CARTESIO
Cartesio rappresenta un importante punto di maturazione nello svolgimento della filosofia rinascimentale. La sua speculazione infatti non solo mira a rendere effettivo il ruolo dell’uomo quale padrone della natura, ma spiega l’azione umana avvalendosi delle regole della matematica, universalizzando meglio di Bacone la codifica di queste azioni. La vita di Cartesio fu molto intensa. Educato nel collegio gesuitico di La Fléche, Cartesio si avvicinò nel periodo della giovinezza all’elaborazione di un personale metodo di ricerca. Approfittò della Guerra dei Trent’Anni per studiare e perfezionarsi nelle discipline fisiche e matematiche, e si stabilì in Olanda, dove respirò l’atmosfera di liberalismo culturale e filosofico. Proprio in Olanda, a Leyda, Cartesio pubblica nel 1637 il Discorso sul Metodo, l’opera che rappresenta il suo manifesto ideologico e speculativo. L’opera era stata inizialmente utilizzata come prefazione di una serie di tre saggi matematici; fu poi ripresa, corretta, e inviata a un gruppo di scienziati e teologi. La stesura definitiva fu attuata nel 1641 col titolo Meditazioni sulla filosofia prima intorno all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima, con l’aggiunta delle Obiezioni, appunto rivoltegli, e delle Risposte fornite a corredo.
IL METODO
Innanzitutto il procedimento cartesiano è autobiografico: il problema della ricerca di Descartes è infatti quello dell’uomo Descartes. A Cartesio non basta semplicemente fare didattica per insegnare la strada conforme a ragione, ma vuole spiegare il modo lui stesso ha affrontato la ricerca. Questo metodo ricorda molto quello di Montaigne, ed è strutturato come un discorso svolto in prima persona. Uscito dalla scuola dei Gesuiti, Cartesio è disorientato. Certo, egli ha appreso brillantemente il sapere del tempo, ma quel sapere non gli serve a niente: egli si rende drammaticamente conto di non possedere alcun sicuro criterio di verità, e il suo bisogno si trasmette con la necessità di recuperare un sistema che avesse un’utilità pratica, confacente alle esigenze umane, e non solo teoretica. Il metodo che Cartesio cerca è un lumen directivum, che aiuti l’uomo nella vita pratica, e che non sia limitato ai soli fini speculativi. I filosofi rinascimentali della natura avevano messo in luce il ruolo dell’uomo nel regnum che porta la sua attribuzione. Cartesio, in linea con questa tendenza, auspica che l’uomo faccia tesoro delle sue conoscenze per migliorarsi la vita. Di qui la necessità dell’universalità del metodo cartesiano, che deve valere per tutti gli uomini e in tutti i campi, teoretici e pratici.
Nel giovanile Regulae ad directionem ingenii Descartes affermava la necessaria unità della conoscenza umana, sola e unica ma applicabile a diversi campi del sapere. L’uomo ha già a disposizione un patrimonio conoscitivo su cui fondare la ricerca: le matematiche, che sono già pervenute in possesso del metodo, e che perciò devono essere utilizzate nella ricerca del metodo da parte dell’uomo. La strada più semplice è quella di astrarre il metodo dalle scienze matematiche e applicarlo alle cose pratiche: ma ciò non basta, occorre infatti anche giustificarlo, cioè fondarlo universalmente. Il problema non è tanto quello di presentare il modo in cui io penso, ma dare a questo metodo una validità universale, renderlo fruibile a tutti quanti. Ecco che si delineano i tre compiti della filosofia cartesiana:
formulare le regole del metodo secondo le scienze matematiche;
fondare il valore assoluto del metodo con una ricerca metafisica;
dimostrarne l’utilizzo nelle diverse aree del sapere.
LE REGOLE DEL METODO
Cartesio presenta le regole del metodo nella seconda parte del Discorso. Esse sono quattro:
prima regola era l’evidenza, ossia non accogliere nulla per vero che non sia tale per evidenza, in cui ogni dubbio non si possa annidare;
seconda regola è l’analisi, ossia la divisione di un problema in parti semplici, così da poterle analizzare in modo più facile e preciso;
terza regola è la sintesi, ossia il procedimento ordinato e per gradi che dagli oggetti più semplici conduce alla conoscenza degli oggetti complessi, presupponendo una applicazione in tutti i campi;
infine l’enumerazione, cioè l’elenco di tutto quanto, in modo generale e senza omettere nulla. Questa regola è il criterio di controllo della validità delle precedenti.
Queste regole vanno bene ma non sono autosufficienti, anche se sono utilizzate dalla matematica. La matematica di per sé non fa testo, a Cartesio infatti occorre un modo per dare alle regole del metodo una universale validità. E questa validità viene cercata nell’uomo, soggettività e ragione.
IL DUBBIO
Come si può trovare il fondamento di un metodo che serva da guida sicura nella ricerca? Attraverso una critica radicale di tutto il sapere già dato. Cartesio propone in pratica il metodo della scettica epochè, ossia la messa tra parentesi di tutto il conoscibile, sottoposto a dubbio. Se si giunge a un principio in cui il dubbio non attecchisce, allora saremo di fronte a un principio che serve da fondamento alle altre conoscenze. Questa è strutturalmente l’ossatura del metodo, donde il nome di dubbio metodico.
Nessun grado, nessuna forma di conoscenza può sottrarsi al dubbio: si può e si deve dubitare di tutto. Sia perché i sensi sono spesso ingannatori, sia perché durante il sogno si possono avere le stesse conoscenze dello stato di veglia, ma senza possedere un sicuro criterio di verità. Che 2 + 3 faccia 5 è uguale in entrambi i casi, ma anche la certezza matematica potrebbe avere una sua illusorietà, nel sogno e da svegli. L’uomo nulla sa della sua origine. E se fosse stato creato da un malefico genio capace di mostrargli certo ed evidente ciò che certo non è? L’ipotesi è probabile perché l’uomo non ha certezze, e allora il dubbio diventa necessario e si estende non più a un oggetto in particolare ma a tutte le cose (dubbio iperbolico).
COGITO, ERGO SUM
Paradossalmente dal dubbio universale si ricava una prima certezza. Io posso ingannarmi o essere ingannato dal genio malefico, ma per essere ingannato è necessario che io esista. La proposizione io esisto è quindi assolutamente vera, perché per dubitare devo essere, devo esistere. Il problema ora è: cosa sono io per dubitare? Non sono corpo, perché io non so nulla di corporeo intorno a me, so solo di essere una cosa che dubita, cioè una cosa che pensa. Ciò che qui è, esiste, è reale, è solo il mio pensiero (res cogitans) e non ciò che dal mio pensiero è pensato, perché le cose che penso possono esistere o meno, ma qui non mi riguarda ancora saperlo. Ciò che esiste sicuramente è il pensare, perché per dubitare devo esistere come pensiero. Dire io esisto equivale ad ammettere la mia esistenza come soggetto pensante. È possibile che le cose da me pensate non esistano, è però impossibile che non esista io che le penso. Con il cogito Cartesio giustifica la prima delle quattro regole del metodo, quella dell’evidenza. L’evidenza del cogito cartesiano non può essere dubitata perché si negherebbe l’esistenza del soggetto che pensa. Questa evidenza indubitabile costituisce il punto di partenza per la giustificazione delle altre tre regole del metodo. Va sottolineato che Cartesio usa il cogito non perché conforme all’evidenza ma perché evidenza esso stesso, in quanto appare indubitabile che per pensare bisogna certamente esistere.
Cartesio supera nella sua ricerca le metafisiche di Agostino e di Campanella. Ad Agostino premeva che l’uomo trovasse Dio dentro di sé, a Campanella premeva che l’uomo in quanto elemento naturale si riconoscesse senziente e quindi dotato di autocoscienza, tale da riconoscere l’effetto delle modifiche subite dagli oggetti esterni percepiti. Ma Cartesio va oltre: nell’esistenza del soggetto pensante, evidente a se stesso, il filosofo di La Haye ricerca il principio fondamentale di tutta la conoscenza umana, ciò che alla conoscenza umana dà validità.
DIO
Il principio del cogito ergo sum mi rende evidente solo una cosa, la mia esistenza, come soggetto pensante. Riconoscermi soggetto pensante significa anche riconoscermi come soggetto che ha idee, intese come oggetti del pensiero. Che queste idee esistano in me ne sono sicuro: io come soggetto pensante le penso, e sono sicuro del fatto che di me fanno parte, in quanto io le penso; ma non sono sicuro che queste idee corrispondano sicuramente a qualcosa fuori da me. Ciò che io percepisco viene pensato da me, ma cosa mi può dare la sicurezza dell’esistenza di questi oggetti e atti del pensiero?
Cartesio divide le idee in tre gruppi:
quelle innate, ossia nate con me; a questa classe di idee corrisponde la propria capacità di pensare, ossia produrre idee;
quelle avventizie, cioè venute da fuori; a questa classe corrispondono le idee delle cose naturali;
quelle fattizie, cioè formate da me stesso; a questa classe corrispondono le idee delle cose chimeriche o inventate.
Da dove derivano le idee?
Le idee avventizie corrispondono a uomini e a cose naturali, e non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me; l’idea di Dio presuppone qualcosa di perfetto, illimitato e onnisciente, che non poso aver creato io stesso. Io sono limitato, e la causa di una idea perfetta deve essere essa stessa perfetta. Dio esiste per forza come sostanza infinita: poiché Dio è illimitato e io, essendo limitato, non posso assolutamente aver creato una cosa assolutamente perfetta. Questa è la prima prova dell’esistenza di Dio: pensare l’idea di Dio può solo significare pensare Dio come qualcosa di infinito e perfetto e soprattutto fuori dalla mia portata. Ma c’è di più. Proprio perché io sono imperfetto e limitato, cosa attestata dal fatto che dubito, non mi posso essere creato da me, anche perché sarebbe stato logico che mi sarei dotato delle perfezioni che sono prerogative di Dio. È stato dunque Dio a crearmi, finito, dotandomi però dell’idea (= della capacità di pensare) l’infinito. Questa è la seconda prova dell’esistenza di Dio. A questo punto Cartesio ne aggiunge una terza, la cosiddetta prova ontologica, in cui afferma l’impossibilità di concepire Dio come Essere Perfetto negandone l’esistenza, poiché l’esistenza costituisce necessariamente una delle Sue perfezioni necessarie. Tutto ciò è dimostrato dal fatto che io esisto, perché tutte le cose che non hanno la loro causa in se stesse cesserebbero di esistere se la loro causa non fosse infinita e smettesse di creare, e la creazione di Dio è appunto continua.
IL MONDO
Cartesio ha dunque riconosciuto l’esistenza di Dio. Dio rappresenta il criterio di evidenza più garantito ed elevato, perché Dio è perfetto e non mi può ingannare. Ciò che mi appare chiaro ed evidente è dunque vero e indubitabile. Ma allora perché e come si verifica l’errore?
Secondo Cartesio dipende da due cause in concorso, l’intelletto, che è limitato, e la volontà, che è invece libera. Mentre l’intelletto umano può pensare un intelletto più esteso e perfetto come quello divino, la volontà ha campo libero, e può arbitrariamente affermare o negare ciò che l’intelletto non riesce chiaramente a percepire. Se io mi limitassi a giudicare solo l’evidente e l’indubitabile, e se mi astenessi dal giudizio quando non è chiara la situazione, allora non ci sarebbe mai errore. Ma la volontà è libera e non è limitata come l’intelletto, e spesso mi induce a pronunciarmi su ciò che è poco chiaro. Io posso anche azzeccarci, indovinando, per un mero caso, ma posso appunto anche sbagliare, ingenerando così l’errore. Dio mi ha creato libero, e, come tale, libero di sbagliare: per evitare l’errore devo attenermi alle regole del metodo e soprattutto a quella primaria e inconfutabile dell’evidenza.
Indubbiamente Dio esiste e ciò mi garantisce l’evidenza, dunque ora posso rimuovere il dubbio che avevo avanzato all’inizio sulla realtà di cose corporee fuori da me e che agiscono sui miei sensi. Se ciò che è evidente non mi inganna, allora posso ammettere accanto alla res cogitans, alla sostanza pensante, inestesa e limitata, una sostanza corporea, estesa, la res extensa appunto, divisibile in parti. Anche Cartesio ammette come Galilei la presenza di elementi propri delle cose corporee e affini alle qualità primarie galileiane, cioè delle determinazioni quantitative; mentre le determinazioni qualitative come il colore o il sapore non sono parte delle sostanza corporee.
Cartesio separa nettamente spirito e corpo, pensiero ed estensione, attribuendo a ciascuno prerogative diverse. Lo spirito è libertà, il corpo è necessità, e tutto si fonda su un meccanicismo necessario retto da Dio. Dio è immutabile e nella Sua perfezione coesistono i due grandi principi della fisica, l’inerzia e lo stato di conservazione della quantità di moto. Infatti Dio ha dato alle Sue creature una certa quantità di quiete e di moto, e garantisce il corretto mantenimento di questa quantità nella Sua immutabilità. Dio ha creato una massa informe e caotica a cui ha poi conferito un ordine meccanico in base a delle leggi. Ogni causa finale è abolita: tutto ciò che è corpo è meccanismo, incluso il corpo umano. A questo meccanismo sfugge solo l’anima, che è libera, ed è propria esclusivamente dell’uomo.
L’UOMO
L’uomo si differenzia dagli animali solo per una prerogativa, appunto l’anima razionale. L’anima è in continuo scambio col corpo, e fulcro di questo scambio è per Cartesio la ghiandola pineale. Cartesio distingue nell’anima azioni e passioni, le prime frutto della libera volontà, le seconde frutto di percezioni sentimentali ed emotive disordinate, provocate da quelle forze meccaniche che agiscono sul corpo, e l’ideale del saggio è quello di riuscire a controllarle, come insegnavano gli Stoici. Controllarle e non abolirle, primo perché sarebbe impossibile, e poi perché sarebbe dannoso. Le passioni non sono cattive, è cattivo l’uso che di queste passioni si fa.
La morale cartesiana trova sicuramente il suo massimo punto di elevazione nel ruolo che l’uomo deve assumere nella vita. Cartesio sceglie la scienza e il suo scopo è dichiarato fin dal principio: trovare qualcosa di valido per tutti. Ma egli non esclude che altri non possano trovare qualcosa di altrettanto valido, l’importante, afferma Cartesio, è scegliere risolutamente dopo aver attentamente vagliato ogni singola possibilità. E difatti Cartesio fa dell’esperimento scientifico molto più, come si è detto, di una regola di vita. Ma l’esperimento è fondamentalmente il limite negativo, oltre cui ogni ricerca appare inutile. La vera base positiva della ricerca è e deve essere solo la ragione.
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