venerdì 17 marzo 2017

Periodo antropologico


PERIODO ANTROPOLOGICO

LA SOFISTICA

La fisica democritea è l’ultima espressione del periodo cosmologico della filosofia antica. Due sono le prospettive individuate: monismo e pluralismo. Appartengono alla prospettiva monistica le filosofie ionica, pitagorica ed eleatica; appartengono alla prospettiva pluralista le filosofie omonime e atomistica. Il problema affrontato si sposta dal principio unico al molteplice, e va differenziandosi il ruolo del filosofo. Concluse le guerre persiane, dopo le vittorie di Platea e Micale, e la costituzione della lega delio-attica, la vita ateniese risorge sotto Pericle, e nasce un nuovo ceto medio-borghese che arriva a trasformare Atene politicamente e culturalmente. In ambito strettamente filosofico il nuovo problema riguarda la scoperta dell’uomo, un problema che è in sintonìa coi tempi e soppianta la ricerca del principio.
La filosofia del V secolo e dell’età periclea è la Sofistica. Per capire cosa rappresentò politicamente e culturalmente la Sofistica basta il nome del periodo filosofico che la Sofistica inaugura, periodo antropologico, studio dell’uomo. Pur essendo nota negativamente per i contenuti che vedremo tra poco, la Sofistica rappresenta nell’Illuminismo ellenico la vera riscoperta dell’uomo, delle sue potenzialità come dei suoi limiti.
Chi furono i sofisti? La Sofistica fu una scuola filosofica ma anche una scuola di formazione politica. Nell’Atene periclea e democratica tutti i cittadini avevano il sacro dovere di prendere parte alla vita politica, e le famiglie ateniesi benestanti cercavano di lanciare i propri rampolli nella amministrazione della cosa pubblica. I Sofisti si imposero subito con i loro corsi, a pagamento, di formazione nel difficile e arduo settore della retorica e della disputa (eristica) e ben presto il termine di “sofista” fu usato per indicare (e quasi sempre in senso negativo) chi, allievo dell’omonima scuola, usava l’arte della parola per difendere a ogni costo le proprie posizioni. Non già dunque il sophos o sapiente ma il suo esatto contrario, un mistificatore, per necessità, della realtà.
Sarebbe però riduttivo limitare il significato della Sofistica al solo aspetto didattico o a quelle, rilevato da Socrate, della mercificazione culturale. Ci fu infatti una prima sofistica, le cui posizioni contribuirono al rilancio di quel ruolo attivo dell’uomo di cui abbiamo già parlato. Di questa prima Sofistica si individuano due tendenze speculative: quella positiva di Protagora e quella negativa di Gorgia. Entrambe mettono in primo piano il ruolo attivo del filosofo e dell’uomo, misura di tutte le cose; ma mentre in Protagora ciò rappresenta la quasi onnipotenza dell’uomo, in Gorgia ne vengono evidenziati i limiti.
Protagora assume come massima della sua speculazione la frase “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono”. Malgrado Protagora ben sappia che il limite dell’uomo sia la conoscenza esclusivamente fondata su input di natura sensibile, non esita a porre l’uomo quale metro di conoscenza in quanto tramite con la realtà conoscibile. Ciò che vedo è vero poiché io, uomo, lo colgo con la mia percezione: quasi una sorta di onnipotenza, minata dall’inevitabile handicap di una conoscenza basata sui sensi. La frequentazione degli atomisti portò Protagora a insistere molto sul problema della conoscenza sensibile e sugli errori che si porta dietro: come Democrito, anche il filosofo di Abdera ritiene che la gnoseologia fondata sui sensi sia fuorviante poiché inevitabilmente basata su opinioni relative; se io entro in un ambiente mediamente riscaldato e fuori c’è una temperatura polare, l’ambiente mi apparirà caldissimo rispetto a un mio simile che invece ha trascorso tutto il giorno in quello stesso ambiente; se uso sempre un edulcorante sintetico e un giorno assaggiassi una bevanda mediamente zuccherata, questa bevanda mi sembrerà troppo dolce e nauseante rispetto a chi normalmente fa uso di zucchero; e così via.
Ma è proprio in questa singolarità, in questa relatività, che si scopre il valore delle opinioni umane: una asserzione è vera in quanto io comunico una sensazione (relativa e opinabile ma personale e non smentibile) provata da me. Non possiamo stabilire una verità assoluta, solo il più forte stabilirà chi ha ragione. Su questo presupposto si basa l’arte sofistica per eccellenza, l’eristica, ossia l’arte della disputa. Siccome tutto è vero, poiché l’uomo è, non posso stabilire un criterio di assolutezza della verità e posso solo affidarmi alla mia abilità dialettica per smontare le opinioni del mio avversario. Ma in tutto ciò non mancano gli aspetti negativi. L’eristica valse la brutta fama ai Sofisti (e l’attuale significato di “sofisticare” nel senso di trasformare qualcosa per scopi non ortodossi) proprio perché l’arte della disputa dialettica insegnava agli allievi sofisti a difendere con ogni mezzo, lecito o illecito, qualsiasi asserzione, anche se evidentemente fasulla. Uno dei contenuti più esecrati dai contemporanei di Protagora fu l’agnosticismo religioso: infatti il limite dell’uomo è la sensibilità e conseguentemente né l’uomo potrà mai dire di conoscere gli dei, né potrà mai negarne assolutamente la loro esistenza. La speculazione di Protagora assume dunque il senso positivo del ruolo attivo del filosofo: l’uomo è misura di tutte le cose e tutto ciò che l’uomo specula è vero in quanto proprio dell’uomo e il vero si dimostra con lo strumento dell’abilità dialettica.
Gorgia di Lentini rappresenta per contro il contraltare negativo della speculazione sofista. L’uomo è misura di tutte le cose, ma nella speculazione di Gorgia il ruolo attivo del filosofo non assume più il carattere positivo della filosofia di Protagora: per  Gorgia tutto è falso. Il relativismo parmenideo è usato da Gorgia per dimostrare che nella realtà sensibile nulla vi è di vero. Se ammettiamo il non essere lo dovremmo pensare come esistente; ne conseguirà la non esistenza dell’essere. Parmenide identificò l’essere col pensiero, dunque pensare un qualcosa di non esistente sarebbe un assurdo: non si può pensare un oggetto inesistente, considerato che l’uomo vive in una realtà sensibile. Se l’essere è reale è eterno e generato, ma se è eterno non è qui e se è generato sarebbe preceduto dal non essere (necessariamente, perché prima dell’essere ci dovrebbe essere un inizio) e allora il  non essere diventa automaticamente reale.
Già di per sé questo basterebbe a spiegarci perché l’essere non è; ma se l’essere fosse, l’uomo non potrebbe comunque conoscerlo. Ciò che l’uomo vedrebbe dell’essere è l’apparenza fenomenica, la realtà molteplice e illusoria delle cose, e non l’essenza delle cose. E, se anche miracolosamente l’uomo potesse vantare siffatte prerogative, non potrebbe comunicare l’essere, poiché userebbe la parola, filtro fuorviante e fallace; e del resto ogni uomo – misura di tutte le cose – avrebbe il diritto di interpretarne i contenuti secondo le proprie inclinazioni. L’essere non è, se è non è conoscibile, se è conoscibile è incomunicabile.
Il nichilismo di Gorgia investe ogni aspetto della vita e conduce a un atteggiamento scettico in cui l’eristica assume per contro una funzionalità positiva, poiché viene  usata per dimostrare il contrario del falso.

SOFISTI MINORI

La seconda generazione dei sofisti rappresenta la decadenza della scuola, e tra le manchevolezze, oltre le trappole dialetticamente capziose dell’eristica, va individuata la mercificazione culturale criticata da Socrate, a cui non sfuggirono Protagora e Gorgia. Tra i più celebri sofisti vanno ricordati  Ippia e Prodico, nella cui speculazione la virtù assume connotati eminentemente pratici, quale ultima spes nell’incertezza del mondo sensibile; interessante anche la speculazione politica: la vita associata deriva da un patto, stretto dagli uomini a fini utilitaristici; le leggi sono state, secondo Trasimaco concepite dal più forte, mentre secondo Callicle sono state volute dai più deboli. In questa speculazione perde importanza  la stessa spiritualità poiché i comandamenti religiosi passano in secondo piano in confronto alle aspirazioni “assolutiste” dell’uomo.
Questa stagione dorata termina dopo vent’anni quando Sparta, decisa a rovesciare la supremazia ateniese, coinvolge la rivale nella Guerra del Peloponneso; gli oligarchici cercano di approfittare dell’occasione per rovesciare la democrazia e iniziano una battaglia diffamatoria contro i sofisti, corruttori dei giovani, in cui sarà coinvolto Socrate.

SOCRATE

L’importanza storica della filosofia socratica rappresenta non solo il nuovo ruolo assunto dall’uomo, già reso fondamentale dalla Sofistica, ma anche il diffondersi di una metodologia speculativa che  favorisce l’integrazione delle opinioni e l’interazione tra le parti coinvolte dialetticamente. La vita civile di Socrate si svolge tra l’Atene tardo periclea e l’Atene decadente, e in entrambe le epoche egli fu solerte cittadino attento alla vita politica e democratica ateniese. Figlio di uno scultore e di una levatrice, Socrate rifiutò sempre i vantaggi della vita borghese, astenendosi dalle mollezze della materia; visse sempre sobriamente e lontano dai lussi, coerente e probo; sofista lui stesso, non percepì mai denaro e condannò decisamente la mercificazione che i suoi colleghi facevano della cultura. Socrate è il primo martire della libertà di pensiero e il suo esempio di coerenza fu poi eternato nei dialoghi platonici in cui è protagonista.

IL METODO

Socrate accoglie i problemi, ma non le soluzioni, dei sofisti. I sofisti ebbero secondo Socrate il merito di effettuare una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia del pensiero greco, spostando l’interesse del filosofo dalla natura e dalle forze primordiali che la guidano all’uomo e alle sue potenzialità. Ma il relativismo sofistico non è ben visto da Socrate per il quale si fa invece necessaria una ricerca più attenta della verità. L’uomo che fonda la sua conoscenza sui propri sensi non è dissimile dagli altri animali; ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è la ragione, l’unico elemento che gli consenta di fornire ragioni valide universalmente. Solo sulla ragione e non quindi sulle opinioni della conoscenza sensibile si basa la teoria della gnoseologia socratica. L’uomo razionale è davvero misura di tutte le cose in quanto la sua ricerca ha valenza universale.

Ma qual è il modo migliore per iniziare la ricerca? La vera conoscenza inizia da noi stessi: il metodo ideale è l’introspezione, poiché non si può iniziare a conoscere l’esterno senza conoscere l’interno. Socrate fa suo il motto dell’oracolo di Delfi, “conosci te stesso”, primo passo indispensabile sulla strada della conoscenza, poiché l’uomo deve imparare a conoscere e a padroneggiare la propria  razionalità. Dopo il momento introspettivo e soggettivo viene il momento dialogico. Il dialogo è la forma più alta dell’insegnamento socratico, in cui  il maestro interviene sui singoli per liberarli dalle aporìe e dalle illusioni della vita sensibile. Nel dialogo Socrate sfrutta i vantaggi dell’apprendimento in comune, cercando di aiutare l’allievo a tirare fuori il positivo e a liberarsi dal falso. Questo metodo è l’arte levatrice per eccellenza, ossia la maieutica. Per far uscire le opinioni fallaci allo scoperto, Socrate usa l’ironia, attraverso cui demistifica i contenuti privi di effettivo fondamento. Al momento prettamente negativo subentra però il momento critico, ossia costruttivo, in cui Socrate aiuta l’allievo a ricostituire il proprio sapere secondo schemi razionali.
Il metodo socratico non segue degli schemi ben precisi. Lo scopo di Socrate non era infatti quello di dimostrare la verità, ma di mettere i suoi allievi in condizione di proseguire da soli la propria ricerca.

Per Socrate la vera sapienza consiste nella consapevolezza dei propri limiti; nell’Apologia di Socrate scritta da Platone egli chiede all’oracolo di Delfi il nome dell’uomo più sapiente e si sente rispondere “Socrate”; quando però Socrate interroga gli altri sapienti ateniesi per valutarne la preparazione, si accorge di quanto la presunzione avesse inficiato la cultura di queste persone. La vera sapienza è quella di Socrate che, certo di non sapere nulla,  ha piena coscienza dei propri limiti e dunque veramente sa.

IL CONCETTO

Tutta l’indagine di Socrate ruota intorno a una domanda, “che cosa è ?” ma le risposte a questa domanda non bastano a Socrate: si possono dare risposte molto opinabili sulle argomentazioni sensibili e materiali, naturalmente soggettive, ma per rispondere a domande sul bene, sulla morale e sulla virtù Socrate ha bisogno di un’essenza universale, piuttosto che di una spiegazione pratica.  Per arrivare a ciò devo astrarre dalle opinioni particolari i caratteri comuni e universalmente validi: per esempio da varie descrizioni di piante differenti per tipologia, formo razionalmente l’idea di albero in base a pochi ma essenziali elementi (fusto, tronco, corteccia, foglie, radici).

La grande conquista della filosofia socratica è il concetto: si tratta di un elemento che l’uomo ha sempre posseduto, ma di cui ha dimenticato la funzionalità. Solo col concetto si può fondare un costrutto scientifico, poiché universale e uguale per tutti; soprattutto il concetto è necessario, così come sarà per Aristotele o per Kant, perché il concetto non può essere inteso in una forma diversa ma unica e perciò valida necessariamente. Alla base della sua teoria conoscitiva Socrate pone dunque una sostanza o ousìa, il cui valore universale e necessario ne fa uno strumento di fondamentale conoscenza scientifica. Ma a Socrate non interessano le cose fisiche, quanto il recupero degli ideali, e il concetto ha qui un’importanza in tal senso.

LA MORALE

Per Socrate la virtù è sapere. Se per i sofisti l’azione umana si doveva dispiegare verso l’utilitarismo pratico, Socrate, che ha una concezione idealmente elevata dell’uomo, l’azione umana ha per obiettivi il bene e la virtù. Ma per raggiungere il bene non ci si può rinchiudere nell’individualismo soggettivo presumendo di essere depositari della verità; il Bene è una realtà assoluta e universale, ed è scienza; proprio in quanto scienza chi conosce conosce il Bene, e dunque il Male è semplicemente ignoranza, ossia non conoscenza del Bene. Per Socrate è assurdo che l’uomo colto rifiuti il bene: solo applicando il Bene, l’uomo vive felice. In Socrate felicità e virtù coincidono (eudemonismo) e l’ideale socratico è quello di una vita felice lontana dalla materia e dalle sue false tentazioni. L’intima felicità del dotto rappresenta il raggiungimento del Bene.

Socrate onorava gli dei ma la sua religiosità si ispirava a un modello morale, e rifiutava di applicare al divino, seppure antropomorfizzato, le stesse storture della dimensione umana. Ciò gli valse l’accusa di empietà che fu uno dei motivi che ne determinarono la condanna.

Accusato di empietà e di corruzione della gioventù ateniese, inviso agli aristocratici e ai conservatori, Socrate fu condannato a morte. Nonostante avesse la possibilità di fuggire, egli preferì accettare la velenosa cicuta, come racconta il Fedone platonico, aspettando il momento conversando con i suoi discepoli sul tema dell’immortalità dell’anima.

DOPO SOCRATE

Platone fu di sicuro il discepolo più celebre di Socrate, ma oltre a Platone si distinguono varie tendenze tra gli scolari socratici. Fra essi è annoverato anche Senofonte, storico politico e militare, autore di un’Apologia del maestro ma per nulla interessato ad approfondirne o a svilupparne il pensiero. Quattro sono le scuole socratiche; di una, la scuola eretriaca, non abbiamo notizie certe.

Scuola Megarica – Fu fondata da Euclide di Megara, omonimo del matematico posteriore, e assomma nella sua speculazione temi socratici ed eleatici. Euclide riteneva come Socrate l’essenziale unità del Sommo Bene, inteso come Dio, come intelligenza universale, come Uno e Assoluto; ma al centro della speculazione euclidea trovavano posto temi già cari agli eleati e a Zenone, come l’illusorietà della conoscenza sensibile. Tra i megarici c’era anche Eubulide che, per dimostrare l’inconsistenza del molteplice usava l’argomento del sorite (cumulo): togliendo un elemento da un cumulo, esso non diminuisce; parimenti la realtà è una e non molteplice. Sempre suòòo stesso tema Stilpone riteneva impossibile attribuire al cavallo un predicato come “corre”, poiché il “corre” del cavallo è diverso dal “corre” di un altro animale e dal senso stesso del correre, rendendo assurdo ogni riferimento al molteplice. Tra le asserzioni più famose dei megarici ci sono le antinomie o paradossi, tra cui il celebre argomento riportato da Cicerone: se dico di mentire, o dico il falso, e allora non mento, o mento e dico la verità. Queste affermazioni non riguardano la critica al molteplice ma si tratta di argomenti indecidibili, e dunque paradossali. Infine Diodoro Crono rifiutava la potenza in assenza dall’atto: tutto ciò che non si è verificato, tutte le cose che esistono solo in fase progettuale, per Diodoro sono inesistenti; solo ciò che si è già verificato è possibile. Tutto ciò che accade deve necessariamente accadere, altrimenti, perché la possibilità si sarebbe trasformata in impossibilità?

Scuola Cirenaica -    Si tratta della scuola fondata da Aristippo di Cirene e si caratterizza per la scarsa importanza attribuita alla vita teoretica in favore della ricerca della felicità e della condotta morale. Questa praticità fraintende l’insegnamento socratico, e porta la ricerca della felicità alla ricerca del piacere, o meglio nella sensazione piacevole. Per i cirenaici il conoscere si fonda sulla sensazione, e di conseguenza il bene sensibile è rappresentato dal piacere: il piacere va vissuto nella sua immediatezza e intensità. Tra gli allievi della scuola si sviluppano diverse teorie sulla tipologia dei piaceri (edonismo). Quella di Aristippo è una teoria che ricalca la filosofia di Protagora: come il sofista, anche Aristippo considera l’uomo “misura di tutte le cose” proprio in quanto “sente”; e questa sensazione fa sì che l’uomo sia il momento passivo del sentire poiché recepisce lo stimolo sensoriale, mentre la causa ne è il momento attivo. La sensazione è il fondamento dei tre stati emotivi dell’uomo, che sono il piacere, il dolore e la quiete, e che sono paragonabili allo stato del mare. La vera felicità risiede per Aristippo nell’attimo, ed in questo attimo si esplica la libertà dell’uomo, “che possiede e non è posseduto”. Dopo Aristippo si segnala una seconda scuola cirenaica che estremizza il problema arrivando al conflitto tra principio del piacere e ricerca del piacere guidata dell’intelletto (Teodoro l’Ateo, Egesìa, Anniceride).

La Scuola Cinica -  La scuola cinica fu fondata dall’ateniese Antistene, già scolaro di Gorgia e di Socrate; il nome cinico deriva dal greco (cane) a voler sottolineare lo stile di vita, spartano e sfacciato, dei suoi membri.  Per Antistene, così come per i megarici, la conoscenza di una cosa prevede l’impossibilità di predicarle un attributo. Ma i cinici arrivano all’estremismo negando che si possa effettivamente conoscere il vero o negarlo assolutamente. Una frase come “la mela è un frutto” è assurda poiché mela e frutto sono termini diversi e irrelativi; così come è assurdo dire “l’uomo è buono” per lo stesso motivo. I cinici operano come tutti gli allievi socratici la ricerca della virtù, e lo dimostrano coerentemente disprezzando le comodità e i lussi, come già fece Socrate.
Il più estremista fu Diogene di Sinope, allievo di Antistene, che realizzò fattivamente il sogno del ritorno alla natura vagheggiato dai cinici; noto come il “Socrate pazzo”, Diogene viveva in una botte a dispregio del superfluo. E’ assai probabile che molte notizie su Diogene siano fantastoriche, ma, per quanto siamo certi che egli non sempre visse in una botte, è vero che, come tutti i cinici, predicava l’antimaterialismo mendicando e ostentando una “cittadinanza del mondo” in modo sfacciato.

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