMA PERCEZIONE-COSCIENZA è infine il sistema psichico legato alle percezioni e quindi è quello di cui il soggetto è consapevole, legato sia al mondo esterno, sia a quello interno. Poiché comprende anche i ricordi, è strettamente legato al preconscio. Nel corso delle sue indagini Freud si rende conto dei limiti di questa prima topica, soprattutto egli trova riduttivo l'identificazione dell'Io con la coscienza e dell'inconscio con i contenuti rimossi, così tenta di dare una nuova definizione dell'apparato psichico formulando le tre istanze, comprese nella seconda topica, che sono alla base della personalità e che si formano fin dall'infanzia.
L'ES si riferisce a quei contenuti inconsci, pulsioni e desideri, presenti fin dalla nascita o in parte sedimentati dalla rimozione. Esso non conosce spazio e tempo, bene e male, e agisce in base al PRINCIPIO DI PIACERE. L'IO è la parte strutturata e organizzata della personalità, che emerge e si sviluppa attraverso l'identificazione con le figure parentali. Esso è in parte conscio e in parte inconscio poiché di esso fanno parte i MECCANISMI DI DIFESA che aiutano l'Io a sopportare l'impatto della forza pulsionale dell'Es  con le istanze della realtà e col controllo del Super Io. A differenza dell'Es esso opera in base al PRINCIPIO DI REALTÀ, indirizzando i desideri e gli istinti verso mete sociali. Il SUPER IO rappresenta la coscienza morale e nasce dall'interiorizzazione delle norme e dei divieti imposti dai genitori, nel corso della fase edipica. Esso nasce dall'identificazione con i genitori non solo in quanto soggetti reali ma anche come rappresentanti delle leggi e delle consuetudini che sono alla base della vita civile. Questa opposizione tra le pulsioni e la legge, tra i desideri e gli istinti e la vita civile, è radicalizzata da Freud nel concetto di PULSIONE DI MORTE che si distingue dalle pulsioni sessuali e dall'istinto di autoconservazione. Freud osserva che la civiltà è accompagnata da un profondo senso di disagio. Alla pulsione di vita, EROS, forza aggregante e positiva alla base dell'evoluzione della civiltà, si oppone THANATOS, forza distruttiva e disgregatrice, che può essere rivolta verso gli altri o verso se stessi. In questo senso le pulsioni sessuali e aggressive sono legate da una tensione verso la morte che appartiene costruttivamente alla vita psichica.

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Volume 3 - Tomo 3B
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3B - U7
Husserl

HUSSERL - LEZIONE 38
Origini e metodo della fenomenologia

38.1 - La fenomenologia è il primo vero indirizzo filosofico del Novecento e nasce con le RICERCHE LOGICHE di Husserl, un’opera che, per la sua complessità e importanza, è stata paragonata alla Critica della Ragion Pura di Kant. Obiettivo primario del programma husserliano è l’elaborazione di un metodo che permetta di “vedere le essenze”, ossia di accedere mediante l’esperienza alle strutture che rivelano sia il senso dei fenomeni sia il loro rapporto con la coscienza: il fenomeno, per essere colto dalla fenomenologia, deve essere studiato nelle sue variazioni e nascondimenti. 
Fenomenologia non è una parola nuova. Fu coniata da Lambert nel 1768 e fu usata da Hegel per intitolare una delle sue opere fondamentali, La fenomenologia dello spirito. Nuovo è invece il contesto in cui la parola viene usata, a indicare una rottura con la filosofia del secolo precedente, incapace di elaborare modelli di pensiero adeguati alle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche. Il movimento fenomenologico assume due tratti identificativi: la specificità del suo legame col fondatore Husserl, e l’universalità del suo metodo di indagine, che esce dal contesto teoretico per raggiungere quasi tutti i campi delle scienze, umane e biologiche. Se da un lato si coglie il carattere innovativo che contraddistingue la fenomenologia dagli altri indirizzi filosofici del XX secolo, dall’altro si deve constatare una struttura autocratica, dovuta alla dipendenza delle teorie fenomenologiche dai soli scritti di Husserl, poco propenso a un loro sviluppo o ad una revisione: molto probabilmente questo aspetto si deve proprio al carattere innovativo della fenomenologia, che di fatto riscrive la grammatica filosofica del Novecento. Infatti, per capire la fenomenologia, occorre assumere una prospettiva basata su un senso comune individualizzato e purificato rispetto alle visioni precedenti del mondo che lo stesso Husserl critica. Se prescindiamo dlalla realtà culturale in cui siamo immersi, non abbiamo percezioni, rappresentazioni, pensieri, giudizi di oggetti che immaginiamo, desideriamo, incontriamo, ma facciamo esperienza di determinati aspetti della realtà che successivamente vengono isolati, nessi in evidenza e dotati di significato, oppure oscurati, lasciati cadere e cancellati. Questo significa che l’esperienza autentica non si trova davanti delle “cose” già costituite o atti della coscienza come pensieri o percezioni oggettive, ma si articola in OPERAZIONI che RIVELANO la PRESENZA di CONTENUTI in cui interviene, in un secondo momento la CONCETTUALIZZAZIONE che li QUALIFICA in base a un SENSO (che può essere oggettivo o soggettivo, trascendente o immanente) e li ESPRIME attraverso un GIUDIZIO (che può essere predicativo, linguistico o discorsivo). L’esperienza autentica “pura”, mondata da ogni contaminazione culturale, è ATTIVA (agisce, costituisce e opera), MANIFESTATIVA (rivela i fenomeni) e ANTEPREDICATIVA poiché precede ogni razionalizzazione discorsiva (concetti, giudizi e ragionamenti). Il tentativo di cogliere il carattere “puro” dell’esperienza fa della fenomenologia un EMPIRISMO RADICALE, assai più forte dell’empirismo classico poiché prescinde da ogni teorizzazione simbolica dell’accadimento reale di ciò che viene concretamente vissuto. In pratica noi facciamo esperienza di ATTI che si manifestano in PROFILI e STRUTTURE (nel nostro caso di carattere sensoriale), costituiti in base a CONTENUTI ASSOCIATIVI  e CATEGORIALI   (colore, forma, relazione tra le parti) che tendono a OGGETTIVARSI secondo determinate SPECIE. Si deve notare che: 
l’accadimento reale di un vissuto non possiede solo un contenuto realistico e contingente ma anche uno irreale, atemporale ed essenziale; 
non tutto può essere reificato, ossia oggettivato, dipende dall’intenzionalità, ossia dalla direzione della stessa esperienza (si può infatti “intenzionare” un’esperienza in modo non oggettivo rivivendola o empatizzando il vissuto di un’altra persona).
Gli elementi che qualificano l’atteggiamento fenomenologico dunque sono:

l’ATTO OPERATIVO che fa nascere l’intenzionalità;
il CONTENUTO che manifesta e traduce il senso del fenomeno;
la STRUTTURA ANTEPREDICATIVA della PRESENZA di un CONTENUTO immediatamente colto attraverso l’INTUIZIONE;
l’ELABORAZIONE CONCETTUALE che rende esplicita in termini linguistici e predicativi un’ESPERIENZA VISSUTA mediante la RAZIONALIZZAZIONE.

Adesso Husserl deve spiegare: a) in che modo certi aspetti di un’esperienza hanno maggiore rilievo rispetto ad altri; b) come si costituisce il significato di un’esperienza mondata di qualsiasi assunzione teorica; c) che senso o fine ha un sistema fenomenologico così costituito. Occorre dunque per prima cosa chiarire le fonti speculative della fenomenologia.

38.2 - La fenomenologia è, come si è visto, la risposta della filosofia del XX secolo alla crisi del pensiero dogmatico tradizionale, laddove il dogma si intende come l’assunzione unilaterale di un principio esplicativo che riduce a sé ogni spiegazione del reale: è ad esempio il caso dell’empirismo classico che assume i dati dell’esperienza sensibile, associati tra loro, come possibile spiegazione della realtà fenomenica. L’antidogmatismo fenomenologico ha  perciò un carattere critico e antiriduzionista. Pertanto le fonti speculative della fenomenologia vanno ricercate in quelle correnti di pensiero caratterizzate da ciò che Husserl definiva assenza di presupposti. Esse sono:
l’EMPIRISMO di Hume, di cui Husserl coglie sopratutto l’aspetto scettico, descrittivo e antimetafisico, e di cui apprezza la critica alla causalità, uno dei pregiudizi più diffusi della metafisica, ma di cui non condivide l’atteggiamento elementarizzante che tende a ridurre il reale alla somma delle sue parti;

il TRASCENDENTALISMO di Kant e del Neokantismo ottocentesco, il cui metodo critico, volto a ricercare le condizioni di possibilità dell’esperienza, consente un’efficace opposizione al dogmatismo e riabilita quella teoria della conoscenza in grado di distinguere tra l’aspetto psicologico e quello logico-obiettivo del pensiero;

la PSICOLOGIA RIFLESSIVA e AUTO-OSSERVATIVA di alcuni esponenti del realismo post-kantiano che, rispetto alla psicologia sperimentale (che trae la regola dal cumulo dei dati) si affida all’intuizione, anche singolare, degli elementi universali e necessari dell’esperienza, e che Husserl utilizza per l’intuizione dell’essenza;

la PSICOLOGIA DESCRITTIVA o PSICOGNOSIA di Brentano a cui Husserl deve la distinzione tra fenomeni fisici e fenomeni psichici, distinzione che si fonda sul concetto di origine medievale di intenzionalità della coscienza, secondo cui una coscienza è sempre coscienza di qualcosa; inoltre bisogna citare anche due allievi di Brentano, Stumpf e Meimong, da cui Husserl trae i concetti di fusione delle parti di un sistema percettivo e di oggettività di ordine superiore, grazie a cui tali parti si organizzano;

il LOGICISMO di Bolzano e Frege, da cui Husserl deriva gli elementi chiave della sua critica definitiva allo psicologismo, imperante nelle epistemologie ottocentesche, e precisamente:
1) Bolzano, attraverso le nozioni analitiche di proposizione in sé e di verità in sé, ottenute dalla netta separazione tra il procedimento di fatto, con cui si giunge a un giudizio, e il significato logico intrinseco di ciò che il giudizio esprime; 
2) Frege, attraverso la riconduzione di tutti i concetti a funzioni logiche che si possono ridurre a espressioni e relazioni simboliche. La nozione di funzione servirà a Husserl per criticare ogni sostanzialismo e per introdurre il concetto di variazione rispetto a un dato nucleo intuitivo, che permette di individuare l’ambito di un elemento intuito attraverso una serie di funzioni matematiche;

la PSICOLOGIA DELLA FORMA o GESTALT (presentata per la prima volta da von Herenfels, allievo di Meimong), che fornisce a Husserl il concetto di sintesi configurata degli elementi in un insieme, irriducibile alla semplice somma degli elementi che lo compongono, ascrivibile al concetto aristotelico di totalità organica, utile a spiegare quei fenomeni complessi che non si possono studiare col metodo del naturalismo tradizionale, come per esempio l’ascolto di una melodia.

38.3 - Il metodo di cui si avvale Husserl per la sua critica dell’esperienza pura è un metodo rigoroso, sviluppato in diversi momenti come quello strutturato secoli prima da Descartes. Il metodo fenomenologico di Husserl è sorretto da due atteggiamenti (la mancanza di presupposti e la descrizione) e da due criteri soggettivi (l’intuizione e l’evidenza) che, come dice Husserl, ci portano ALLE COSE STESSE. Eccone le fasi principali:

LA PSICOLOGIA FENOMENOLOGICA E L’INTUIZIONE D’ESSENZA
Filosofia dell’aritmetica (1891)
Ricerche logiche (1900-1901)
Secondo Husserl la principale via di rinnovamento filosofico passa attraverso il superamento del conflitto tra logica e psicologia: la prima che porta a un vuoto formalismo, la seconda incapace di spiegare realmente la conoscenza senza ridurla a fatti della coscienza. Questo aspetto deriva dalla differenza dei due ambiti: infatti un conto è arrivare alle conclusioni per effetto di leggi fisiche (meccaniche, elettriche, fisiologiche o psichiche), un altro è arrivare a conclusioni in virtù di leggi logiche, col solo criterio della verità del risultato. Nella prima fase del suo pensiero Husserl cerca di superare questo conflitto attraverso l’INTUIZIONE D’ESSENZA o EIDETICA, dove intuizione significa cogliere nell’oggetto strutture invarianti di carattere logico, indipendenti dall’atto psicologico di conoscenza, che Husserl chiama strutture NOETICHE per distinguerle dalle condizioni empiriche o FATTUALI degli atti stessi. Ciò significa che a) esiste una correlazione tra strutture noetiche e strutture logico-obiettive degli atti che le intenzionano e che b) questa correlazione è sostenuta dall’intuizione, che ci offre l’aspetto essenziale dell’esperienza. 
Questa prima tappa del metodo husserliano rimette in discussione i due metodi induttivo e deduttivo tipici della logica formale, a causa della necessità di determinare un punto di partenza per isolare una classe di individui, e restituisce uno spessore oggettivo e materiale all’apriori.  

L’EPOCHE’ E LA RIDUZIONE EIDETICA
Idee per una fenomenologia pura (1913)
La psicologia, seppur orientata in senso descrittivo e fenomenologico, resta pur sempre una scienza di fatti naturali, ordinati dal tempo e condizionati dalla contingenza, in cui non è possibile cogliere una vera universalità. Una siffatta psicologia non si concilierebbe con la logica: è pertanto necessario procedere al primo momento della riduzione fenomenologica che Husserl chiama RIDUZIONE DELL’ESSENZA o RIDUZIONE EIDETICA, consistente prima di tutto nella sospensione di ogni presupposto o credenza (eèpchè) e quindi nella determinazione del residuo fenomenico (eidos), ovvero la parte essenziale, stabile e immodificabile di una cosa, dopo che si è sottoposto a variazione il suo concetto fino a snaturarne il contenuto: è infatti la modifica del residuato essenziale che trasforma una cosa in un’altra cosa. Questa riduzione o sospensione implica: a) una purificazione dell’essenza oggettiva o NOEMA da ogni contaminazione mondana; b) una purificazione della coscienza, i cui atti non sono più espressioni di un soggetto empirico ma determinazioni universali del vissuto definite da Husserl come NOESI. Nel rapporto noetico-noematico (il rapporto tra l’atto e l’oggettività essenziale) le cose non si mostrano come esterne ma si rivelano in noi come fenomeni o strutture ideali: se noi vediamo un albero bruciare, osserva infatti Husserl, l’albero che viene percepito non può bruciare. Questo aspetto è alla base dell’IDEALISMO FENOMENOLOGICO, che si riferisce ai significati essenziali dell’esperienza, rivelando la fenomenologia come scienza dei fenomeni e al tempo stesso scienza delle essenze.

LA RIDUZIONE TRASCENDENTALE
Logica formale e trascendentale (1929)
Meditazioni cartesiane (1931)
Già a partire dalle IDEE PER UNA FENOMENOLOGIA PURA Husserl si rende conto che l’intuizione e la riduzione eidetica non sono sufficienti a cogliere le strutture dell’esperienza. Infatti le strutture dell’esperienza benché ridotte al loro puro significato, a partire dai contenuti noematici (oggettivi e ideali), si rivelano sempre legate alle condizioni storiche e culturali da cui sono tratte: questo comporta il rischio di considerare certi modelli umani validi universalmente. Per ovviare a questo problema Husserl procede al secondo momento della riduzione fenomenologica, chiamato riduzione trascendentale e sviluppato sistematicamente da Husserl fin dagli anni Venti. Si tratta di una critica vera e propria dell’essenza allo scopo di sospenderne la validità. Ciò non implica la rinuncia al requisito della oggettività ideale attraverso cui si presentano i significati dell’esperienza, anzi comporta un’espansione della libera variazione dell’essenza, costretta nei limiti delle condizioni contingenti entro le quali viene determinata. Così pur essendo sempre l’oggetto a dettare le forme della sua conoscibilità, si afferma la primalità della struttura noetica, ossia della coscienza soggettiva, tale da consentire un’analisi genetica dell’esperienza. Pertanto non è più la sola essenza a determinare il senso della possibilità dell’esperienza ma sono anche i fenomeni soggettivi (la percezione, il ricordo, la fantasia, la pura pensabilità) a decidere ciò che l’essenza è nella sua piena universalità.

HUSSERL - LEZIONE 39
Coscienza pura, mondo della vita e crisi delle scienze

39.1 - Poiché il tentativo husserliano di eliminare ogni limite psicologico dell’esperienza, mettendo in rilievo la cosiddetta coscienza pura, ossia il lato soggettivo della costituzione dei significati, rischia di degenerare in un nuovo idealismo, Husserl utilizza a questo punto il concetto di CORRELAZIONE INTENZIONALE tra soggetto e oggetto, allo scopo di evitare sia una forma di IDEALISMO SOGGETTIVO come in Berkeley (l’essere oggettivo si risolve nell’essere percepito), sia una forma di IDEALISMO TRASCENDENTALE come quello di Kant, in cui il fenomeno era la manifestazione di una inconoscibile e oscura cosa in sé. Il fenomeno è infatti per Husserl il darsi  della cosa stessa. A differenza dell’idealismo kantiano, che ha carattere regressivo poiché parte dai fatti per ricercare le condizioni della possibilità, quello husserliano, o fenomenologico, ha carattere progressivo, perché è genetico e costitutivo. Esso supera la contrapposizione tra la ricettività del dato empirico e l’attività spontanea dell’intelletto attraverso la categoria: nella forma estetica dell’esperienza è già incluso un momento noetico-sintetico e viceversa ogni forma noetico-intellettuale rimanda a un momento estetico-materiale. Si tratta della cosiddetta genesi o SINTESI PASSIVA, condensata da Husserl nel concetto di SCHEMATISMO FENOMENOLOGICO. La sintesi passiva ci spiega come si formano gli schemi tipici dell’apprensione. Essa è intenzionale, poiché sintesi, ma è anche dipendente dalle essenze colte intuitivamente nell’esperienza. Noi non percepiamo infatti dei meri oggetti ma incontriamo in modo immediato degli oggetti dotati di qualità di tipo spaziale, temporale, materiale, e così via: questi oggetti, prima ancora di appartenere  agli schemi tipici dell’apprensione, che ci dà le informazioni sulla distanza, vicinanza, forma, di un oggetto, si costituiscono passivamente nell’esperienza in base a processi sintetico-genetici: per esempio gli oggetti ci appaiono grandi o piccoli a seconda della nostra distanza da essi, la distanza implica la lontananza degli oggetti, in base a regole come la somiglianza, che nascono  dall’interazione tra l’intenzionalità soggettiva e le strutture oggettive che ci guidano nell’apprensione. Sulla base di questa passività si costituisce anche una SINTESI ATTIVA che, sulla base di oggetti dati ne forma di nuovi, per esempio un oggetto naturale assunto a simbolo di una divinità o di un movimento politico. Questa duplicità passivo-attiva o intuitivo-costitutiva è presente in ogni momento intenzionale e non dipende dalla rigorosa divisione delle facoltà presente nel kantismo (secondo cui la sensibilità è ricettiva e passiva, l’intelletto spontaneo ecc.). Per spiegarla Husserl ricorre al concetto di COSCIENZA PURA, una coscienza svincolata dai modi in cui le essenze si esprimono. ma è guidata dal solo criterio della possibilità massima di significazione delle essenze: il trascendentale indica dunque una possibilità genetica che viene applicata alla stessa logica formale. La logica formale ha raggiunto secondo Husserl uno sviluppo notevole a cui non corrisponde però un identico sviluppo per quanto concerne la sua funzione conoscitiva: essa perciò deve essere fondata su una logica superiore o TRASCENDENTALE, di natura non formale ma materiale poiché rivolta all’insieme del campo delle esperienze in cui ogni formalismo trova applicazione.
Nelle MEDITAZIONI CARTESIANE Husserl sottopone ad indagine il principio del cogito cartesiano, un tema fondamentale per collocare estensione e limiti della pura pensabilità, e quindi per tracciare la forma della coscienza pura. 
Husserl ritiene corretta la concezione cartesiana della centralità del pensiero, ma - nonostante questo aspetto positivo - ne mette in discussione le relative conseguenze: innanzitutto il carattere di sostanzialità del cogito cartesiano rende impossibile che esso sia al tempo stesso ciò che fonda e ciò che viene fondato; in secondo luogo conduce a un presupposto ingiustificato, quello dell’esistenza dell’io, mentre una vera fondazione dovrebbe eliminare ogni presupposto; in terzo luogo la deduzione logica di cui Descartes si serve nel suo metodo non è un vero processo trascendentale ma si tratta di una forma di ragionamento connessa a un certo aspetto della realtà; infine una simile prospettiva produce quella separazione psicologica tra i due mondi - res cogitans e res extensa - che rende il cogito incapace di ricomporre il conflitto tra una realtà interna e una trascendente ad essa. Non è dunque possibile pensare a una svolta cartesiana del pensiero husselriano, come sostenevano erroneamente alcuni suoi allievi, poiché nella concezione fenomenologica del mondo la coscienza è già in connessione con esso - poiché la coscienza è sempre “di qualcosa” - e il mondo e le cose che “abitano” la coscienza non sono pure rappresentazioni ma i loro significati. Perciò, non solo non c’è bisogno di alcun salto verso l’esistenza ma l’esistenza stessa è vista dalla coscienza come un significato della trascendenza, che appare immanente alla stessa coscienza.

39.2 - Come si è visto la riduzione trascendentale di Husserl viene duramente  criticata da alcuni allievi e da alcuni studiosi - tra i quali Scheler e Hartmann - che la ritenevano un vero e proprio tradimento delle finalità originarie del programma fenomenologico. Questi duqneu richiesero che si tornasse alla visione tradizionale pre-trascendentale annunciata dalle RICERCHE LOGICHE  e che si operasse una distinzione rigorosa tra metodo e contenuto della fenomenologia, il primo oggettivo e descrittivo, il secondo suscettibile di ulteriori sviluppi in senso idealistico o realistico. Ma la scissione più famosa all’interno del movimento fenomenologico fu sicuramente quella portata avanti dall’allievo più famoso di Husserl, Martin HEIDEGGER, che nel 1927 pubblicò la sua opera più famosa, ESSERE E TEMPO, che porta lo stesso Husserl a rivedere alcuni concetti fondamentali della sua dottrina, compresa la dimensione esistenziale dell’esperienza ricompresa nella sua temporalità e storicità. Dopo l’uscita di Heidegger dal movimento, si consuma una definitiva svolta nella fenomenologia husserliana, motivata dal cambiamento politico e culturale, che coincide con l’ultima grande opera di Husserl, LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE, pubblicata tra il 1935 e il 1937. Si tratta di un vero e proprio percorso, a partire dal pensiero greco, che, dopo aver preso atto della situazione storica e sociale e della frammentazione del sapere scientifico, cerca di restituire quella ragione di esistenza consegnata dai filosofi della scienza come Galileo e Descartes allo scopo di fare della conoscenza della totalità dell’essere uno strumento al servizio dei fini razionali dell’uomo, e non allo scopo di governare il mondo. Husserl critica le scienze di recente sviluppo, sopratutto la fisica e la psicologia, incapaci di cogliere una totalità dell’essere, che hanno disatteso il compito affidato loro dalla ragione riducendo il mondo naturale a una serie di frammenti e l’anima umana a un oggetto di esperimenti. Nella sua accusa contro l’oggettivismo della scienza Husserl non intende certo escludere l’esistenza di un mondo scritto con il linguaggio della matematica, piuttosto intende sottolineare l’esistenza di un MONDO DELLA VITA irriducibile e sfuggente poiché soggettivo, che non può essere spigato in modo analitico dalla scienza ma solo dalla fenomenologia in quanto scienza obiettiva della soggettività.

39.3 - A questo punto Husserl palesa il doppio ruolo della fenomenologia, scienza del mondo vitale e suo prodotto al tempo stesso, inducendo così il paradosso che il sapere fenomenologico serva a scoprire le possibilità della coscienza essendo anche una delle manifestazioni della stessa coscienza. A tale scopo l’indagine fenomenologica viene estesa alla storia, considerata qui in una duplice prospettiva, quella della storia empirica e fattuale, insieme non organico di eventi senza senso o correlazione, e quella della storia interna, la cui costituzione rappresenta il senso stesso degli eventi che la costituiscono e solo in questa prospettiva è possibile cogliere il movimento intenzionale teleologico che rappresenta uno dei caratteri fondamentali della coscienza fenomenologica. Entrambe le riduzioni, eidetica e trascendentale, servono  a mettere in contatto pensiero e significato, la parte logico-linguistica e quella pragmatico-vettoriale: in assenza di un collegamento si perderebbe il senso del mondo e dei suoi oggetti. Husserl vorrebbe intraprendere un processo di razionalizzaione degli eventi storici, a cominciare dagli albori del pensiero scientifico galileiano e cartesiano, passando per Hume e Kant e arrivando proprio alla fenomenologia, ma poi si accorge che questo tentativo non è attuabile a causa della presenza di PROFILI che sfuggono a ogni tentativo di universalizzazione.

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3B - U8
Heidegger

HEIDEGGER - LEZIONE 42
L’analitica esistenziale

42.1 - Heidegger radicalizza la fenomenologia husserlian proponendosi di indagare il senso dell'essere. Questa indagine si articola sinteticamente in due momenti principali, il primo è quello del significato dell'esistenza dell'uomo "gettato" nel mondo, il secondo è la differenza ontologica tra l'essere e qualsiasi altro ente. Nonostante le innumerevoli influenze Heidegger restò fedele a una sola prospettiva di indagine, quella appunto del senso dell'essere. Affrontare un problema caro alla metafisica greca in un secolo di grande progresso scientifico e tecnologico appare sicuramente paradossale: ma l'obiettivo provocatorio di Heidegger è quello di far coincidere questa metafisica non tanto con l'esistenza dell'essere quanto col suo oblio. Il senso autentico dell'essere, spiega infatti Heidegger in ESSERE E TEMPO, si è perso a causa di una "chiacchiera planetaria" che attribuisce la forma dell'essere a tutto ciò che circola nel nostro linguaggio. 

42.2 - Il saggio ESSERE E TEMPO deve molto al metodo fenomenologico husserliano, necessario per forzare i vari "coprimenti" dell'essere e per portare alla luce le "cose stesse". L'esperienza che noi facciamo del mondo diventa razionalmente comprensibile quando viene riportata lla sua sorgente, la coscienza nella totalità dei suoi atti intenzionali. Lo stesso Heidegger mette in evidenza che solo l'uomo  (poi preciserà l'uomo occidentale) può interrogarsi sul senso dell'essere. Infatti un sasso o una pianta ci sono e sono qualcosa per l'uomo che li pensa, ma non sarebbero nulla di per se stessi se l'uomo non ci fosse. Ma l'accostamento a Husserl finisce qui. Heidegger infatti non parte dall'io trascendentale ma dall'uomo, quindi non usa l'epochè per mettere il mondo tra parentesi, in quanto l'uomo ha senso come "essere nel mondo", mondo che non può essere né sospeso né abbandonato. L'analitica esistenziale sviluppata in ESSERE E TEMPO ha come oggetto il rapporto tra uomo e mondo, dove lo stesso termine uomo è considerato da Heidegger troppo equivoco per poter essere impiegato: al suo posto Heidegger utilizza il termine ESSERCI. L'esserci non è la coscoenza, la mente o l'unione di anima e corpo ma è COLUI CHE SI INTERROGA SULL'ESSERE IN QUANTO "CI È". L'esserci implica infatti una rete di relazioni pratiche con gli enti che sono e sono pensati in base all'uso che se ne può far (per esempio: il martello che serve a piantare un chiodo nel muro, il chiodo che è resistente per appendere qualcosa, eccetera). La comprensione quotidiana del mondo è dunque una comprensione pratica del suo essere. Come si evince dall'esempio del martello e del chiodo il mondo dell'esserci è fatto di enti "usabili" e non oggetto di contemplazione teoretica (quelli che Heidegger chiama SEMPLICI PRESENZE): proprio per questo motivo l'essere è in questo senso un ESSERE CON GLI ALTRI, cioè posto in rapporto con gli altri uomini. Si tratta di una steuttura ESISTENZIALE che appartiene a priori sia all'esserci sia all'essere nel mondo. L'esserci e il mondo hanno una natura PRAGMATICA, poiché rivolta al futuro e implicante la progettazione dell'uso che si farà di un ente. Essi condividono perciò una struttura di tipo TEMPORALE: l'esserci a differenza degli altri enti vive sbilanciato in una situaione di continua progettazione  per il futuro e le cose sono in base all'uso che se ne potrà fare. Questa progettazione dell'avvenire è preceduta da un altro momento di consapevolezza che non ha natura cognitiva ma EMOTIVA: l'emozione è l'apertura al significato del mondo. È infatti nella paura, nella gioia, nella speranza che l'esserci entra per la prima volta in contatto con le cose che poi utilizzerà. Questo passato, o ESSERE STATO, è incancellabile: infatti l'esserci si trova in una SITUAZIONE EMOTIVA continua che non può mai essere sospesa come nell'epochè husserliana. Malgrado la libertà di progettare il futuro l'esserci è vincolato dall'essere stato in una concatenazione semantico-temporale nota come CIRCOLO ERMENEUTICO. La comprensione delle cose è dunque resa possibile da una PRR-COMPRENSIONE. La libertà dell'esserci è una forma di libertà vincolata. Heidegger chiarisce che dal circolo ermeneutico non si può usocre ma bisogna, invece, "gettarsi" ossia esserci dentro. Il pinto di convergenza dell'essere stato e dell'avvenire progettato dall'esserci è rappresentato dal presente del DISCORSO in cui parliamo delle cose che l'emozione ha SVELATO e che il progetto dell'esserci ha poi COMPRESO. Queste tre strutture esistenziali e temporali che Heidegger chiama ESTASI, costituiscono l'essenza dell'essercu come CURA. L'esserci, scrive Heidegger, si prende cura del mondo relazionandosi con esso: ciò che noi siamo e ciò che  il mondo è - l'ESSENZA - è determinato è determinato dalle strutture temporali della nostra esistenza. Oltrepassando dunque la metafisica tradizionale, Heidegger ne capovolge l'orientamento ed esce da essa, vincolando alla temporalità dell'esistenza l'essere  stesso.

42.3 - L'atteggiamento dell'esserci verso il mondo è un atteggiamento pratico che coinvolge l'utilizzabile in un progetto. Heidegger è molto attento a distinguere tra la ricchezza temporale dell'esserci, ossia l'unione delle strutture temporali convergenti nel circolo ermeneutico, e la semplice presenza degli oggetti della sola contemplazione teoretica, privi di passato e non utilizzabili nel progetto dell'avvenire. Ma le parole parlano delle cose in modo equivoco, perdendo così la ricchezza temporale e decadendo il discorso nella chiacchiera. La quotidianità è allora un presente vuoto e senza senso, dove si dice e si fa senza nessuna consapevolezza della propria singolarità esistenziale e senza alcuna responsabilità di progettare. Questa massificazione dei discorsi e dei comportamenti produce la forma INAUTENTICA dell'esistenza: nessuno è sé stesso e ciascuno è tutti gli altri di cui condivide parole e atti. Così il presente vuoto e superficiale annulla le due estasi - passato e futuro - e le sprofonda nell'OBLIO. La metafisica di un essere sempre presente nasce quindi dalla comprensione del quotidiano e della chiacchiera. Questa inautenticità trova un radice esistenziale più profonda nel tentativo della chiacchiera di coprire la finitezza dell'esserci e il suo ESSERE PER LA MORTE. Si tratta del rifiuto dell'integrale finitezza dello stesso esserci e il tentativo di rimuovere il pensiero della morte. Rifiutare la morte significa rifiutare la propria temporalità e sopratutto dimenticare che l'essere è tempo. L'esserci si distrae "pascalianamente" con il presnete, con la chiacchiera, curandosi solo di ciò di cui si parla nel presente, poiché il pensiero della morte è troppo forte per essere cancellato del tutto, e può essere ridotto solo a un generico "si muore" in un tempo che è "non ancora". La forma AUTENTICA dell'esistenza si conquista proprio con l'accettazione del proprio essere per la morte e la conseguente consapevolezza della propria temporalità, al pari dell'essere nel mondo e dell'essere con gli altri. Innanzitutto bisogna sostituire la forma impersonale "si muore" con "qualcuno muore". Il pensiero della mia morte poi non deve essere ottimisticamente allontanato con la forma del "non ancora" ma la sua esperienza deve essere preparata dall'esperienza della morte degli altri anche se la morte è un fatto personale - mia e solo mia - che non può essere consivisa con nessuno. È proprio la morte a restituire all'essere il suo senso autenticante temporale. Abbandonando la chiacchiera per il silenzio e la distrazione per l'ANGOSCIA, l'essere ha la responsabilità di compiere una "decisione anticipatrice" della morte, che non significa suicidarsi ma vivere in maniera consapevole tutto ciò che riguarda la temporalità. L'angoscia ci pone di fronte al NULLA TEMPORALE del nostro esserci e del mondo, facendo sprofondare la rete di abitudini e chiacchiere che impediscono all'esserci di diventare un sé autentico.

HEIDEGGER - LEZIONE 43
La differenza ontologica e il linguaggio

43.1 - ESSERE E TEMPO non è mai stata completata: la seconda pRte dell'opera, dedicata a una decostruzione della storia della metafisica, è infatti incompleta. Pur tuttavia questa mancanza viene compensata da diversi corsi universitari pubblicati in raccolte - sopratutto negli anni Settanta - e da altre opere come KANT E IL PROBLEMA DELLA METAFISICA del 1929. Ma va detto che anche la prima parte dell'opera non è completa: la terza sezione, che si sarebbe dovuta intitolare Tempo ed essere, fu solo abbozzata e poi abbandonata. Motivo di questa improvvisa battuta d'arresto del processo avviato con ESSERE E TEMPO fu la resistenza incontrata nel linguaggio stesso della metafisica. La fondazione del pensiero sulla struttura temporale dell'essere implicava infatti l'uscita dalla metafisica tradizionale, colpevole secondo Heidegger di aver condannato l'essere all'oblio attraverso il cpncetto della presenza. Ma questo nuovo processo del pensiero heideggeriano non poteva essere sviluppato col linguaggio della metafisica che proprio ESSERE E TEMPO voleva superare. Dalla metà degli anni Trenta emergono nel pensiero di Heidegger alcuni temi che vengono solitamente indicati (forse in maniera riduttiva) come una SVOLTA (Kehre), in realtà però non si tratta di un vero e proprio cambio di direzione rispetto a ESSERE E TEMPO quanto un approfondimento di alcune tematiche non completamente sviluppate nell'opera precedente, e precisamente:

il superamento del grado preparatorio dell'analitica esistenziale in direzione dell'ONTOLOGIA;
la maggiore consapevolezza delle difficoltà di abbandonare la storia della metafisica;
l'attenzione al problema del linguaggio, che era stato trascurato in ESSERE E TEMPO.

43.2 - Heidegger ha chiarito in ESSERE E TEMPo che l'essere non è un ente, non è una delle cose che incontriamo o con cui abbiamo a che fare, non è una cosa o un ente speciale, eternamente presente e stabile e disponibile. Per comprendere il senso dell'essere occorre sviluppare la natura temporale dell'esser i e del mondo come sistema di rimandi che l'esserci progetta. La natura temporale dell'essere e la sua assoluta alterità rispetto all'ente sono chiariti da Heidegger mediante il concetto di DIFFERENZA ONTOLOGICA. Già la metafisica tradizionale ha sempre differenziato "ciò che È perché NON diviene" da "ciò che NON è poiché diviene". Nelle varie epoche della storia del pensiero l'essere è sempre stato considerato il fondamento dell'ente: le idee, la sostanza, la res cogitans, la volontà di potenza, lo spirito assoluto hanno segnato la storia della metafisica come modelli di riferimento delle cose esistenti. Ma, si domanda Heidegger, la metafisica tradizionale ha davvero pensato in questi paradigmi la differenza tra essere ed ente?
In realtà la storia della metafisica non ci ha mai consegnato una vera distinzione tra essere ed ente: nonostante la successione di differenti modelli la metafisica non ha mai potuto pensare l'essere come tale: l'essere infatti si SVELA nelle varie epoche ma allo stesso tempo si sottrae all'interpretazione e si ritira usando le stesse forme che ha svelato.
La temporalità. Continua Heidegger, rivela la differenza tra essere ed ente. Questa differenza è espressa dalla metafisica, che non può pensarla come differenza in quanto l'essere si nasconde nelle varie epoche della metafisica. La metafisica stessa è dunque oblio di questa differenza. Una tale concezione porta il filosofo a cambiare lo stesso concetto di verità, che proprio in base alla differenza ontologica assume il ruolo espresso nella sua origine greca, aletheia, ossia dis-velamento. La metafisica esprime la sola dimensione ontica di ciò che viene svelato e che tuttavia tende subito a nascondersi, implicando un nuovo velamento.

43.3 - Heidegger ammette dunque che: 1) non si può chiudere con la metafisica cancellandola con un colpo di spugna; 2) ogni epoca della metafisica interpreta l'essere così come appare in quell'epoca, per poi ritirarsi; 3) ogni epoca ha i suoi peopei concetti e linguaggi per esprimere l'essere, che si fa ALTRO.
Queste caratteristiche portano Heidegger ad assegnare alla metafisica non un carattere espansivo, come sosteneva Hegel, ma INVOLUTIVO: il senso e il significato stesso dell'ontologia si riduce e si restringe dalla grecità, passando per la Scolastica e il pensiero rinascimentale, fino a Nietzsche. Queste tappe hanno il loro culmine nell'attuale epoca della TECNICA. Heidegger vede come una semplice illusione il tentativo della tecnica di liberare l'essere dalla metafisica: in realtà è la stessa tecnica a imprigionare l'essere, con la pretesa di dominare l'intera natura. Per questo Heidegger la considera il culmine della metafisica. Ma l'epoca della tecnica ha un carattere ambiguo e, proprio per questo, non si può affermare che la condanna heideggeriana sia inappellabile: comprendendo la tendenza nichilista della metafisica occidentale, la tecnica annienta quella differenza ontologica che - a questo pinto - non è dunque mai stata nulla (Heidegger scrive Sein, cioè essere, sbarrato). È proprio questo nichilismo che, annullando la differenza, prepara il nuovo inizio. Tale compito è affidato al la oro silenzioso del PENSIERO RAMMEMORANTE. Esso ripercorre le tappe della storia della metafisica, cercando di "rammemorare" ciò che la metafisica non ha mai pensato. La metafisica si supera dunque riportando alla luce il rapporto tra il suo non-pensiero e il LINGUAGGIO.
In che modo le strutture attraverso cui l'essere si svela nei diversi momenti della storia della metafisica vengono inviate all'esserci?
Se il pensiero è tra i responsabili di questi invii è certamente l'OPERA D'ARTE ad aprire un mondo storico.  Il mondo della polis greca è aperto dal TEMPIO. Esso raduna intorno a sé la comunità, iniziando un'epoca storica. La vera forma d'arte essenziale però è la POESIA, che Heidegger considera nel suo senso più alto, poiché riassume la potenza dell'opera d'arte. La poesia restituisce la PAROLA all'essere, che ne è proprietario: viene dunque così il momento dell'ascolto del linguaggio dell'essere sono i grandi poeti a farci comprendere il movimento della storia. Per esempio in Sofocle risplende la meraviglia dell'uomo greco per l'essere, prima che la metafisica ne inizi a velare il significato, mentre in Holderlin viene cantata la notte del mondo abbandonato dagli dei, nella speranza del loro ritorno. È proprio la poesia la risorsa più grande del pensiero rammemorante, che tenta di recuperare quanto nella metafisica è rimasto impensato,  consegnando dunque all'uomo la responsabilità di meditare e sorvegliare il linguaggio.