lunedì 11 luglio 2016

Logica araba ed ebraica

LA LOGICA ARABA ED EBRAICA

LA FILOSOFIA ARABA

Anche la filosofia araba è una filosofia scolastica, poiché tenta di dare una giustificazione razionale della verità rivelata; al posto del Vecchio e del Nuovo Testamento la scolastica araba mette il Corano, ma come la filosofia cristiana è influenzata dal pensiero classico, principalmente quello di matrice neoplatonica ed aristotelica. Occorre anche considerare che la filosofia araba arriva  assai prima della cultura cristiana alla letteratura filosofica greca, mentre la cultura occidentale ha dovuto aspettare l’opera dei Padri e della Scolastica medioevale: per questo la filosofia araba ha rappresentato una sorta di innovazione e di liberalismo culturale che ha influito sul pensiero filosofico occidentale.
Le due Scolastiche appaiono inconciliabili, soprattutto a causa del principio di necessità che domina la speculazione dei maggiori rappresentanti della filosofia araba, Al Farabi, Avicenna ed Averroè: la necessità domina il mondo divino e umano. La Scolastica latina, pur mutuando l’aristotelismo dalla filosofia araba, dovrà adattarlo e modificarlo secondo il principio della libertà creatrice di Dio e del libero arbitrio umano, lontani dal rigido causalismo e meccanicismo della teologia e della filosofia islamiche. Due sono i testi che ispirarono l’inizio della Scolastica araba, una Teologia attribuita ad Aristotele e il Liber de Causis, che è la traduzione degli Elementi di Teologia di Proclo. Tra le altre opere fondamentali vanno citati il Timeo e la Repubblica tra tutti i dialoghi platonici e le opere scientifiche di Euclide, Tolomeo e Galeno. Una primissima espressione della filosofia araba potrebbe essere indicata nelle due sette dei Kadriti, che affermavano il libero arbitrio dell’uomo di fronte alla volontà divina, e dei Jabariti, che affermavano il fatalismo assoluto.  Si hanno poi altre due sette nel secondo secolo dell’Egira, la setta dei Motazal o dissidenti, che affermavano la necessità di esercitare una giustificazione razionale della verità religiosa, mettendo in voga il Kalam o scienza della parola (teologia razionale), e la setta dei Mutakallimun o disputanti, che affermano il continuo divenire e trasformarsi del mondo, che rende praticamente necessaria la presenza di un Dio creatore. A questa setta si ispirano gli Ascariti, frangia estrema dei Mutakallimun, che sostenevano che tutte le qualità accidentali nascono e spariscono unicamente per un atto di creazione della volontà divina. Praticamente secondo gli Ascariti quando un uomo scrive Dio crea quattro accidenti che non sono legati fra di loro da alcun nesso causale: la volontà di muovere la penna, la facoltà di muovere la penna, il movimento della mano, il movimento della penna. I nessi causali non hanno alcuna necessità intrinseca, essi sono stabiliti unicamente da Dio che, più che Causa Prima, è Causa Agente ed Efficiente. Accanto a queste sette distinguiamo nella filosofia araba filosofi che derivano le loro dottrine dalle sette stesse, in accordo ad esse o in opposizione
La prima vera espressione della filosofia araba si riscontra però nel pensiero di Al Kindi, che per primo si riallaccia al pensiero classico. Si tratta di un modello speculativo che pretenderebbe di ricalcare il platonismo e l’aristotelismo pur essendo chiaramente dedotto dal pensiero di Alessandro di Afrodisia, (aristotelismo eclettico), uno dei massimi ispiratori della Scolastica araba. Egli distingue quattro intelletti: il primo è quello che è sempre in atto, il secondo è quello che è in potenza nell’anima, il terzo è quello che nell’anima passa dalla potenza alla realtà effettiva, e il quarto è l’intelletto dimostrativo, che Aristotele assimila ai sensi poiché i sensi sono vicini alla verità. Questo quarto intelletto è perciò l’anima sensitiva.
Nella filosofia di Al Kindi compare per la prima volta il principio aristotelico arabo che attribuisce all’intelletto di Dio l’iniziativa del processo conoscitivo umano, e conseguentemente la separazione dell’intelletto attivo o divino dagli altri intelletti propri dell’uomo.
Insieme ad Al Kindi la filosofia araba annovera un altro grande iniziatore, Al Farabi. In Al Farabi troviamo quella differenziazione tra essenza ed esistenza poi ripresa dal sistema tomistico. La fondamentale distinzione tra possibile e necessario è attinta dal Liber de Causis, una delle fonti più importanti della Scolastica araba, dove si afferma che nelle cose si distingue una esistenza, data dal Creatore, e una essenza o forma, plasmata dalle Intelligenze ad Esso subordinate. Nel Liber de Causis l’esistenza è la possibilità, la potenza, della forma o essenza, che ne è atto, mentre nel pensiero arabo l’essenza è la potenza e l’esistenza è l’atto.  Secondo Al Farabi tutto ciò che esiste è possibile o necessario. Dire che una cosa possibile non esiste non è un’assurdità, poiché per esistere ha bisogno di una causa. L’essere necessario è di per se stesso causa e da lui procedono i vari intelletti. Infatti l’essere necessario è Dio, che pensa e conosce se stesso, e che determina il primo intelletto; da lui nasce il secondo intelletto, da cui emanano a loro volta gli altri due intelletti, l’ultimo dei quali è l’intelletto agente, da cui dipendono gli altri tre intelletti, in potenza, in atto e acquisito, tipicamente umani.

AVICENNA

Ibn Sina, conosciuto dagli scolastici latini come Avicenna, è uno dei massimi esponenti del pensiero arabo, e non strettamente in relazione alla filosofia, poiché Avicenna estese la sua attività a tutti i campi del sapere. La filosofia di Avicenna incarna perfettamente il classico compito della scolastica medioevale di impostazione dialettica: la filosofia ha il compito di fornire una giustificazione razionale della verità rivelata. I fondatori della fede si sono infatti limitati alla sola esposizione dei principi, mentre i filosofi devono chiarire e dimostrare ciò che è ancora oscuro o involuto.
Anche nella filosofia di Avicenna come nel pensiero di Al Farabi  il principio su cui si basa la struttura teoretica è la necessità dell’essere. Tutto l’essere in quanto tale è necessario, proprio la possibilità dell’esistere mette in risalto la necessità di un principio che ponga in atto l’essere stesso. L’esistenza in atto è dunque sempre necessaria. Questo implica che ogni essere possibile esige un essere necessario e che l’essere necessario sia esistente di per se stesso, originario e ingenerato, semplice, senza legami senza deficienze e senza materia. Evidentemente  se l’essere necessario è semplice, l’essere possibile non lo è, e porta in sé i due elementi di materia e di forma, esistenza ed essenza, potenza e atto. La materia è possibilità, mentre la forma è necessità ossia potenza in atto.  Ciò che non è necessario di per sé è necessariamente composto di materia e di forma, di possibilità e di necessità, e dunque non è semplice, al contrario dell’essere necessario di per sé.
Questo concetto è il cardine di tutta la metafisica di Avicenna, che influenzerà il tomismo. L’essere necessario è colui che è per essenza e la cui essenza determina l’esistenza, mentre l’essere che non esiste in virtù della propria essenza non può dirsi necessario e implica per esistere la presenza di un essere necessario. La definizione che Avicenna dà di possibile è molto più logica di quella aristotelica: infatti possibile non è solo “ciò che non è impossibile” ma è anche una terza alternativa tra impossibile e necessario: in tal caso il possibile è ciò che può essere o non essere.
Il carattere di assoluta semplicità dell’essere necessario consente ad Avicenna di identificarlo neoplatonicamente con l’Unità e di unire il concetto platonico di Uno a quello aristotelico di Atto puro, identificando l’Uno con l’intelletto. A differenza dalla speculazione scolastica latina, Avicenna ritiene che in Dio non vi sia una libera volontà creatrice, né una intenzione di creare: Dio è Causa in virtù della Sua stessa essenza e perciò l’atto del creare è un atto necessario che deriva da questa essenza. Ovviamente questa necessità assoluta della volontà divina si riflette anche nella volontà umana: ogni azione e ogni velleità dell’uomo hanno sempre una causa che rimanda a un essere necessario. Nella teologia di Avicenna non può dunque esserci spazio per il libero arbitrio o per una qualsiasi libertà umana, poiché tutte le azioni umane sono inevitabilmente riconducibili alla volontà divina.
La caratteristica dell’uomo è quella di essere un animale dotato di ragione, ossia di possedere l’anima razionale o intelletto materiale, che gli consente di cogliere le forme intelligibili. Questa funzione è anche detta intelletto in potenza ed è presente solo nei bambini, poi, in un secondo tempo, l’intelletto dell’uomo si evolve e diventa intelletto in atto, giungendo alla capacità di identificare le specie intelligibili. Buona parte del patrimonio conoscitivo dell’intelletto consiste in principi dati da una Causa soprasensibile, mentre altri sono successivi e relativi esclusivamente all’esperienza sensibile da cui sono estratti mediante l’astrazione e l’attività discorsiva. Queste conoscenze vanno a costituire il cosiddetto intelletto acquisito. Vi è poi una ulteriore forma di acquisizione che si chiama santità, e l’anima che ne risulta impressa si chiama santificata: essa è ovviamente riservata a pochissimi e mette l’uomo in rapporto diretto col principio emanante, ossia Dio. Questa attività conoscitiva è limitata dal corpo, ma questo limite garantisce anche l’immortalità dell’anima, perché, essendo il corpo corruttibile e precario, esso ha una durata limitata, mentre l’anima è sempre unita all’Essere necessario che l’ha emanata, anche in assenza del corpo.

AVERROE’

Ibn Rosch, per i scolastici latini Averroè, è con Avicenna uno dei pilastri della speculazione araba. Il ruolo di Averroè nella Scolastica occidentale è importantissimo (cfr. Sigieri di Brabante): egli si pone infatti come un interprete attento della filosofia aristotelica, termine ultimo del sapere umano, e non offre un sistema filosofico ex novo, ma semplicemente un chiarimento della filosofia di Aristotele. Caratteristica dell’averroismo è la tendenza a rifiutare il tipico antagonismo tra filosofia e religione, ma qui non siamo di fronte alla dottrina della doppia verità che la Scolastica latina credette di riscontrare nell’aristotelismo arabo: per Averroè infatti filosofia e religione occupano domini differenti e assolutamente conciliabili, ma nello stesso tempo le verità del filosofo non sono accessibili a tutti, poiché una è la religione del filosofo e una è la religione del volgo. Il credente si limita alla verità di fede, data dalla legge del Corano, il filosofo invece ricerca questa verità attraverso una dimostrazione logica e razionale: la verità è sempre una, cambia il metodo attraverso cui l’uomo si accosta ad essa.  Così come non c’è contrasto tra le due vie, così non c’è dualismo nella verità.
La dottrina più interessante di Averroè riguarda l’intelletto.  Per tutti gli altri filosofi arabi si è visto che l’intelletto agente è l’ultima emanazione dell’essere necessario ed è una sostanza separata da ogni materia e dalla stessa anima umana. L’uomo possiede quello che viene definito intelletto materiale o in potenza, e che viene identificato con l’anima razionale, e questo intelletto (chiamato ilico) viene messo in atto dall’intelletto agente, e, attraverso acquisizioni successive, diventa intelletto acquisito. Averroè rovescia questa teoria e afferma che l’intelletto materiale o ilico non è l’anima umana. Questa teoria deriva dal fatto che l’anima umana non è uguale in tutti gli individui e non sempre pensa e mai pensa allo stesso modo. Lo stesso intelletto acquisito o speculativo è uno in tutti gli uomini ed è separato dall’anima umana ma dall’anima umana può essere partecipato nelle forme dell’habitus, della dispositio e della preparatio, che mirano al perfezionamento dell’anima.
Solo l’intelletto materiale non è legato alle sorti del corpo ed è dunque incorruttibile. Averroè ritiene che la vera via di beatitudine concessa all’uomo sia proprio la scienza, che non muore mai. Questa via implica necessariamente un legame se non addirittura una identificazione dell’intelletto materiale con l’intelletto agente; all’uomo resterebbe il solo intelletto acquisito o speculativo, ma questo è legato al corpo e al sensibile e seguirebbe inevitabilmente la strada della corruzione. Averroè nega l’immortalità dell’anima e riscontra quale fine ultimo dell’uomo l’attività speculativa e la contemplazione del soprasensibile.
Abbiamo dunque visto che la dottrina della separazione dell’intelletto materiale dall’anima umana e la conseguente negazione dell’immortalità dell’anima allontana la speculazione averroista da quella dei predecessori e in particolare da Avicenna, ma, nello stesso tempo, Averroè condivide con Avicenna la dottrina della necessità dell’essere e della creazione. Questa posizione non esclude, anzi esige la creazione, ma la creazione non è un libero atto della volontà divina, quanto un atto necessariamente insito nell’essenza di Dio. Altrettanto dicasi relativamente alla volontà umana, necessariamente ricompresa nel determinismo dell’ordine cosmico.

L’AVERROISMO LATINO
Sigieri di Brabante

L’introduzione dell’aristotelismo nella Scolastica occidentale, fondato sui temi della speculazione averroista, ha come conseguenza principale la separazione degli ambiti territoriali di fede e ragione. La ragione è il dominio delle verità dimostrate, la fede è il dominio delle verità rivelate. Questa distinzione è caratteristica dell’aristotelismo scolastico. Con san Tommaso d’Aquino la speculazione aristotelica si spinge ancora più avanti e giunge alla dimostrazione dell’impossibilità di una qualsiasi forma di contrasto dei due ambiti. L’averroismo stretto non si poteva assolutamente conciliare con la Scolastica propriamente detta, poiché la filosofia intesa da Averroè era la vera religione del filosofo, una religione speculativa che non solo non era in contrasto con la verità rivelata, ma era addirittura in posizione di netta superiorità rispetto alla stessa verità rivelata. Questo tipo di verità aveva infatti per Averroè un carattere approssimativo e imperfetto. Nell’averroismo fede e ragione occupano posizioni inconciliabili e la vera felicità del filosofo è rappresentata dalla scienza e dalla vita speculativa. L’aristotelismo degli averroisti latini non si concilia dunque con l’aristotelismo tomistico ed è rappresentato da Sigieri di Brabante e da Boezio di Dacia.
La posizione più fedele all’aristotelismo averroistico in Sigieri si legge nella questione dell’inseparabilità di essenza ed esistenza anche nelle cose finite. Se si sopprimono gli uomini individuali viene a mancare la stessa natura umana, ossia le condizioni formali che permettono all’uomo di essere. Sigieri prosegue la strada dell’essere necessario, tipica dell’aristotelismo averroista, e allontana il principio della creazione operata da Dio. L’essere necessario è eterno ed è eterna l’anima intellettiva che è una e unica in tutti gli uomini ed è legata al corpo solo per una questione di concordia nell’operare.
L’altra importante dottrina di Sigieri è quella della doppia verità. Sigieri segue evidentemente in modo fedele l’interpretazione averroista dell’aristotelismo: ben sapendo di andare contro i principi della fede cristiana Sigieri sceglie spontaneamente le verità e il metodo speculativo della filosofia, assegnando alla fede e alla scienza domini differenti e inconciliabili; le verità della scienza o dimostrative sono per Sigieri le uniche verità che possono dare la felicità speculativa al filosofo.

LA FILOSOFIA EBRAICA

La filosofia ebraica ha le stesse caratteristiche strutturali della filosofia araba, è cioè una filosofia scolastica e ha avuto analoga influenza nella Scolastica latina. La caratteristica peculiare della filosofia giudaica fu il misticismo, rappresentato dalla Cabala. Della Cabala ebraica ci sono rimasti due trattati, il libro degli Splendori o Zohar e il libro della Creazione o Jezirah, più antico; si tratta di una raccolta di dottrine segrete che rimandano a una teoria emanatista vicina a quella dei Neopitagorici e dei Neoplatonici.  Dio è eterno ed illimitato ed è detto En Soph: come tale egli è la negazione stessa dell’essere determinato e dunque il Nulla eterno; il mondo stesso è stato creato dal Nulla e attraverso dei Numeri o Sephiroth, cioè le attribuzioni della divinità, enunciate in numero di dieci (corona, saggezza, intelligenza, grazia, giustizia, bellezza, trionfo, gloria, fondamento, regalità).  Dio è unità e la Sua azione si emana nel molteplice attraverso le dieci Sephiroth.
La filosofia ebraica ha come testimoni principali Avicebron e Maimonide, ma è anticipata da alcuni filosofi come Isacco e Saadja, che è il vero fondatore della Scolastica ebraica.

AVICEBRON

Salomone Ibn Gebirol, che la Scolastica latina conobbe come Avicebron (fu peraltro erroneamente ritenuto arabo) è uno dei più attenti interpreti di Aristotele del mondo ebraico: tutta quanta la sua speculazione muove dal concetto della composizione ilomorfica universale, tutto ciò che è è necessariamente composto di materia e forma. Tutte le materie e tutte le forme sono accomunate da Avicebron in una sola materia e una sola forma universali. Egli riduce a unità la materia e la forma delle cose sensibili, ritenendo che esista una materia universale comune a tutte le sostanze spirituali al pari di una sola forma universale che accomuna tutti gli esseri e che è praticamente composta dai nove accidenti aristotelici, di cui il primo è la sostanza, il sustinet (che “sostiene” le altre), ossia la materia universale. La materia e la forma hanno in comune il desiderio di unirsi l’una all’altra, e questa tendenza a unirsi è determinata da una sostanza spirituale, il verbum agens o verbo attivo: si tratta della volontà divina, essenza prima dell’essere di Dio. Tra l’Essenza prima e il suo verbo attivo Avicebron ammette diverse sostanze, aventi un ordine di successione gerarchica: la natura, le tre anime (vegetativa, sensitiva, razionale) e l’intelligenza. Queste sostanze perdono la loro perfezione allontanandosi gradualmente dall’essenza divina.

MAIMONIDE

Moshè ben Maimoun, detto Maimonide, è l’autore della famosa Guida dei Perplessi, dove cerca di conciliare la Bibbia e la filosofia, la fede e la ragione. La caratteristica distintiva della filosofia araba era sempre stata quella della necessità dell’essere, contro la tesi creazionista tipica della filosofia giudaica; Maimonide assume un carattere innovatore nella speculazione giudaica ponendo accanto alla dottrina creazionista il principio della necessità dell’essere e la possibilità di ragionare e spiegare i principi della fede. Il procedimento dimostrativo di Maimonide è applicato primariamente all’esistenza di Dio: sappiamo dai sensi che qualcosa esiste, e, posto che appunto qualcosa esista, questo qualcosa è sicuramente necessario rispetto alla sua causa e questa causa è l’Essere necessario.
Stabilita l’esistenza di Dio quale essere necessario Maimonide passa a dimostrare l’origine del mondo. Avicenna, convinto assertore dell’eternità del mondo, diceva che il mondo prima di essere creato era possibile, ma, proprio in quanto possibile, necessitava di una materia; nessuna materia poteva però esistere priva di forma, e allora si potrebbe dire che prima della creazione esistevano la materia e la forma del mondo, ossia il mondo nella sua totalità. Maimonide sposa invece la dottrina creazionista e ritiene assurdo risalire dall’atto alla potenzialità: il mondo è così perfetto poiché è stato creato con un libero atto della volontà divina. Malgrado Maimonide sostenga la tesi della necessità dell’essere, non può fare a meno di giustificare razionalmente la libertà dell’atto creativo di Dio, che sfugge a ogni legge di necessità. Come la teologia di Maimonide intende salvaguardare la libertà creatrice di Dio, così l’antropologia intende salvaguardare la libertà umana. 
L’anima razionale dell’uomo è l’intelletto ilico, potenziale, che risiede in ciascun individuo. Grazie all’intelletto attivo, che non si trova nei corpi ma ne è distaccato, l’intelletto ilico passa dalla potenza all’atto e viene messo in grado di cogliere le forme intelligibili. La novità di Maimonide è la necessità di trovare la disponibilità materiale perché si compia questo passaggio: perché l’intelletto ilico subisca l’influenza dell’intelletto attivo occorre che la volontà umana sia disposta ad accoglierlo e naturalmente a seconda del grado di preparazione della sua anima razionale. Maimonide restituisce dunque all’uomo la sua attività primale nel conoscere, ma lo rende anche libero, conciliando la libertà umana con la predeterminazione divina.
In conclusione è interessante rilevare il concetto di immortalità espresso da Maimonide: l’anima dell’uomo non è immortale in quanto umana ma in quanto parte dell’intelletto attivo e la misura dell’immortalità umana è data dal suo grado di partecipazione all’intelletto separato ossia dal suo grado di elevazione spirituale.