venerdì 1 luglio 2016

Scolastica

SCOLASTICA

Si chiama Scolastica la filosofia cristiana del Medioevo. Il nome deriva dal termine latino scholasticus, con cui solitamente veniva designato il docente di arti liberali (trivio e quadrivio), poi passato a designare più genericamente l’insegnante di filosofia e di teologia, cui spettava il titolo di magister. Il magister teneva le proprie lezioni nei chiostri dei conventi e poi negli studia universitari. Gli scopi della filosofia scolastica erano legati all’insegnamento, e si esprimevano negli strumenti della lectio e della disputatio; nella speculazione filosofica non si percorre più la strada della ricerca della verità, poiché la verità è già stata data nella Rivelazione, e dunque può essere soltanto compresa. La filosofia stessa ha un nuovo ruolo, quello di ancilla theologiae, e il problema che la caratterizza è il rapporto tra fede e ragione, argomento che caratterizza periodicamente la Scolastica. Essa si divide infatti in quattro periodi: il primo è la Prescolastica ed è caratterizzato dal problema dell’identità di fede e ragione; il secondo è l’Alta Scolastica, e  il problema è l’antitesi tra fede e ragione; il terzo periodo, tra il 1200 e il  1300, rappresenta la fioritura della Scolastica; e il quarto periodo (XIV secolo) determinerà l’insolubilità del problema. 
Molti sono però i temi secondari della Scolastica. Quella scolastica è innanzitutto una prospettiva circolare che parte da Dio quale Principio e a Lui inevitabilmente torna, fratturata però dal problema del peccato originale: in tal senso la storia dell’uomo è storia della salvezza umana. Abbiamo poi il problema della dimostrazione dell’esistenza di Dio, originata dalla necessità dell’uomo di reperire una unità di conoscenza; accanto a questo problema avremo il problema della creazione e, in terzo luogo, il problema spiccatamente postplatonico degli universali. Non ultimo è il problema dell’uomo, e della sua anima. I primi quattro secoli della Scolastica vanno dal VI al IX e culminano con la fondazione del Sacro Romano Impero, ad opera di Carlo Magno. L’età carolingia rappresenta una tappa decisiva non solo dal punto di vista storico ma anche da quello culturale: la rinascenza carolingia produsse un forte impulso  verso il recupero, la salvaguardia e la conservazione dei classici antichi. Uno dei maggiori protagonisti di questa tendenza (enciclopedismo) fu Severino Boezio.

BOEZIO

Anicio Manlio Severino Boezio fu un vero filosofo, che acuì il suo spirito conciliatore nel disegno di una Enciclopedia del mondo antico, ossia una raccolta ordinata del Sapere da utilizzare a scopo didattico, e al fine di salvaguardare l’integrità della tradizione: per Boezio la filosofia si esprime proprio nell’amore per la sapienza, e depositario di questo sapere era il mondo classico. Ma la sapienza a cui Boezio si ispira è anche teologica, perché – in senso strettamente agostiniano – è conoscenza di Dio.
Le radici culturali del pensiero di Boezio affondano nel Neoplatonismo e nella seconda Patristica: la sua speculazione è ispirata alla ricerca della Verità incarnata nell’unità del Principio Assoluto. Nella “Consolatio” Boezio delinea l’immagine di Dio quale Libero Creatore e Sommo Bene, non natura necessaria, ma bensì motivato dal Bene. Da Agostino Boezio mutua il concetto di male come limitazione del bene, limitazione inevitabile poiché le cose create da Dio, pur essendo bene, partecipano alla grandezza del Creatore in modo finito e limitato: nel male si nota allora l’opera consolatrice della filosofia, che mostra l’illusorietà del male e la reale bontà dell’uomo. Come Agostino anche Boezio vede Dio come Essere Provvidenziale, ma che concede all’uomo il libero arbitrio per discernere il bene dal male, pur conoscendo Lui Stesso le reali intenzioni di ogni individuo.
Uno degli argomenti logico-aristotelici che avvicinano Boezio ai Neoplatonici e a Porfirio, autore delle Isagoge alle Categorie, è la natura di generi e specie, se essi sono reali o dotati di sola realtà mentale: Boezio li ritiene concetti della mente e pertanto privi di realtà. Essi non sono però costruzioni arbitrarie della mente, poiché la mente li ricava dalla considerazione degli enti reali. In opposizione alla soluzione aristotelica di Boezio si pone la dottrina platonica di Scoto Eriugena.

SCOTO ERIUGENA

Scoto Eriugena è il primo originale pensatore scolastico. Tutta la realtà è per Scoto teofania, ossia “manifestazione di Dio” nella Natura, intendendo per natura il modo attraverso cui Dio si rivela a noi. Da Dio procedono tutte le cose e a Lui ritornano, in un processo discensivo/ascensivo, diviso in 4 fasi:

natura non creata e creante è Dio-Padre, Essere Sommo, indefinibile e Assoluto, principio e origine di tutte le cose;

natura creata e creante è il Logos divino, il Verbo, che procede da Dio e contiene le forme immutabili delle cose (le idee) espresse attraverso la creazione delle cose esistenti;

natura creata e non creante è l’insieme di tutte le cose naturali, create in base alle forme perfette del Logos;

natura non creata e non creante è Dio, inizio e fine di ogni cosa.

La posizione di Scoto è evidentemente neoplatonica, considerando Dio quale Uno, e neoplatonicamente, fede e ragione provengono dalla stessa fonte, e perciò non possono contraddirsi (identità). Secondo Scoto la verità è indubbiamente data nella Rivelazione, ma l’uomo è per volontà di Dio un essere razionale e la Chiesa non può impedirgli o condizionargli alcuna indagine razionale.

IL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI

Tra le opere più studiate di questo periodo c’è l’Organon di Aristotele, curato nel commento da Boezio. Il concetto di universale era uno dei punti più importanti della logica aristotelica, e traeva spunto dal concetto platonico di idea. Universale è l’opposto di particolare e rappresentava nella filosofia platonica l’unità perfetta che si moltiplicava, degradandosi, nel divenire della materia. In natura avremo un albero, un uomo, un animale, relativi ai loro rispettivi universali di albero, uomo, animale.  La domanda a cui cerca di rispondere la scolastica è: che valore hanno gli universali e qual è il loro rapporto con la realtà oggettiva? Alla domanda vengono date 4 risposte:

Realismo trascendente – gli universali esistono in quanto essenze reali a cui le cose partecipano. Essi sono preesistenti e vengono prima di tutte le cose nella mente di Dio, che li ha poi immessi nella realtà attraverso la creazione (secondo l’influsso platonico-agostiniano);

Realismo immanente – gli universali sono nelle cose presenti come forme o sostanze nelle cose stesse e perciò dotati di realtà oggettiva (secondo l’influsso aristotelico);

Concettualismo – gli universali non esistono se non come astrazioni e pertanto non sono essenze reali: essi hanno indubbiamente un valore logico, ma hanno appunto solo valore mentale pur non mancando della caratteristica universale (secondo l’influsso socratico);

Nominalismo – gli universali non esistono, essi sono solo dei semplici nomi che usiamo per comodità; in realtà tutto quello che conosciamo sensibilmente ha caratteristiche di particolarità, e l’uomo non arriverà mai a cogliere la realtà della cosa in sé (secondo l’influsso stoico e scettico).

Queste quattro risposte daranno luogo a una matura svolta razionalistica nel campo della filosofia teologica medievale,  ma in campo religioso le tesi nominaliste porteranno alla formulazione di dottrine eretiche, neganti la Trinità o la trasustanzazione dell’Eucarestia (il Verbo che si fa Carne).

S. ANSELMO D’AOSTA

Anselmo cerca una visione unitaria del problema degli universali, e per questo non considera le soluzioni al problema una per una, ma le contempla in una prospettiva globale, poiché prese singolarmente danno una visione limitata della questione (ovviamente Anselmo non considera la quarta tesi, che nega validità agli universali). 
Per Anselmo gli universali sono ante rem nella mente di Dio, quali forme archetipe su cui si è basato il sublime disegno della creazione; in re, presenti e operanti, nelle cose create di cui sono essenze; post rem  nella mente umana quando astrae i concetti dalla realtà. Quella anselmiana è evidentemente una conciliazione, in cui gli universali assumono significato in relazione all’ente a cui vengono riferiti; si ha dunque una posizione preminente che è quella divina, una immanente nelle cose create da Dio, e una conseguente, relativa all’uomo che conosce e deve astrarre. Anselmo attribuisce quindi alla ragione una funzione fondamentale. La fede è anteriore ai poteri della ragione, ma credendo si aiuta la comprensione della verità: questo implica uno stretto legame tra fede e ragione, in cui la ragione ci aiuta a comprendere meglio ciò in cui crediamo, e la fede ci aiuta a capire la verità. Il motto di Anselmo è l’agostiniano “credo ut intelligam” che pone le basi per una giustificazione razionale della fede.
Questo principio viene adottato da Anselmo riguardo la dimostrazione dell’esistenza di Dio, per cui il filosofo distingue  due procedimenti, uno a priori e uno a posteriori.

argomento a posteriori – partendo dalla natura, l’uomo si renderà conto che le cose materiali, pur create da Dio, sono finite e limitate e necessitano perciò di un principio primo a cui fare riferimento, e di questa somma perfezione, le cose della natura appunto partecipano;

argomento a priori (detto anche prova ontologica) -  partendo dal concetto di Dio come Essere Perfettissimo l’uomo lo pensa come superiore e al di sopra di Lui non vi è nulla di più alto; anche l’ateo, negando Dio, sta parlando di Lui, e non si potrebbe parlare, neanche negativamente, di qualcuno che non è. Ma pensare Dio come esistente implica pensarLo come fuori dal pensiero, perché il pensiero umano è limitato e impossibilitato a cogliere qualcosa di così grande e infinito: in tal caso Dio è non esistente per il pensiero fisico, e di conseguenza sarebbe assurdo pensarlo come reale e oggettivo. Si può dunque pensare Dio come essere superfisico e irraggiungibile fisicamente.

Relativamente a questa tesi il monaco Gaunilone (Wenilo di Marmontier) nel Liber pro Insipiente obietta ad Anselmo che pensare Dio è come pensare  a un’isola di perfezione in un oceano di imperfezione, e non significa che questa isola è irraggiungibile. Così una cosa sarà pensare Dio esistente, un’altra sarà pensare la Sua reale esistenza.  Ma Anselmo replica a Gaunilone  nel Liber Apologeticus che questa prova vale solo per la perfezione di Dio e  che pertanto ha valore in relazione alla classe di entità considerata, essendo l’uomo imperfetto tutto viene riferito a questo standard. L’uomo nella sua limitata imperfezione non potrà mai cogliere appieno Dio.

DIALETTICI E ANTIDIALETTICI
Abelardo e San Bernardo

Questo duplice aspetto della filosofia cristiana medioevale, divisa tra la necessità di un supporto razionale e la rigorosità della fede, provoca il diffondersi di vari indirizzi speculativi in merito alla disputa sugli universali, di cui possiamo ravvisare due tendenze principali, quella razionalistica di Abelardo e quella mistica di San Bernardo.
Abelardo di Nantes sosteneva che le verità della fede devono trovare sicura conferma nelle dimostrazioni logiche della ragione. Secondo Abelardo la ragione ha dei poteri suoi e non può sottostare a nessuna autorità: è difficile non credere a quello che la ragione dimostra logicamente. Anche per i misteri bisogna trovare una giustificazione logica. Abelardo offre al lettore diverse prospettive e soluzioni allo scopo di favorire l’indagine razionale, ma indebolendo il ruolo della Chiesa e dei suoi dogmi, pilastri della sua dottrina. Sul problema degli universali egli individua una prospettiva concettualistica, in cui afferma che l’unica realtà è quella individuale, ma assegna all’individuo la capacità di astrarre e perciò di utilizzare gli universali concedendo loro almeno una realtà mentale. Sul piano morale Abelardo propende per un deciso volontarismo, ammettendo che tra i figli di Adamo non vi è propensione al peccato. La tesi abelardiana però riportava la Chiesa al pericolo di una reviviscenza delle tesi pelagiane e per questo si sviluppa per reazione una corrente antidialettica.
Bernardo è il fondatore dell’ordine benedettino dei Cistercensi e uno dei promotori della seconda crociata. A differenza di Abelardo Bernardo propugna l’umiltà della fede dinanzi alla grandezza di Dio e la sottomissione della ragione alla fede stessa.  L’unica conoscenza data all’uomo è la conoscenza mistica, che culmina nell’estasi, attraverso cui la ragione umana si abbandona alla mente di Dio e ne viene illuminata. Accanto a quella di Bernardo vi è una mistica moderata che è rappresentata dai monaci dall’abbazia di San Vittore, presso Parigi, e perciò detti Vittorini, di cui ricordiamo Ugo, Goffredo e Riccardo. Anche  i Vittorini riconoscevano la supremazia della fede, ma nel contempo consideravano nell’uomo tre forme distinte di conoscenza, la cogitatio o conoscenza della realtà sensibile, la meditatio o conoscenza della realtà razionale, e la contemplatio che conduce all’estasi mistica.

LA FILOSOFIA ARABA ED EBRAICA

Uno degli aspetti più importanti  del periodo di fioritura della Scolastica (sec. XIII) è l’incontro col pensiero aristotelico, espresso soprattutto nell’interpretazione dei filosofi arabi che erano in contatto già da tempo con i massimi centri di diffusione del pensiero classico. Scopo degli intellettuali arabi era quello di accordare il pensiero aristotelico con l’ortodossia coranica, con cui esistevano evidenti dissonanze. Anche nel mondo arabo si ripropongono seppur in modo diverso gli stessi temi della Scolastica europea come il rapporto fede-ragione, il problema dell’immortalità dell’anima individuale proposto da Aristotele, il problema del rapporto tra il Motore Immobile aristotelico e il Dio Creatore oltre al problema della provvidenzialità divina. Il primo commentatore arabo di Aristotele è Ibn Sina, detto dagli scolastici latini Avicenna. Avicenna interpreta Aristotele in modo molto libero, quasi neoplatonico; egli insiste sul carattere di necessità dell’essere e del mondo, concetto caratteristico della filosofia araba, e individua la necessaria esistenza di Dio. Contrariamente ad Aristotele, Avicenna ammette l’immortalità dell’anima e ritiene che l’intelletto attivo sia l’ultima delle intelligenze separate emananti da Dio. La sua posizione si conciliava con le tesi scolastiche e cristiane. Più celebre di Avicenna è Ibn Roschd, detto Averroè, filosofo e medico. Averroè è il commentatore più attento di Aristotele, e autore della dottrina della doppia verità. Secondo Averroè vi è una verità secondo la fede e una verità secondo ragione, che rispondono a due compiti diversi e non sono necessariamente contrastanti. I riti e le tradizioni offrono alle masse incolte lo strumento del simbolo a cui credere, ma la vera verità è riservata alle anime pure e agli spiriti eletti, che sanno andare oltre il simbolo e scoprono i veri principi della filosofia.
Questo doppio canale consentiva ad Averroè di staccarsi dal problema del dogma e di interpretare obiettivamente il pensiero aristotelico. Il mondo, nato necessariamente dalla necessità di Dio, è eterno ed eterna è la materia; Dio non ha un ruolo provvidenziale nelle vicende umane. L’anima individuale è mortale e perisce con il corpo: l’unico elemento immortale è l’intelletto, unico per tutti, che è lo strumento con cui Dio permette all’uomo di conoscere, tenendo presente che l’anima è predisposta ad acquisire le nozioni determinate dall’Intelletto.
La Scolastica araba non poteva non influenzare i vicini popoli orientali, e in particolare gli Ebrei, con cui gli Arabi entrarono in contatto anche in Spagna. Ibn Gabirol, detto Avicebron, disegna una cosmologia  con al vertice un Altissimo, estraneo al mondo, da cui procedono per gradi esseri ilomorfi posti in essere da una Volontà diffusa nel mondo materiale su più piani e affida all’uomo la volontà di risalire fino all’intuizione della Volontà creatrice. Moshè ben Maimoun, detto Maimonide, è il maggiore dei filosofi giudaici, autore della Guida degli Incerti, in cui cerca di conciliare Aristotele col testo biblico; Maimonide a differenza di Avicebron sviluppa una cosmologia fondata non sull’Uno, ma su una Libera Creazione di Dio, pur affermando l’impossibilità dell’uomo di cogliere il modus operandi divino (teologia negativa).

L’APOGEO DELLA SCOLASTICA

Il periodo di maggior splendore della Scolastica segna anche il passo per le vecchie scholae di ispirazione conventuale e trasferisce gli studia nelle nascenti Università. Prima di essere riconosciute dalle autorità ecclesiastiche e civili, le Universitates costituiscono vere e proprie corporazioni, con statuti propri, poi finiti sotto l’egida di Impero e Papato. La novità riguarda l’organizzazione degli studia in facoltà, e soprattutto il ruolo fondamentale che assume l’insegnamento della Teologia. La stessa Chiesa viene rinvigorita dall’opera pontificale di Innocenzo III e nascono vari ordini religiosi, in primis i cosiddetti ordini mendicanti, francescano e domenicano. Uno degli ostacoli primi a cadere è il tradizionale veto della Chiesa nei confronti del pensiero aristotelico, che troverà massima espressione nel sistema tomistico. Ma prima di Tommaso d’Aquino, il maggior fautore della cristianizzazione di Aristotele è Alberto Magno.
 Riprendendo la dottrina della doppia verità egli attribuisce due prospettive diverse alla ricerca teologica e a quella filosofica,  ammettendo che la prima si serve di principi di fede, la seconda si serve della ragione.  Alberto non esclude però la primalità della Rivelazione sulla ragione, e separa le creature finite da Dio, essere infinito, affermando la creazione nel tempo. Egli ammette inoltre l’immortalità dell’anima, che definisce forma sostanziale.

SAN TOMMASO D’AQUINO

Tommaso d’Aquino, discepolo e amico di Alberto Magno, detto poi “Dottore Angelico”, è la figura di maggior rilievo della filosofia medioevale.  Domenicano come il maestro, ne proseguì l’opera, giungendo a una particolare sintesi  del pensiero cristiano e di quello aristotelico: la sua sintesi assurgerà con l’enciclica di Leone XIII Aeterni Patris (1879) al rango di dottrina ufficiale della Chiesa.
 
FEDE E RAGIONE - Innanzitutto Tommaso è decisamente contrario alla tesi della doppia verità: la verità è infatti una e uno è il sapere, quindi ogni contrasto tra fede e ragione è praticamente inconcepibile.  La stessa ragione è una creazione divina ed è stata concessa all’uomo da Dio, perché egli possa accedere alla verità; ma le facoltà umane sono limitate e la ragione riesce a operare in accordo con la fede solo sul piano strettamente fisico, mentre sul piano soprannaturale è indubbia la primalità della fede, poiché la ragione non può arrivarci. Tommaso esclude quindi qualsiasi contrasto tra filosofia e teologia, poiché la filosofia è consapevole dei limiti della ragione umana e si adegua  al suo ruolo secondario, tracciando la strada alla fede stessa. Questa funzione preparatoria è ben rappresentata nel mondo antico dalla filosofia aristotelica che palesa la perfezione raggiunta dalla  ragione umana, prima che l’avvento del Cristo rivelasse agli uomini la verità: da quel momento infatti la filosofia è stata costretta in una posizione subordinata rispetto alla teologia, ma con un ruolo non meno importante, quello di fissare le premessa della fede, chiarire e non dimostrare i suoi misteri in base ad analogie attinte  dall’esperienza sensibile, e confutare sul piano logico le tesi degli avversari, quale “ancilla theologiae”.

GNOSEOLOGIA - Il limite entro cui opera la ragione è l’esperienza sensibile che Tommaso rivaluta in senso aristotelico. “Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu” dice Tommaso: la conoscenza inizia sempre con la sensazione, che ci pone in contatto con le cose, (questo cancella la dottrina innatista post platonica) fornendocene una rappresentazione. Se dico di vedere un albero, questo albero è in me non come materia ma come realtà visiva ossia specie sensibile. I dati della rappresentazione sono conservati nella fantasia che produce una rappresentazione o fantasma dell’immagine che ha in sé, in potenza, la forma di questa immagine ossia la specie intelligibile. L’intelletto coglie dunque il concetto dell’immagine cioè la specie intelligibile che ne è essenza. L’albero che era prima nei miei sensi come rappresentazione visiva, è ora nel mio intelletto (passivo, poiché dotato di prerogative ordinatrici e non creatrici delle rappresentazioni fenomeniche) come forma razionale. Oltre all’intelletto passivo la filosofia tomista tiene conto anche dell’intelletto attivo e della sua capacità di astrarre la specie intelligibile, passando dalla potenza all’atto: questo tipo di intelletto disindividualizza e universalizza l’immagine, ora considerata in sé (l’albero in sé) e quindi separata dal mondo materiale e avente forma ideale.
La verità per Tommaso è adeguamento di intelletto e cosa: si conosce quando rappresentazione mentale e forma reale coincidono. L’errore non è indotto dalla rappresentazione sensibile ma dal giudizio che ne dà l’intelletto. Appare logico che la conoscenza si ha solo mediante esperienza e perciò ogni conoscenza sovrasensibile è ovviamente preclusa all’intelletto stesso, ed è, nel caso dei misteri cristiani, dominio incontrastato della fede. Ci sono però dei casi in cui certi problemi, pur essendo dominio incontrastato della fede, sono accessibili all’intelletto, ed è il caso delle prove dell’esistenza di Dio, in cui Tommaso respinge il procedimento a priori di Anselmo per adottare un metodo che parte a posteriori dalla natura, operando mediante cinque vie.

il movimento – tutto si muove ed ogni cosa mossa presuppone un agente di movimento; come Aristotele, Tommaso ritiene che sia impossibile andare all’infinito e ammette perciò un motore immobile, che è appunto Dio, principio primo di ogni movimento;

la causalità – ogni effetto rimanda a una causa, ma anche qui, non potendo procedere all’infinito, Tommaso rinvia a una causa prima, cioè Dio;

la contingenza – tutte le cose del mondo sono contingenti e soggette al divenire del processo nascita/morte, perciò non potrebbero essersi create da sole, ma rimandano all’azione creatrice e necessaria di un principio che non solo è ma che non può non essere, ossia Dio;

la perfezione – tutte le cose hanno diversi gradi e ci sono cose più o meno perfette, il che implica la presenza di un Essere Perfettissimo che comprenda in sé tutte le cose, cioè Dio;

la provvidenza e l’ordine del mondo – tutto il mondo è regolato come un disegno armonico e geometrico, e ciò implica un ruolo sommo di ordinatore   e provvidente, cioè Dio.

La ragione non può andare oltre: solo queste cinque vie, desunte dall’esperienza sensibile, le sono concesse per rendersi conto della presenza necessaria di Dio; al di là c’è solo la fede.

LA METAFISICA - Le essenze universali delle cose sono in Dio, che nell’atto della creazione ha operato il passaggio dalla potenza all’atto delle cose del mondo: in tal senso Tommaso si ispira al sinolo aristotelico di materia e forma, Per comprendere la diversità delle cose dovremo ricercare nella materia l’elemento differenziante, ma non nella materia indifferenziata, bensì nella materia signata, cioè quella quantità di materia aggregatasi per costituire una cosa in base a una forma universale: con la creazione l’essenza si fa esistenza e la potenza si fa atto. Gli universali possono essere colti dunque solo in re, solo nelle cose, poiché sono ante rem nella mente creatrice divina, ovviamente inaccessibile all’uomo, e sono colti post rem dall’intelletto. Le cose create e Dio sono in un rapporto di analogia, ossia sono simili ma non uguali: infatti le cose create sono esistenti e perciò posteriori, mentre le forme universali e le essenze hanno un valore aprioristico oltrechè necessario. Tommaso opera qui il superamento di Aristotele che non considerava la dottrina creazionista e concepiva dunque la sola necessità dell’essere.

LA PSICOLOGIA - L’uomo è un’entità composta di anima e di corpo. Oltre all’anima vegetativa e a quella sensitiva vi è una terza anima, quella spirituale, ovviamente estranea al corpo. L’anima spirituale è forma separata. Dio ha creato una gerarchia di esseri, in cui opera una differenza graduale, ma oltre l’uomo ci sono delle forme pure, separate dai corpi e costituite dall’anima spirituale. A ogni corpo è destinata un’anima spirituale che è immortale e sopravvive al corpo: con la morte l’anima sarà privata del corpo, a cui si ricongiungerà il Giorno del Giudizio Universale. E’ interessante notare come Tommaso attribuisca all’anima la responsabilità della conduzione del corpo affidatole, in base alla quale sarà giudicata alla fine dei giorni.

L’ETICA E LO STATO - Tommaso cerca di difendere il principio della libertà umana e affida all’intelletto il compito di guidare responsabilmente ogni azione dell’uomo: quello tomista è difatti un intellettualismo etico e non un determinismo. Tutte le azioni dell’uomo sono soggette al libero arbitrio, concesso da Dio per responsabilizzare l’uomo offrendogli un discrimine tra bene e male. La volontà ha un sicuro criterio per discernere il bene dal male, ossia la legge naturale che riflette la legge eterna di Dio: all’uomo basta dunque fare riferimento alla sinderesi dei principi naturali per garantirsi la guida sicura della virtù. Ma l’uomo che voglia altresì elevarsi sopra la natura dovrà operare secondo le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, che sono alla base di ogni azione del buon cristiano, e che consentono all’uomo di elevarsi per godere della beatitudine divina. Riguardo la dottrina dello Stato, Tommaso riprende il pensiero aristotelico, osservando la naturalità dell’essere politico dell’uomo, e la necessità di associarsi per seguire un comune cammino virtuoso; con Aristotele Tommaso concorda nell’affermare che non vi è una forma perfetta di governo, e che il vero buon governo è quello che produce il benessere della comunità; ma la forma migliore è sicuramente la monarchia, che accentra il potere nelle mani di una sola persona così come solo Dio governa il mondo. Se lo Stato assicura all’uomo la felicità terrena, la Chiesa garantisce la felicità celeste: Stato e Chiesa non devono quindi contrastarsi ma integrare i propri compiti. Tommaso attribuisce alla Chiesa la primalità sul mondo e di conseguenza su tutti i sovrani, avendo un compito spiritualmente superiore.

SAN BONAVENTURA

Accanto alla corrente razionalistico-aristotelica, la Scolastica comprende poco prima della sua decadenza una corrente mistico-francescana. A differenza dall’impostazione logico-dialettica tipica degli aristotelici, i mistici francescani fondavano il loro pensiero su tematiche agostiniane e post platoniche, in cui il tema principale era la fede e la trascendenza delle cose materiali. Il principale protagonista di questa tendenza speculativa è Giovanni da Bagnorea, sacerdote e poi vescovo di Albano, che aveva assunto il nome di Bonaventura, e che è conosciuto come Doctor Mirabilis.
Bonaventura non ammette intanto l’autonomia della ragione umana: senza il lumen directivum dell’illuminazione non si può conoscere Dio. La ragione sbaglia in conseguenza del suo allontanamento dalla luce divina, prodotto dal peccato originale, e questo spiega i fraintendimenti che il pensiero classico ha generato, primo fra tutti Aristotele. Cristo solo è maestro di conoscenza poiché Egli è la verità.
La conoscenza è per Bonaventura un processo ascensivo e graduale. L’uomo inizia la sua conoscenza dagli esseri della natura (conoscenza sensibile) e attraverso i sensi si rende conto delle vestigia ideali del creatore della natura; poi si ripiega in sé stesso e riflette su ciò che c’è al di sopra di lui (conoscenza razionale) scorgendovi l’immagine di Dio; infine cerca di assimilarsi a Dio mediante la preghiera e l’estasi, che portano l’anima a identificarsi con Dio. La verità è tutta racchiusa in questo itinerario che l’anima percorre per ricongiungersi a Dio. 
A differenza dagli aristotelici Bonaventura ritiene che tutte le cose create abbiano una dualità di materia e di forma e che tutte le cose abbiano una materia loro propria, angeli compresi; anche l’anima ha una sua materia, incorruttibile e perfetta, che si conserva anche dopo la morte. Un ulteriore contrasto si ha riguardo le prove dell’esistenza di Dio, dove Bonaventura riprende la prova anselmiana dell’apriori e dell’arazionalità della fede. In campo morale egli si attiene alla dottrina volontaristica già portata avanti da Agostino: l’azione dell’uomo è libera e volontaria ma illuminata dalla fede e dalla grazia, che guidano l’uomo verso il bene.

LA SCUOLA DI OXFORD
Bacone, Grossatesta, Duns Scoto

La scomparsa di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura coincide con la crisi, agli inizi del sec. XIV, dell’Impero e del Papato. La crisi, che condurrà all’inevitabile sorgere di nuovi orientamenti politici e sociali, determina anche l’inizio del processo di rinnovamento della filosofia, col tramonto della Scolastica, e il riappropriarsi da parte della filosofia di un terreno speculativo autonomo. Espressione più alta di questo periodo è la cosiddetta Scuola di Oxford, in cui si pongono le basi per quello studio scientifico della natura (sperimentalismo) che caratterizzerà la filosofia moderna.
Ruggero Bacone è, con Roberto Grossatesta, uno dei maggiori esponenti della Scuola di Oxford. Egli approfondisce il problema del conoscere umano, assegnando molta importanza al dato sperimentale, che deve essere rielaborato dalla ragione. Bacone distingue due tipi di esperienza, quella interna o mistica, e quella esterna o sensoriale: la prima è virtualmente concessa a pochi, poiché culmina con l’estasi; mentre la seconda fornisce la materia per la conoscenza scientifica. La scienza deve essere completamente autonoma dalla religione, poiché il suo campo è completamente distinto da essa. Roberto Grossatesta non ha un grosso rilievo speculativo, ma ha il merito di introdurre attraverso la “metafisica della luce” lo studio dell’ottica nella fisica e l’applicazione dei concetti geometrici allo studio della natura.

Giovanni Duns Scoto, anche noto come Doctor Subtilis, è il maggiore antagonista al pensiero di Tommaso. Inizia con lui la grande frattura tra fede e ragione, che  caratterizzerà il periodo successivo.
Innanzi tutto per Duns Scoto ogni disciplina è scienza quando deve essere  dimostrata ed è pratica se è impossibile ogni dimostrazione. Va da sé che il campo pratico è assai più vasto del teorico, e la stessa teologia, per il suo carattere di irrazionalità, appartiene al campo pratico. Il campo pratico si basa sulla volontà, e la fede stessa è volontà e libera scelta: Dio incarna questa libertà di scelta essendo Egli stesso Creatore dunque Volontà libera e assoluta. Scoto esclude il carattere di necessità, considerandolo limitante: la creazione operata da Dio appartiene a un atto di libertà e la stessa fede implica una scelta da parte dell’uomo; beninteso all’uomo è dato sapere che seguire la Legge della Volontà Divina rappresenta la scelta unica per vivere una vita morale piena e appagante alla luce della fede, poiché Dio ricambierà la fede dell’uomo con il dono della Grazia. Questo atto di libera volontà porta Scoto a negare ogni importanza all’universale, accentuando l’importanza dell’individuo: 

né la materia signata né la forma o idea sono sufficienti per l’individuazione, la prima perché la materia è in sé e sempre indeterminata, la seconda perché è un elemento comune e generico.
Ogni cosa si differenzia dalle altre per un elemento chiamato haecceitas, dall’avverbio latino haecce, che indica la cosa singola: la haecceitas è un principio singolare, individuante e irripetibile, che fa di una cosa “questa cosa”. Per Scoto l’universale è dunque un atto mentale con cui si attribuisce la stessa essenza, o quidditas, a più individui simili: in tal modo si ammette l’universale solo in un senso puramente logico (concettualismo).

GUGLIELMO DI OCCAM

Occam è l’ultima grande figura della Scolastica: allievo di Duns Scoto, ne sviluppa e ne esaspera il pensiero, interpretandone i temi in senso mistico e sensistico. Pur ammettendo la volontà fideistica, Occam rifiuta ogni altro tipo di conoscenza che non derivi dai sensi, introducendo così le tendenze della speculazione moderna. La forma perfetta del sapere si basa infatti per Occam sulla conoscenza intuitiva della realtà sensibile, che ci dice esattamente se una cosa c’è o non c’è, e solo questi dati costituiscono la realtà sperimentabile. Accanto a questa conoscenza intuitiva perfetta, Occam ne pone una imperfetta che è quella della memoria, che ci consente di rievocare le esperienze sensibili passate. Dalla conoscenza intuitiva deriva la possibilità di astrazione delle caratteristiche di un oggetto o di un fenomeno, azione che però non ci può dire se questo oggetto esiste o no.
Con questo sistema cade la polemica sui generi e le specie universali, caratteristica della filosofia scolastica, e nasce il nominalismo, secondo cui si indicano gli oggetti aventi analoghe caratteristiche con dei nomi per una questione di comodità pratica. La realtà è una molteplicità di individui nè unificati né retti da un ordine di essenze. Questa posizione nettamente empirica conduce Occam a un netto ripudio del tipico problema scolastico dell’accordo tra fede e ragione.
Gli articoli di fede diventeranno infatti comprensibili razionalmente all’uomo solo dopo la morte, quando potrà entrare in contatto con Dio; durante la vita l’uomo può solo scotianamente aderire per libera volontà ai principi della fede, ma solo per sua scelta, e mai verranno pienamente compresi: è dunque tempo che la filosofia si renda indipendente dalla teologia per dedicarsi compiutamente allo studio della natura.  Inizia qui la filosofia moderna.