giovedì 31 marzo 2016

2A - U3 + U4

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2A - U3
Descartes

DESCARTES - LEZIONE 10
Vita e opere

10.1 - Descartes è considerato da Hegel il fondatore della filosofia moderna. Nasce nel 1596 a La Haye-en-Touraine, nella regione della Turenna, da una famiglia di nobiltà recente, che aveva preso parte alle guerre di religione e  che vantava membri che avevano ricoperto cariche pubbliche. Fu avviato precocemente agli studi umanistici nel 1604 presso il collegio gesuitico di La Flèche, che durarono otto anni. Nella sua opera principale, il DISCORSO SUL METODO, Descartes non mancò di criticare gli studi compiuti e la ratio studiorum della formazione gesuitica. L’insegnamento impartito, che era propedeutico agli studi teologici - che tuttavia Descartes non intraprese - era basato sulla lettura in forma compendiata delle opere principali di Aristotele, presentate non nella loro veste originale, ma in una forma scolastica, alla quale si accompagnavano commentari poco scientifici e quasi mistici, col chiaro scopo di oscurare l’evidenza ed esaltare l’immaginazione. Proseguì la sua formazione studiando diritto a Poitiers, quindi, dal 1618, in concomitanza con lo scoppio della Guerra dei Trent’Anni, si arruolò nell’esercito. Servì dapprima il principe protestante olandese Maurizio di Nassau, poi il cattolico Massimiliano di Baviera. Il suo impegno nelle operazioni di guerra fu minimo, tanto da consentire al giovane Descartes di continuare a studiare. La guerra fu un’esperienza molto importante, non solo perché mise Descartes in contatto con molti intellettuali europei, ma sopratutto perché fu durante questa esperienza che egli maturò la consapevolezza della sua vocazione filosofica, in un delirio quasi mistico, alimentato, si dice, da un pellegrinaggio a Loreto e dalla sua presunta affiliazione alla setta dei Rosa Croce. In questo periodo Descartes maturò l’importanza dell’intuizione rispetto al sillogismo aristotelico, ossia una conoscenza chiara e immediata, articolata in elementi distinti, tali da risultare indubitabili. Descartes comprende che non vi sono certezze nella vita. La rivoluzione dell’astronomia, sopratutto la rivoluzione copernicana, cambia completamente gli assetti della conoscenza che fino a quel momento avevano costituito un sicuro terreno per i piedi dei filosofi. Descartes arriva allora a dire che tutta la realtà è solo un sogno.

10.2 - Le REGOLE PER LA GUIDA DELL’INTELLIGENZA, pubblicate postume, sono la prima vera opera filosofica di Descartes. In quest’opera, fondata sui concetti di ordine e di misura, Descartes getta le basi della sua ricerca di una conoscenza semplice, chiara ed evidente, e di un metodo in grado di risolvere qualsiasi problema proponibile, esigenza che viene portata avanti proprio nel DISCORSO SUL METODO, una delle opere più importanti della filosofia moderna. Si tratta di un saggio breve e all’apparenza molto semplice, redatto in forma colloquiale e autobiografica: il problema del metodo è il problema dell’uomo Descartes, alla ricerca di una conoscenza che assuma un valore universale. Il dispiegamento del metodo nelle sue quattro regole, evidenza, analisi, sintesi, enumerazione, è solo all’apparenza semplice, in realtà contiene un primato sull’intelletto, rappresentato dalla volontà. Descartes ritiene che la ragione non sia appannaggio esclusivo delle menti geniali ma sia un bene che appartiene a tutti e tra tutti è condiviso; ma ciò che distingue il vero uomo di scienza è la volontà di applicare in maniera assoluta le regole del metodo a tutto il conoscibile, per cercare la verità. Il metodo cartesiano, fondato sul primato della volontà rispetto all’intelletto, è come si vede di tipo induttivo e platonico-agostiniano, polemicamente in opposizione a quello deduttivo e aristotelico-tomista. Sarà poi l’incontro con gli Oratoriani - il cardinale De Berulle ma sopratutto il padre Gibieuf - a suggerire al giovane Descartes che le cosiddette VERITA’ ETERNE, le verità logiche e matematiche, derivavano da un atto di volontà di Dio. Nonè dunque Dio a dipendere dalla logica ma la logica a dipendere dalla volontà di Dio, tanto che Descartes dice che se Dio avesse voluto fare un triangolo con quattro lati avrebbe potuto farlo benissimo. Ma questa dipendenza sottrae al mondo quella stabilità e quella contingenza descritte nel pensiero tomista, e portando così l’uomo a confrontarsi con una realtà precaria e minata dal dubbio. Occorre però anche precisare che il cammino del metodo cartesiano non fu agevolato dai tempi in cui il filosofo operava. Descartes aveva scritto infatti due trattati, IL MONDO  e L’UOMO, di chiara ispirazione meccanicistica e con evidenti ma prudenti riferimenti a Galileo, ma proprio la condanna di Galileo nel 1633 lo convinse a non pubblicarli, dando invece la precedenza ad altre opere più innocue come LA DIOTTRICA, LA GEOMETRIA e LE METORE. Descartes prese anzi le distanze da Galileo, facendo seguire questi trattati al suo Discorso sul Metodo quale esempio del modus operandi cartesiano, e adottando un metodo scientifico volutamente mascherato, più cauto e ipotetico (larvatus prodeo), tipico nel periodo della Controriforma.

10.3 - Descartes si trasferì nel 1628 nella più liberale Olanda, preferendola alla Francia assolutista e all’Italia troppo legata alla Chiesa. Nel 1640 vede la luce la sua opera più importante, LE MEDITAZIONI METAFISICHE, una raccolta di sei brevi meditazioni in cui Descartes abbandona il dubbio e perviene alla certezza, attraverso la dimostrazione dell’esistenza di Dio, che darà una maggiore evidenza alla conoscenza dell’uomo e della natura. 
L’opera fu rivoluzionaria, sopratutto in merito a concetti come idee e pensiero svincolati dal significato tradizionale, il che costrinse Descartes a far circolare le Meditazioni dapprima in sordina, negli ambienti intellettuali dell’epoca, sopratutto grazie all’amico Mersenne. Nacquero così due appendici alle Meditazioni, le OBIEZIONI, poste da grandi filosofi del periodo come Gassendi e Hobbes, e le RISPOSTE, date dallo stesso Descartes, quasi tutte fondate sul presunto fraintendimento concettuale dovuto, secondo l’autore, al retaggio della vecchia filosofia Scolastica. Nel 1644 Descartes pubblica una sintesi del suo pensiero filosofico, i PRINCIPI DI FILOSOFIA. Proprio nella parte introduttiva dei Principi - la cosiddetta lettera ai traduttori - Descartes spiega il significato di sistema col famoso esempio dell’albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami le altre scienze. L’ultima grande opera della letteratura cartesiana fu LE PASSIONI DELL’ANIMA del 1649, nata da una corrispondenza con la principessa Elisabetta di Boemia. Si tratta di una delle opere di maggiore complessità del filosofo francese, dominata dal problema del dualismo anima-corpo. Qui Descartes indica nella ghiandola pineale il luogo di raccordo tra le due componenti dell’uomo. L’opera però finì di inasprire il clima di accuse e di polemiche che si era instaurato anche in Olanda contro le opere cartesiane, sopratutto a causa dei teologi, che obbligò Descartes ad accettare nel 1649 l’invito della regina Cristina di Svezia, celebre mecenate di molti filosofi e artisti, la quale lo volle come insegnante di filosofia alla corte di Stoccolma. Ma il clima svedese fu fatale a Descartes che si spense l’anno seguente.

DESCARTES - LEZIONE 11
La natura del metodo cartesiano

11.1 - Descartes è definito il filosofo del metodo per eccellenza, dato che l’applicazione del suo metodo viene applicata a diversi ambiti della scienza. Tuttavia egli non diede mai una spiegazione chiara e definitiva del metodo. In gioventù Descartes aveva elaborato la sua MATEMATICA UNIVERSALE, un approccio scientifico che andava ben oltre i numeri e le figure geometriche, rivelando l’ORDINE, ossia la successione logica delle cose, e la MISURA, ossia la proporzione tra le cose.
Fino agli albori dell’età moderna lo schema di ragionamento preferito dalle filosofie razionaliste era il sillogismo di matrice aristotelica e scolastica. La condizione di universalità di almeno una delle due premesse era infatti garanzia di una positiva inferenza deduttiva che sfociava in una conclusione assolutamente indipendente dalle premesse. Ma già agli inizi dell’età moderna questo metodo inizia a essere sottoposto ad aspre critiche. Questo modello di ragionamento, seppur valido, apparve infatti subito inadeguato a un mondo di continue scoperte scientifiche. Questo schema di ragionamento aveva un senso in un tempo in cui la concezione del cosmo aveva carattere finito, e le conoscenze scientifiche avevano un carattere più rielaborativo che sperimentale, in cui il termine logico “tutto” aveva il senso dell’universalità. Ma in un mondo come quello rinascimentale, complicato dall’avvicendarsi di continue teorie e scoperte, la pretesa totalizzante era inammissibile. A colpire maggiormente il giovane Descartes era stato però un altro elemento, il fatto che Aristotele non usa mai il sillogismo nella sua forma pura e assoluta ma parte sempre da premesse che sono opinioni generalmente accettate e per questo universali, ma non frutto di un lungo lavoro di ricerca. Non lo fa poiché non avrebbe potuto: usare il termine logico “tutto” implica che tutti gli elementi considerati sono stati tutti esaminati, per escludere eventuali errori. Per questo il sillogismo viene usato in forma dialettica. L’accettazione di queste verità universali era tipica delle poleis greche e delle comunità cristiane medievali, in cui lai fiducia e la condivisione sorreggevano la ricerca del vero, ma era insostenibile nell’epoca moderna, caratterizzata dalla rottura del vecchio modello cosmologico ad opera della rivoluzione astronomica e dalla frattura del mondo cristiano. Questa inadeguatezza assume nel pensiero cartesiano le forme della DIFFIDENZA  e del DUBBIO. Descartes ritiene affidabile solo L’EVIDENZA CHE SI PRESENTA DIRETTAMENTE ALL’INTUIZIONE MEDIANTE RAPPRESENTAZIONI CHIARE E DISTINTE. 
Questa prima regola del metodo sancisce perciò l’abbandono del sillogismo in favore di una conoscenza vera che il sillogismo non poteva garantire.

11.2 - La seconda regola del metodo cartesiano è l’ANALISI, che amplifica ancora le distanze dal sillogismo aristotelico. La procedura di ragionamento sillogistica è infatti sintetica, in quanto la conclusione è la sintesi delle due premesse, invece il metodo cartesiano è analitico, e si basa sulla dissezione, in senso anatomico, dei diversi problemi, allo scopo di semplificarli e raggiungere una soluzione certa e valida. La prospettiva analitica va però inesorabilmente a scontrarsi con la visione di tipo organicista del naturalismo rinascimentale, in cui il mondo naturale viene visto come un gigantesco organismo dove ogni parte dipende dal tutto e dove il tutto non potrebbe stare senza le sue parti: l’ablazione di una di queste parti comporterebbe o la rigenerazione della parte mancante o la morte dell’organismo (esempio del corpo umano). Questa visione dell’intero, che di fatto impedisce uno studio analitico  della natura, rivela a Descartes l’esigenza di una ricomposizione delle parti, costituendo la terza regola del metodo che è appunto la SINTESI. 
La sintesi cartesiana non ha però nulla a che vedere con la sintesi sillogistica: così come un corpo umano smembrato inevitabilmente muore, allo stesso modo un organismo ricomposto non è mai uguale a prima. Alla prospettiva tradizionalmente organicista Descartes sostituisce quella meccanicista. Si intende per MECCANISMO un complesso di oggetti materiali in movimento, che costituiscono la realtà, i cui rapporti sono regolati da relazioni di causa ed effetto. Il meccanicismo, già teorizzato da Galileo, conduce anche al definitivo abbandono del finalismo aristotelico e medievale. L’universo è un insieme di movimenti meccanici senza uno scopo ultimo. Dio è il creatore della natura ma non è la natura stessa, non si identifica con essa come teorizzato dal PANTEISMO rinascimentale, anzi, è assolutamente lontano da essa. Attribuendo a Dio il ruolo di iniziatore del movimento dell’universo, la cui quantità di moto si mantiene costante, Descartes offre, a detta di molti suoi contemporanei e del suo amico Padre Mersenne, la migliore difesa del ruolo divino, a differenza della concezione panteistica del Dio-Natura che mescola Dio alle forze naturali, sfociando in una sorta di paganesimo.

11.3 - Malgrado la prospettiva meccanicista Descartes ritiene la deduzione uno strumento ancora indispensabile per la conoscenza, anche se - come per la sintesi - il suo significato appare diverso, e non è rappresentata più dall’inferenza universale-particolare ma dalla proporzione a:b=c:x, dove a, b e c sono gli elementi attraverso i quali pervenire alla conoscenza dell’incognita x. Rispetto al sillogismo, questo schema di ragionamento presuppone innanzitutto una scoperta, e, in secondo luogo, così come la sintesi dipende dall’analisi, la deduzione è sempre subordinata all’intuizione evidente, chiara e distinta. La condizione formale per la validità della procedura deduttiva infatti è che questi elementi devono essere sempre noti, conosciuti, e anche laddove siano risultato di altre proporzioni devono essere sempre sottoposti all’evidenza dell’intuizione. Descartes ammette nell’intuizione anche quelle semplici relazioni tra gli elementi (esempio 1+1=2) che consentono di non ricorrere alla memoria: questo sistema non aggiunge all’intuizione nulla di originale ma ne amplia le possibilità di ragionamento mediante la creazione di concatenazioni tra gli elementi, in modo da agevolare una comprensione più efficace dell’intero.

DESCARTES - LEZIONE 12
Il “cogito” e le idee

12.1 - Esposte le regole del metodo, Descartes si trova nella necessità di fondare queste regole allo scopo di pervenire ad una verità certa, che sia assoluta e autoevidente. Lo strumento usato per arrivare a questa certezza è il DUBBIO, nei due aspetti METODICO e IPERBOLICO.
Il dubbio metodico è la prima fase della ricerca cartesiana di una verità certa e si rivolge alla sensibilità. Esso si rivolge primariamente agli OGGETTI DEI SENSI, poiché i sensi possono sempre ingannarci, e quello che ci appare non può mai costituire una verità, a causa dei continui cambiamenti delle cose. Descartes rifiuta così, provvisoriamente, il mondo esterno, che non gli dò sicurezze. Dopo gli oggetti dei sensi si rivolge al proprio CORPO. Sarebbe assurdo negare il proprio corpo. Ma nessuno potrebbe garantire che il corpo che noi percepiamo sia vero. Si potrebbe pensare di vivere un eterno sogno e di non essere svegli, e che  tutto quello che noi vediamo sia falso. Un genio ingannatore potrebbe farci credere che questa sia la vera realtà che invece non esiste. Descartes conclude sostenendo che tutto il mondo è falso e false sono le scienze che lo studiano.
Il dubbio iperbolico è la seconda fase della ricerca cartesiana e si riferisce alla conoscenza intellettuale e sopratutto alla matematica. Galileo Galilei aveva descritto la matematica come il linguaggio più chiaro scritto da Dio, ma Descartes avverte: se è vero che 2+2 fa 4, non è certo che non esista un genio malefico che decida di ingannarmi facendomi credere che la somma di quei numeri faccia quel totale. Descartes prende dunque atto dell’impossibilità di conoscere sia la realtà esterna del mondo della natura sia quella interna del pensiero. Ma cosa sopravvive?

12.2 - Si può e si deve dubitare di tutto, afferma Descartes, ma solo di una cosa non possiamo dubitare: di pensare. Il pensiero è infatti l’unica vera certezza che abbiamo e costituisce la massima autoevidenza del sistema cartesiano: cogito ergo sum. Esisto in quanto sono in grado di pensare e di dubitare. Questa massima implica alcuni aspetti:
- innanzitutto il tentativo di falsificarla, implicando il pensiero, la rende vera;
- non deriva da nessun ragionamento sillogistico e non è dedotta;
- non è un’evidenza vera e propria ma è una evidenza in sé stessa;
- il fatto di esistere non implica che io abbia un corpo.
Descartes mette quindi in risalto una sola certezza, quella dell’esistenza del pensiero in sé stesso.

12.3 - Il pensiero, continua Descartes, non è vuoto ma contiene le IDEE. Si tratta di un’affermazione per quei tempi abbastanza rivoluzionaria: LE IDEE SONO MODIFICAZIONI DELLA SOSTANZA PENSANTE. Nella filosofia medievale, come nel pensiero antico, le idee erano prima di tutto mella mente di Dio quali modelli delle cose create e poi per analogia nella mente umana come modelli delle cose che l’uomo avrebbe fatto. Descartes invece afferma che le idee sono modi di essere del nostro pensiero e quindi sono interne al pensiero stesso. L’affermazione cartesiana è coerente col suo ragionamento: le idee sono rappresentazioni, immagini, prodotte dal pensiero, e quindi non ci dicono esattamente che esiste qualcosa di esterno ad esso.
Nonostante la grande originalità del pensiero cartesiano, la sua concezione delle idee e del pensiero è molto più vicina al pensiero aristotelico-scolastico di quanto lo stesso Descartes avrebbe voluto. Infatti:
- il pensare è ridotto a una SOSTANZA (res cogitans);
- questa sostanza ha dei modi, cioè degli ACCIDENTI (le idee);
Le idee di tipo quantitativo, assimilabili alle proprietà oggettive di Galileo, cioè quelle matematiche, appaiono chiare e distinte. Questo aspetto comporta due conseguenze: il superamento del dubbio iperbolico e la res extensa.
Il dubbio iperbolico viene superato in quanto le idee matematiche sono certe ed evidenti all’intuizione. Esse conducono alla probabile presenza di una realtà esterna. La certezza di questa realtà, che Descartes chiama sostanza estesa (res extensa), non è però acclarata. A questo punto Descartes si trova  due sostanze, una, quella pensante, priva del predicato di estensione, che è certa in quanto autoevidente, e la seconda, quella estesa, che non ha per ora  una certezza e che appare già come una realtà chiusa e finita, misurabile con gli strumenti della matematica.

DESCARTES - LEZIONE 13
Dio e il mondo esterno

13.1 - Descartes, affermando l’evidenza del cogito, supera di fatto il dubbio iperbolico, ma la certezza delle idee matematiche apre inevitabilmente una nuova fase di ricerca. Infatti la certezza del superamento del dubbio iperbolico può darla solo l’esistenza di Dio, che è onnipotente, a differenza dell’uomo che è limitato, e infinitamente buono, quindi non mi inganna: sarò dunque la dimostrazione dell’esistenza di Dio a confermare la certezza degli elementi chiari e distinti dell’evidenza. Le prove dell’esistenza di Dio sono tre:

PRIMA PROVA - Se io sono un essere imperfetto come posso avere un’idea di perfezione come quella di Dio? Evidentemente questa idea non deriva da me, poiché se così fosse io sarei stato perfetto e mi sarei creato ancora più perfetto di quello che sono. E siccome non sono in grado di crearmi da solo, altrimenti mi sarei creato perfetto, allora qualcuno mi ha creato.
SECONDA PROVA - L’esistenza sta a Dio come tre lati stanno al triangolo: l’esistenza stessa di Dio è sinonimo di perfezione, quindi se dicessimo che Dio non esiste, non staremmo parlando di Dio, in quanto Dio esiste proprio in quanto perfetto.

Queste prime prove non sono originali di Descartes, la prima è ripresa da San Tommaso, la seconda da Sant’Anselmo. La prova originale cartesiana è la terza. Prima di tutto Descartes chiarisce che noi ci riferiamo genericamente col termine di idee a tutti i contenuti del pensiero. Ma le idee sono di tre tipi:

IDEE AVVENTIZIE - derivano dai sensi (Descartes scrive “appaiono” con le virgolette poiché non è stata ancora dimostrata l’esistenza della res extensa), e sono confuse e oscure, poiché sensibili.
IDEE FITTIZIE - sono le idee prodotte dalla fantasia e costruite con le idee fittizie, come per esempio le sirene, gli unicorni, ecc.
IDEE INNATE - sono le idee originali del pensiero, che non sono derivate dai sensi e dall’esperienza, e per questo sono chiare e distinte. Sono necessarie e fondamentali: tra esse ci sono le idee matematiche che sono indispensabili alla conoscenza. E tra le idee innate è presente l’idea di Dio. 

TERZA PROVA - Essendo innata l’idea di Dio è chiara e distinta, proprio come può essere l’idea del triangolo, ma rispetto alle idee innate ha qualcosa di più: presuppone l’infinito, che non ha nulla a che vedere con la natura finita e limitata dell’essere umano. Dunque, afferma Descartes, se io sono finito e limitato come posso avere innata un’idea di infinità come quella di Dio? Evidentemente questa idea è stata posta dentro di me da un Essere Infinito e assai più potente di me, e questo ente è appunto Dio.

Questa terza prova, sottoposta a durissime critiche in quanto presuppone un circolo vizioso, dimostra dunque l’esistenza di una seconda sostanza, quella divina. La dimostrazione dell’esistenza di un essere perfetto e infinitamente buono sconfigge per sempre lo jpsettro del famoso genio malefico e ingannatore e consente a Descartes di superare in modo definitivo il dubbio iperbolico. Tuttavia questo non significa che il giudizio sia immune dall’errore, in quanto l’uomo è imperfetto. L’errore nasce da uno squilibrio tra l’intelletto, che è finito, e la volontà. Mentre l’intelletto si rivolge solo alle cose finite, la volontà pretende di innalzarsi oltre i confini fissati dall’intelletto, considerando chiare e distinte quelle cose che non lo sono: per questo motivo nonostante l’infinita bontà di Dio l’errore, a causa della volontà dell’uomo, non può essere estirpato dal mondo.

13.2 - Descartes si chiede dunque se sia possibile l’esistenza del corpo e di un mondo esterno. Fino a questo momento ogni dimostrazione di queste due realtà è stata vana a causa dell’inganno sensoriale, assimilato da Descartes a un genio malefico, e latore del dubbio. Dubbio che viene a cadere con la dimostrazione dell’esistenza delle due sostanze, pensante e divina. 
Descartes ricorre all’esempio del chilagono, un poligono regolare di mille lati, la cui idea matematica è pensabile ma non una sua rappresentazione in forma di immagine. L’esistenza del corpo è supposta dalla presenza nella res cogitans delle idee fittizie, che sono date dall’immaginazione e pertanto hanno origine dalle idee avventizie, che hanno origine dai sensi. Mentre l’intelletto non potrebbe giustificare l’esistenza di una corporeità, mentre l’immaginazione lascia supporre che esista qualcosa fuori dal solo pensiero e che costituisce un limite al pensiero stesso. L’immaginazione è attiva, e dipende dunque dalla mia volontà, mentre la percezione è passiva: mentre posso scegliere di immaginare un albero di qualsiasi tipo , se io vedo davvero un albero non posso impedirmi di vederlo, ed è questo obbligo che porta Descartes a dire che esiste un mondo esterno, poiché nessuna percezione può essere rifiutata. La garanzia della certezza dell’esistenza del corpo e del mondo esterno è data da Dio, in quanto buono e quindi non ingannatore. 
Da qui derivano alcune conseguenze rilevanti:
nonostante sia acclarata la certezza di una sostanza estesa, la sola certezza viene dalle idee matematiche, in quanto la realtà è mutevole e le idee proprie dei sensi non possono rappresentare la realtà di partenza;
tuttavia la presenza delle sole idee innate, chiare e distinte, non basta a darmi la certezza di avere un corpo, e quindi ho bisogno più delle idee oscure e confuse afferenti alla sensibilità;
il Dio cartesiano non è il Dio della religione ebraico-cristiana, quanto un Dieu des philosophes, col solo compito di garante della verità.

2A - U4
Locke, Leibnitz e Hume

LOCKE - LEZIONE 17
Alle origini dell’empirismo
La genesi della conoscenza in John Locke

17.1 - La critica rivolta da Locke all’innatismo della scuola di Cambridge ha per molto tempo inserito arbitrariamente il pensiero lockiano nel novero delle filosofie empiriste. In realtà si può notare quanto Locke, nonostante la critica suddetta,  sia vicino a Descartes. La mente, dice Locke, non percepisce che le proprie idee: questa affermazione ha un grande significato logico,che viene rafforzato dalla convinzione lockiana che la conoscenza è conoscenza di rappresentazioni mentali. La condanna dell’innatismo è una conseguenza politica e religiosa: Locke infatti, testimone del fanatismo dell’epoca, voleva scongiurare a pretesa di possedere il monopolio della verità. La negazione delle idee innate risponde però anche a una precisa esigenza teoretica della filosofia di Locke, ossia quella di mostrare la genesi delle idee nella mente umana, dalle idee semplici a quelle complesse.

17.2 - Il concetto di idea di Locke si inserisce nello spazio lasciato libero da Descartes, il quale si limita a mostrarci le idee come già presenti nella mente ma non ce ne mostra la genesi: Locke per contro intende mostrare questo aspetto, dal semplice apparire dell’idea alla mente umana, fino a definirne lo sviluppo, dalle idee semplici alla loro composizione in quelle complesse. Però come Descartes Locke non spiega essenzialmente cosa sono le idee, anzi, è abbastanza vago sulla loro essenza. Locke descrive la mente come un foglio bianco che attende l’esperienza per riempirsi di caratteri. Questa celeberrima definizione comporta che: a) Locke parte proprio da un problema di natura religiosa, opponendosi più alle Scritture che a Descartes; e b) Locke inizia la sua indagine proprio dall’infanzia dell’uomo, ossia l’età che Descartes aveva liquidato bollandola come la fonte degli errori.

IDEE SEMPLICI - sono i primi segni che vengono tracciati sul foglio bianco della nostra mente, esse hanno carattere passivo, e non siamo noi a crearle, né abbiamo facoltà di rimuoverle. Esse sono di due tipologie: le idee della SENSAZIONE, che provengono dai cinque sensi e che riguardano le qualità (come il colore, il profumo), e le idee di RIFLESSIONE, che riguardano il senso interno, cioè la facoltà di giudizio, il dubbio, l’assenso. Nel pensiero di Locke non esistono idee innate e avventizie, come nella filosofia cartesiana, e la certezza della corrispondenza tra idee e cose non è più garantita da Dio ma viene confermata da più sensi. Questa conferma consente a Locke di  distinguere tra le qualità primarie e quelle secondarie o soggettive. L’accordo tra i sensi conduce alla conoscenza dello spazio e della figura: si nota nella filosofia lockiana un’accezione probabilistica, che accomuna Locke più a Descartes che agli empiristi, in quanto Locke non cerca tanto la certezza e la stabilità ma l’incertezza e il limite della conoscenza umana e l’errore che consegue al tentativo di varcarne i confini.

IDEE COMPLESSE - sono le idee prodotte dalla mente a partire dalle idee semplici e la loro genesi è attiva e non più passiva. Si dividono in tre tipi: a) le idee di MODO, che corrispondono agli accidenti della sostanza e che sono basate su una sola idea semplice ripetuta (MODI SEMPLICI) come lo spazio (ripetizione dell’idea di distanza) e il tempo (ripetizione dell’idea di durata), o su idee di diverso tipo (MODI MISTI) come la bellezza e la giustizia; b) le dee di RELAZIONE, che introducono più termini; c) le idee di SOSTANZA. Quello della sostanza è uno dei problemi cardinali della filosofia lockiana, dato che Locke ammette che la sostanza non è oggetto di una percezione diretta ma è data da una costruzione mentale. La percezione ci conduce a individuare insieme diverse qualità a cui diamo solitamente un nome (per esempio il tavolo o la sedia): ma, una volta spogliata dei suoi accidenti, come facciamo a individuare la sostanza? La vera novità di Locke è che la sostanza non corrisponde a un’idea semplice ma sia una raccolta di idee semplici, da cui  deriva ed è fondata. La sostanza è dunque un’idea complessa e non è più indipendente. Locke non rinuncia all’esistenza della sostanza ma la confina al rango di ESSENZA NOMINALE: si tratta della convenzione di nominare una serie di idee semplici che si presentano insieme con una certa parola (per esempio arancia: tonda, rugosa, arancione....). Le parole dunque non si riferiscono a cose reali ma a quelle collezioni di idee semplici che abbiamo nella nostra mente e che noi chiamiamo cose o sostanze: in questo senso il linguaggio ha uno scopo pratico e convenzionale, serve cioè a migliorare la comunicazione, ma è privo di qualsiasi valore teoretico, poiché i nomi che usiamo non è detto che corrispondano alle stesse idee che pensa il nostro interlocutore. Le sostanze sono quindi universali astratti, in cui è mantenuta la sola essenza nominale, spogliandola delle variazioni accidentali delle cose. La conoscenza per Locke consiste in un accordo (o disaccordo) tra le idee, ed espressa mediante il GIUDIZIO. Locke distingue 3 tipi di conoscenza certa:

a) conoscenza INTUITIVA, quando questa relazione avviene in modo chiaro e immediato e si ha una certezza assoluta;
b) conoscenza PER DIMOSTRAZIONI, quando questa operazione è eseguita attraverso la relazione tra intuizioni collegate tra di loro e pertanto si ha una certezza anche in questo caso;
c) conoscenza SENSIBILE, ossia la conoscenza diretta delle cose esterne e anche qui si rileva una certezza.

Questi tre tipi di conoscenza certa vanno distinti da altrettanti tipi di  conoscenza incerta:

a) conoscenza PROBABILE (priva della certezza empirica);  
b) conoscenza PER FEDE (che non puó essere verificata pur risultando attendibile);
c) conoscenza  basata sull'OPINIONE, che è la conoscenza più incerta di tutte.

17.3 - Conoscenza è per Locke la percezione delle relazioni tra le idee, che si sviluppa in diversi modi: dalla semplice relazione di identità (per esempio: il triangolo equilatero ha tre lati uguali e tre angoli uguali) fino alla coesistenza e alla contrapposizione (per esempio: la sedia non è il tavolo). Origine di ogni conoscenza è - come in Descartes - una intuizione o una dimostrazione, ma - a differenza di Descartes - Locke nega una sostanzialità della conoscenza, ossia non viene percepita una cosa estesa bensì una rete di relazioni tra i termini. Il pensiero lockiano risponde infatti a una vocazione funzionale e nominalistica, in cui la sostanza ha perso ogni importanza e i nomi sono solo comode abbreviazioni per chiamare le cose. Ma in Locke è presente anche una problematica metafisica, che incrocia la sua filosofia, e che riguarda tre aspetti: l’esistenza dell’io, del mondo e di Dio. Si tratta di tre problemi esposti in ordine crescente, che rievocano quelli cartesiani ma del tutto privi di quella drammaticità che aveva invece caratterizzato in Descartes il problema della certezza.

ESISTENZA DELL’IO - è dimostrata in modo intuitivo, attraverso il dubbio che accerta l’esistenza stessa;
ESISTENZA DI DIO - è dimostrata mediante la prova a contingentia mundi, in base alla quale ogni cosa contingente non può crearsi da sola ma bisogna quindi regredire fino a trovare l’autore della sua creazione;
ESISTENZA DEL MONDO - è dimostrata sensibilmente, in base all’accordo tra i sensi e al fatto che la loro azione non può essere condizionata in nessun modo.

LEIBNITZ - LEZIONE 18
I principi della logica e la libertà dell’uomo

18.1 - A differenza di Descartes che ripudia la sua formazione aristotelica e scolastica, Leibnitz predica proprio il ritorno a quelle FORME SOSTANZIALI proprie della logica aristotelica e che ritroviamo nei suoi principi logici. Tutto il sistema leibnitziano non parte da singole idee o semplici concetti, bensì dal GIUDIZIO che ne costituisce la loro unità ORGANICA  e INDISSOLUBILE: se viene meno questa unità, vengono meno le sue componenti. A differenza di Descartes, interessato al significato di singoli termini, Leibnitz è interessato al giudizio, espresso nella tradizionale forma “S è P” dove S è il soggetto, P il predicato e la copula “è” rappresenta l’unità della forma giudicativa. Secondo il rigido determinismo causale logico, come quello di Spinoza, l’attribuzione di un predicato al soggetto risponde a una naturale conseguenza, come nelle relazioni di causa ed effetto (per esempio: il corpo è pesante): ciò significa che un predicato è necessariamente proprio di quel soggetto (per esempio la pesantezza che appartiene all’essere corpo, e per questo un giudizio è vero o falso. Se una cosa accade, accade perché doveva accadere, se non accade non doveva accadere. Il predicato si deduce quindi dal soggetto secondo un ordine causale rigoroso: cil che non può essere attribuito è impossibile. Anche l’uomo è soggetto di giudizio, soggetto per eccellenza essendo egli stesso depositario della facoltà di giudizio, ma è evidente che un sistema così chiuso precluderebbe all’uomo quella spontaneità che caratterizza la facoltà di giudicare. Leibnitz individua due tipi di verità, le verità di RAGIONE e le verità di FATTO, che appartengono ai due principi logici, quello di IDENTITA’ e quello di RAGION SUFFICIENTE.

VERITA’ DI RAGIONE - sono le verità logico-matematiche (per esempio: ogni parte è minore del tutto o 7+5=12), il loro prodotto è finito e la garanzia della predicazione è fondata sul principio di identità. Si tratta di verità eterne, e, a differenza di Descartes, Leibnitz afferma che non possono essere modificate neanche da Dio.
VERITA’ DI FATTO - sono le più complesse, poiché date da una infinita serie di predicati attribuibili al soggetto, che li deve contenere tutti perché siano possibili (per esempio: Cesare passò il Rubicone implica che il soggetto Cesare deve contenere tutti i possibili eventi oltre all’evento accaduto). In questo caso la garanzia della relazione predicativa col soggetto è garantita dal principio di ragion sufficiente, che funziona “a posteriori”. A differenza di Dio che è in grado di stabilire “a priori” una relazione di identità, all’uomo è consentito individuare la “buona ragione”, tra tutte le altre, che ha portato Cesare a maturare la decisione di varcare il Rubicone per attaccare Pompeo. Questa buona ragione esprime una libertà: data la natura finita dell’uomo non serve un infinito numero di possibilità a motivare l’evento, ma servono quelle sufficienti a determinare “perché” è accaduta quell’azione. In questo caso la scelta di Cesare non è necessaria ma libera.

18.2 - Leibnitz ammette nella sua logica la possibilità. Dio ha un intelletto, in cui sono contenute le idee, relative alle verità di ragione, che hanno carattere necessario, e alle verità di fatto, che hanno carattere possibile. Le sole idee che la mente di Dio non contiene sono quelle impossibili, per esempio il ferro di legno o il quadrato rotondo. Tutte le idee possibili stanno tra loro in rapporti reciproci secondo la compossibilità’ che evita l’inganno della contraddizione: per esempio è possibile cj Cesare adotti Ottaviano ma non il contrario. Accanto alla compossibilità Leibnitz pone la volontà stessa di Dio, che mette insieme le idee compossibili per creare il migliore dei mondi possibili. Tra tutti i mondi che Dio poteva creare questo è il migliore: si tratta di un principio applicato ovviamente alle sole verità di fatto e non a quelle di ragione, che rivela il traguardo finalistico del pensiero leibnitziano. Questa posizione, che di fatto non prevede una finalità etica, pone due ordini di problemi, il primo riguardante Dio e il secondo l’uomo.
Primo problema è quello della TEODICEA: se è vero che Dio ha creato il migliore mondo possibile come mai questo mondo non è veramente migliore di altri e sopratutto contiene il male? In realtà Dio non ha creato il migliore mondo possibile ma il migliore tra i mondi possibili: nessuno avrebbe potuto o potrebbe fare meglio di Dio, perché il mondo è come un complesso algoritmo costituito da tutte le idee compossibili che devono essere combinate tra di loro. Solo Dio può fare una cosa del genere, mentre gli uomini, dalla loro posizione limitata e finita, non sono in grado di capirne la complessità.
Da questo primo problema deriva il secondo, quello della LIBERTA’: è libero l’uomo? Le azioni umane sono libere nel migliore dei mondi possibili creato da Dio? Il problema scaturisce dal fatto che nella realtà effettiva ogni azione è  determinata da una serie di fattori e produce una serie di conseguenze. Da qui la natura causale della libertà dell’uomo, inserita nella complessa rete di predicati che caratterizza ogni azione. Leibnitz sostiene che Cesare passa il Rubicone liberamente, nel senso che Dio ha disposto che egli liberamente agisse in questo modo per dichiarare guerra a Pompeo. Si tratta quindi di una libertà vincolata dall’ordine finalistico del mondo effettivamente scelto da Dio e contro questa concezione di libertà si opporrà Kant rivolgendosi alla legge morale universale e incondizionata racchiusa dall’imperativo categorico.

LEIBNITZ - LEZIONE 19
La metafisica dell’infinitesimale e l’organismo vivente

19.1 - La metafisica moderna si caratterizza per l’assunzione dell’infinito come punto di partenza per la conoscenza  della realtà (il Dio di Descartes ne è un esempio). La metafisica leibnitziana è la filosofia dell’infinitesimale. Tale elemento consente di cogliere i due diversi aspetti del reale. A differenza del meccanismo di Descartes, Leibnitz cerca di concepire il movimento in base a una teoria dell’organismo vivente. Al dualismo cartesiano Leibnitz oppone un ritorno ad Aristotele operato attraverso una sostanza individuale: il filosofo teorizza infatti un’infinità di sostanze con tratti singolari e irripetibili, simili ai predicati aristotelici. Sul piano logico questa sostanza è di fatto soggetto della predicazione, ciò da cui è possibile desumere i predicati ad esso attribuiti, sul piano metafisico è un vero e proprio principio vitale. Si tratta di un principio di natura spirituale, poiché la materia non potrebbe essere sostanza, in quanto divisibile all’infinito, proprietà che non consentirebbe alla sostanza di essere ricondotta come soggetto unificatore dei predicati. Pertanto la sostanza non può essere identificata come estensione, figura o movimento. 
Leibnitz identifica la sostanza con l’organismo vivente. Infatti a differenza del meccanismo, che non è veramente uno - fa l’esempio di un orologio che possiamo smontare e rimontare e sostituire i pezzi - l’organismo ha una sua unità intrinseca, in cui le parti dipendono dal tutto e sono altro se separate dal tutto: esso è perciò complesso ma non composto. A differenza di Descarte Leibnitz afferma che cil che viene mantenuto costante in un organismo non è tanto la quantità di moto ma la forza vitale. Proprio per tale ragione, mentre la materia inerte aspetta una forza esterna che le dia forma, l’organismo è in grado di darsi da sé una forma distinta e di rigenerare le parti eventualmente mancanti. Nella fase successiva della sua metafisica Leibnitz sostituisce al concetto di organismo quello di MONADE, una sostanza indivisibile, semplice e unitaria e sopratutto immateriale, animata da una forza vitale.

19.2 - La sostanza è una unità complessa di elementi contraddistinta da una monade dominante, l’anima (l’ENTELECHIA aristotelica), suo principio vitale e forma. Ogni parte di questa unità complessa, separata dal resto, diventa una cosa diversa e a sua volta con una monade che la contraddistingue (per esempio: braccio, mano, dita). In quanto non estesa la monade contiene già in sè tutti i predicati e tutti i pensieri e gli accidenti. I caratteri della monade sono: a) la PERCEZIONE cioè la coincidenza delle rappresentazioni che a monade ha internamente del mondo e b) l’APPETIZIONE, che estende e collega le percezioni tra loro. Le monadi stanno tra loro in rapporti gerarchici: come già Descartes, anche Leibnitz non oppone una distinzione tra qualità soggettive e oggettive, tra idee confuse e oscure e idee chiare e distinte, quanto un passaggio continuo e graduato. Al vertice della gerarchia ci sono le monadi superiori, dotate di APPERCEZIONE, ossia l’AUTOCOSCIENZA (la consapevolezza della percezione), in grado di passare dalla vita biologica a quella morale. La monade somma è Dio, a cui è riservata una conoscenza intuitiva e distinta, che è preclusa agli uomini, mentre alla base di tutte le monadi ci sono le piccole percezioni che non raggiungono la soglia della coscienza e che fanno solo un confuso e indistinto brusio.

19.3 - Nel pensiero leibniziano sono presenti altri due principi di natura logica e metafisica. Il primo, di natura logica, è l’identità degli INDISCERNIBILI: non esistono nell’universo, dice Leibnitz, due sostanze uguali altrimenti sarebbero la stessa cosa. Qui è evidente che Leibnitz si sta riferendo ai predicati, e non alla sostanza, che è inestesa e quindi non occupa uno spazio: dunque, dice Leibnitz, è impossibile che esistano sostanze con medesimi predicati, in quanto non sarebbe comprensibile perché Dio avesse creato l’una piuttosto che l’altra. Il secondo principio, di natura metafisica, è quello dell’ARMONIA PRESTABILITA. Nonostante le monadi siano chiuse, sono coordinate da Dio che ha fatto in modo che tutte le rappresentazioni del mondo contenute dentro ogni monade si corrispondano in maniera perfetta. Dunque nonostante il loro isolamento le monadi percepiscono lo stesso universo che esiste come conseguenza di questa armonia prestabilita: in tal modo ogni monade offre, nonostante il suo isolamento, un diverso angolo visuale che si completa con le altre monadi per esempio all’azione di dare uno schiaffo corrisponde la percezione del dolore che appartiene a un’altra monade.

19.4 - Newton aveva inteso lo spazio è il tempo come realtà esistenti nella natura, oggettive e assolute. Si trattava di una totalità omogenea, uniforme e indifferenziata. Leibnitz contesta Newton, sostenendo che se l’universo fosse un tutto indistinto non vi sarebbe alcuna ragione della varietà dell’armonia prestabilita voluta da Dio. Spazio e tempo non esistono in quanto tali, ma derivano alla corrispondenza delle percezioni che le monadi hanno dei corpi nell’armonia prestabilita: secondo l’ordine della COESISTENZA dei corpi nel caso dello spazio, secondo l’ordine della loro SUCCESSIONE nel caso del tempo. In coerenza col suo PANPSICHISMO Leibnitz ritiene che tutto nell’universo sia vita e anima, e per questo nega una posizione di realtà agli stessi corpi, facendoli derivare come già per il tempo e lo spazio dall’insieme delle percezioni delle monadi. Il rapporto tra i corpi è di natura meccanicistica e casuale, anche se qui non siamo di fornte al rigoroso ordine cartesiano ma piuttosto a un disegno finalistico nell’ordine dell’armonia prestabilita. Ed è appunto questa armonia ad allontanare Leibnitz da Descartes, laddove egli afferma che su percepisce di avere un corpo proprio perché si hanno percezioni confuse. Le monadi sono infatti ordinate gerarchicamente e più ci si allontana dalla monade somma, ossia Dio, più si va verso la confusione. Le monadi situate a un più basso livello gerarchico avranno quindi una capacità percettiva ottusa e offuscata.

HUME - LEZIONE 21
Le idee, la conoscenza, la causalità

21.1 - Il pensiero di Hume segue tre direttrici, a loro volta riconducibili ad altrettante categorie storico-filosofiche: lo SCETTICISMO, cioè l’accettazione della sola esperienza sensibile come fonte di conoscenza; l’ILLUMINISMO, che parte dallo scetticismo per criticare la metafisica e la religione, sia  quella tradizionale sia quella  naturale; l’ANTROPOLOGIA, ossia lo studio dell’uomo in quanto uomo, ossia soggetto di conoscenza. Hume chiama genericamente percezioni i contenuti della nostra mente, sia che provengano dall’esterno in quanto sensazioni, sia che provengano dall’interno come i pensieri. Queste percezioni sono distinte in IMPRESSIONI e IDEE. Le impressioni sono le rappresentazioni sensibili della realtà, tutto ciò che viene percepito qui e ora, come nell’evidenza cartesiana. A differenza di Descartes però Hume conferisce alle impressioni e a tutto ciò che viene dai sensi un carattere fondamentale per la conoscenza, fino a considerarle un criterio di verità. I sensi non sono ingannatori, anzi, sono testimoni del vero: responsabile degli errori è per contro l’IMMAGINAZIONE. Infatti le due facoltà che ci consentono di passare dall’evidenza nitida ma imitata delle impressioni alla stabilità delle idee sono la MEMORIA  e l’IMMAGINAZIONE. Mentre la memoria si limita a  conservare fedelmente la vivacità originale delle impressioni, l’immaginazione, operando in base al principio dell’ASSOCIAZIONE, unisce più impressioni in una sola idea fornendo una rappresentazione sicuramente più ampia ma anche meno esatta della singola impressione. L’associazione agisce secondo tre criteri: a) il criterio della SOMIGLIANZA, che si ha quando una singola impressione ne richiama un’altra analoga (per esempio un colore richiama alla mente altri colori); b) il criterio di CONTIGUITA’, quando una singola impressione ne richiama un’altra vicina (per esempio un vestito richiama la persona che lo indossa); c) il criterio di CAUSALITA’, secondo cui due impressioni sono accostate per una relazione causa-effetto (per esempio lampo e tuono). Hume va a coprire in questo modo un vuoto del sistema di Locke, che non spiegava di fatto il passaggio dalle idee semplici alle idee complesse. Ma questo principio ha solo un valore psicologico, ossia non ha né un valore soggettivo né oggettivo ma è come se fosse sospeso tra questi due e necessita dunque dell’immaginazione per creare un’idea, stabilizzando così il modo causale in cui la natura si presenta all’uomo. Hume definisce il legame che si crea tra le impressioni una DOLCE FORZA, dolce proprio a indicare che il legame non è inalterabile e può essere spezzato e ricomposto, in una serie di associazioni alternative. Hume getta così di fatto le basi del CONVENZIONALISMO. Hune distingue infatti tra due tipi di conoscenza: la conoscenza delle RELAZIONI TRA IDEE, ossia la conoscenza matematica, che è certa poiché non necessita di dimostrazione, e la conoscenza delle QUESTIONI DI FATTO, ossia la conoscenza della scienza naturale e della metafisica, delle cui idee non sappiamo l’origine e per questo si ha bisogno della dimostrazione per garantirne la certezza. Se la dimostrazione fallisce l’idea non potrà essere considerata valida.

21.2 -  Nella critica di Hume al principio di causalità è interessante l’esempio del biliardo. Se assistiamo a una partita di biliardo, sicuramente percepiremo tre impressioni: a) il movimento delle due sfere (principio della SUCCESSIONE); b) l’urto tra le due sfere (principio della CONTIGUITA’); c) l’effetto del tiro sulle due sfere (principio della CONGIUNZIONE). Queste tre impressioni fanno parte della causalità ma non bastano a giustificarla poiché è assente proprio l’impressione necessaria, quella del passaggio da A a B. La causalità, dice Hume, non è una qualità degli oggetti ma una relazione, e perciò non può scaturire, ANALITICAMENTE, come proprietà dI un oggetto (a priori), ma può essere colta solo SINTETICAMENTE con l’esperienza (a posteriori): infatti se vediamo molte volte che l’evento B segue all’evento A ne deduciamo che A è causa di B. Si tratta di un procedimento a carattere induttivo, che a sua volta deve essere supportato dalla regolarità della natura (R) che permette di sostenere la relazione di causalità. Ma questa regolarità si rivela solo con l’esperienza e solo l’esperienza ci dice che essa è valida, perché le cose sono sempre andate in questo modo, ma questa validità non costituisce una certezza, rendendo la relazione di causalità indimostrabile.

HUME - LEZIONE 22
L’immaginazione, l’io e il mondo

22.1 - L’assoluta indimostrabilità dei rapporti di causa-effetto inficia in modo negativo l’intera visione scientifico-naturale del mondo, e il modo in cui viene pensata la realtà. Ma Hume non fu il solo filosofo a negare questa prospettiva (e non sarà neanche l’ultimo): l’originalità del pensiero di Hume consiste in un approccio metodologico fondato non su premesse teologiche, come nel caso di Leibnitz per esempio, ma su premesse antropologiche. Hume si chiede come debba essere fatto l’uomo per riaffermare l’esistenza di questi processi causali che la ragione tende a negare. Secondo Hume la scienza della natura non si discosta dal modo umanamente istintivo di spiegare il reale, ripetendo gli stessi errori. Ma se lo scetticismo cartesiano considerava il dubbio come una preparazione alla soluzione che lo avrebbe poi eliminato, quello humiano non perviene a una vera conclusione. Infatti lo scetticismo di Hume è una vera e propria presa d’atto, da parte della filosofia, una dichiarazione di resa, di impotenza e di rassegnazione, nei confronti del dispiegarsi della vita. Qui è la forza vitale a prendere il sopravvento sulla pretesa onnipotenza cartesiana della ragione. La forza vitale secondo Hume si esprime nell’uomo attraverso tre forme: ABITUDINE, CREDENZA, IMMAGINAZIONE. L’immaginazione genera associativamente le idee delle relazioni causali, l’abitudine la rafforza constatando il collegamento tra diverse impressioni: da ciò deriva la credenza dell’esistenza di una causalità naturale. La credenza non è un’idea ma un modo di apparire delle idee, che conferisce una validità apparente agli oggetti rendendoli persuasivi. La credenza è importante: se la credenza non ci fosse sarebbe pericoloso: il mondo sarebbe caotico e frammentario e ogni evento imprevedibile. Per questo la credenza, come l’immaginazione e l’abitudine, è NECESSARIA per l’uomo. Necessaria non vuol dire vera: la necessità non comporta infatti l’esistenza, così come se l’idea di Dio fosse necessaria per regolare i comportamenti umani non significherebbe che Dio esiste. 
L’uomo non è dunque, conclude Hume, un animale razionale, ma un animale immaginante e abitudinario: non sono i sensi a ingannalo ma il sentimento di fiducia necessario a colmare la propria impotenza. 

22.2 - Il meccanismo antropologico della credenza coinvolge oltre la causalità anche l’esistenza del mondo esterno e dell’io.
Credere all’esistenza di un MONDO ESTERNO significa credere in una realtà stabile e ordinata. Rifacendosi a Berkeley, Hume afferma che le impressioni esistono perché siamo noi a percepirle: non è possibile guardare dietro le impressioni e scoprire la realtà, se si facesse questo si scoprirebbero solo altre impressioni. Per le stesse ragioni della credenza nella causa anche in questo caso è necessario che l’uomo creda a una realtà stabile e ordinata. Allo stesso modo è necessario ammettere l’esistenza di un IO PERSONALE come la res cogitans cartesiana, a cui affidare pensieri e passioni, anche se il mondo esterno al di fuori del pensiero non esistesse affatto. Ma l’esistenza del pensiero non giustifica affatto quella di ciò che viene pensato dal pensiero stesso: non esiste infatti un’impressione che possa convalidare le idee, la res cogitans cartesiano o l’io personale humiano. L’io personale è un FASCIO DI IMPRESSIONI, legato dalla memoria e dall’immaginazione, gli stessi agenti responsabili del passaggio dalle impressioni alle idee. La credenza ci abitua a considerare rapporti causali pregressi mentre l’immaginazione prefigura  le conseguenze future, senza però nessuna impressione di supporto che possa validare questa idea. Hume mette dunque in discussione anche l’io personal, negando scetticamente la res cogitans cartesiana.

22.3 - Hume giunge dunque a una concezione AFINALISTICA della realtà:  si tratta di una concezione diversa dal rigoroso geometrismo  spinoziano, in cui viene negato ogni  legame causale e in cui la probabilità si sostituisce alla certezza della deduzione. Le stesse leggi naturali sono esempi di probabilità, per esempio non è certo che domani sorgerà il sole: è sempre successo così e probabilmente continuerà a succedere così ma non ci sono certezze che sarà sempre così. Hume concorda con Spinoza sulla considerazione che il mondo finalistico è una metafora antropologica, ma a differenza di Spinoza Hume evidenzia l’incessante attività umana ed i meccanismi di adattamento all’ambiente, allontanandosi dall’immagine dell’uomo come animale razionale della filosofia aristotelico-cartesiana, e avvicinandosi dunque alle stesse posizioni dell’antropologia moderna.

mercoledì 30 marzo 2016

2A - U3

2A - U3
Descartes

DESCARTES - LEZIONE 10
Vita e opere

10.1 - Descartes è considerato da Hegel il fondatore della filosofia moderna. Nasce nel 1596 a La Haye-en-Touraine, nella regione della Turenna, da una famiglia di nobiltà recente, che aveva preso parte alle guerre di religione e  che vantava membri che avevano ricoperto cariche pubbliche. Fu avviato precocemente agli studi umanistici nel 1604 presso il collegio gesuitico di La Flèche, che durarono otto anni. Nella sua opera principale, il DISCORSO SUL METODO, Descartes non mancò di criticare gli studi compiuti e la ratio studiorum della formazione gesuitica. L’insegnamento impartito, che era propedeutico agli studi teologici - che tuttavia Descartes non intraprese - era basato sulla lettura in forma compendiata delle opere principali di Aristotele, presentate non nella loro veste originale, ma in una forma scolastica, alla quale si accompagnavano commentari poco scientifici e quasi mistici, col chiaro scopo di oscurare l’evidenza ed esaltare l’immaginazione. Proseguì la sua formazione studiando diritto a Poitiers, quindi, dal 1618, in concomitanza con lo scoppio della Guerra dei Trent’Anni, si arruolò nell’esercito. Servì dapprima il principe protestante olandese Maurizio di Nassau, poi il cattolico Massimiliano di Baviera. Il suo impegno nelle operazioni di guerra fu minimo, tanto da consentire al giovane Descartes di continuare a studiare. La guerra fu un’esperienza molto importante, non solo perché mise Descartes in contatto con molti intellettuali europei, ma sopratutto perché fu durante questa esperienza che egli maturò la consapevolezza della sua vocazione filosofica, in un delirio quasi mistico, alimentato, si dice, da un pellegrinaggio a Loreto e dalla sua presunta affiliazione alla setta dei Rosa Croce. In questo periodo Descartes maturò l’importanza dell’intuizione rispetto al sillogismo aristotelico, ossia una conoscenza chiara e immediata, articolata in elementi distinti, tali da risultare indubitabili. Descartes comprende che non vi sono certezze nella vita. La rivoluzione dell’astronomia, sopratutto la rivoluzione copernicana, cambia completamente gli assetti della conoscenza che fino a quel momento avevano costituito un sicuro terreno per i piedi dei filosofi. Descartes arriva allora a dire che tutta la realtà è solo un sogno.

10.2 - Le REGOLE PER LA GUIDA DELL’INTELLIGENZA, pubblicate postume, sono la prima vera opera filosofica di Descartes. In quest’opera, fondata sui concetti di ordine e di misura, Descartes getta le basi della sua ricerca di una conoscenza semplice, chiara ed evidente, e di un metodo in grado di risolvere qualsiasi problema proponibile, esigenza che viene portata avanti proprio nel DISCORSO SUL METODO, una delle opere più importanti della filosofia moderna. Si tratta di un saggio breve e all’apparenza molto semplice, redatto in forma colloquiale e autobiografica: il problema del metodo è il problema dell’uomo Descartes, alla ricerca di una conoscenza che assuma un valore universale. Il dispiegamento del metodo nelle sue quattro regole, evidenza, analisi, sintesi, enumerazione, è solo all’apparenza semplice, in realtà contiene un primato sull’intelletto, rappresentato dalla volontà. Descartes ritiene che la ragione non sia appannaggio esclusivo delle menti geniali ma sia un bene che appartiene a tutti e tra tutti è condiviso; ma ciò che distingue il vero uomo di scienza è la volontà di applicare in maniera assoluta le regole del metodo a tutto il conoscibile, per cercare la verità. Il metodo cartesiano, fondato sul primato della volontà rispetto all’intelletto, è come si vede di tipo induttivo e platonico-agostiniano, polemicamente in opposizione a quello deduttivo e aristotelico-tomista. Sarà poi l’incontro con gli Oratoriani - il cardinale De Berulle ma sopratutto il padre Gibieuf - a suggerire al giovane Descartes che le cosiddette VERITA’ ETERNE, le verità logiche e matematiche, derivavano da un atto di volontà di Dio. Nonè dunque Dio a dipendere dalla logica ma la logica a dipendere dalla volontà di Dio, tanto che Descartes dice che se Dio avesse voluto fare un triangolo con quattro lati avrebbe potuto farlo benissimo. Ma questa dipendenza sottrae al mondo quella stabilità e quella contingenza descritte nel pensiero tomista, e portando così l’uomo a confrontarsi con una realtà precaria e minata dal dubbio. Occorre però anche precisare che il cammino del metodo cartesiano non fu agevolato dai tempi in cui il filosofo operava. Descartes aveva scritto infatti due trattati, IL MONDO  e L’UOMO, di chiara ispirazione meccanicistica e con evidenti ma prudenti riferimenti a Galileo, ma proprio la condanna di Galileo nel 1633 lo convinse a non pubblicarli, dando invece la precedenza ad altre opere più innocue come LA DIOTTRICA, LA GEOMETRIA e LE METORE. Descartes prese anzi le distanze da Galileo, facendo seguire questi trattati al suo Discorso sul Metodo quale esempio del modus operandi cartesiano, e adottando un metodo scientifico volutamente mascherato, più cauto e ipotetico (larvatus prodeo), tipico nel periodo della Controriforma.

10.3 - Descartes si trasferì nel 1628 nella più liberale Olanda, preferendola alla Francia assolutista e all’Italia troppo legata alla Chiesa. Nel 1640 vede la luce la sua opera più importante, LE MEDITAZIONI METAFISICHE, una raccolta di sei brevi meditazioni in cui Descartes abbandona il dubbio e perviene alla certezza, attraverso la dimostrazione dell’esistenza di Dio, che darà una maggiore evidenza alla conoscenza dell’uomo e della natura. 
L’opera fu rivoluzionaria, sopratutto in merito a concetti come idee e pensiero svincolati dal significato tradizionale, il che costrinse Descartes a far circolare le Meditazioni dapprima in sordina, negli ambienti intellettuali dell’epoca, sopratutto grazie all’amico Mersenne. Nacquero così due appendici alle Meditazioni, le OBIEZIONI, poste da grandi filosofi del periodo come Gassendi e Hobbes, e le RISPOSTE, date dallo stesso Descartes, quasi tutte fondate sul presunto fraintendimento concettuale dovuto, secondo l’autore, al retaggio della vecchia filosofia Scolastica. Nel 1644 Descartes pubblica una sintesi del suo pensiero filosofico, i PRINCIPI DI FILOSOFIA. Proprio nella parte introduttiva dei Principi - la cosiddetta lettera ai traduttori - Descartes spiega il significato di sistema col famoso esempio dell’albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami le altre scienze. L’ultima grande opera della letteratura cartesiana fu LE PASSIONI DELL’ANIMA del 1649, nata da una corrispondenza con la principessa Elisabetta di Boemia. Si tratta di una delle opere di maggiore complessità del filosofo francese, dominata dal problema del dualismo anima-corpo. Qui Descartes indica nella ghiandola pineale il luogo di raccordo tra le due componenti dell’uomo. L’opera però finì di inasprire il clima di accuse e di polemiche che si era instaurato anche in Olanda contro le opere cartesiane, sopratutto a causa dei teologi, che obbligò Descartes ad accettare nel 1649 l’invito della regina Cristina di Svezia, celebre mecenate di molti filosofi e artisti, la quale lo volle come insegnante di filosofia alla corte di Stoccolma. Ma il clima svedese fu fatale a Descartes che si spense l’anno seguente.

DESCARTES - LEZIONE 11
La natura del metodo cartesiano

11.1 - Descartes è definito il filosofo del metodo per eccellenza, dato che l’applicazione del suo metodo viene applicata a diversi ambiti della scienza. Tuttavia egli non diede mai una spiegazione chiara e definitiva del metodo. In gioventù Descartes aveva elaborato la sua MATEMATICA UNIVERSALE, un approccio scientifico che andava ben oltre i numeri e le figure geometriche, rivelando l’ORDINE, ossia la successione logica delle cose, e la MISURA, ossia la proporzione tra le cose.
Fino agli albori dell’età moderna lo schema di ragionamento preferito dalle filosofie razionaliste era il sillogismo di matrice aristotelica e scolastica. La condizione di universalità di almeno una delle due premesse era infatti garanzia di una positiva inferenza deduttiva che sfociava in una conclusione assolutamente indipendente dalle premesse. Ma già agli inizi dell’età moderna questo metodo inizia a essere sottoposto ad aspre critiche. Questo modello di ragionamento, seppur valido, apparve infatti subito inadeguato a un mondo di continue scoperte scientifiche. Questo schema di ragionamento aveva un senso in un tempo in cui la concezione del cosmo aveva carattere finito, e le conoscenze scientifiche avevano un carattere più rielaborativo che sperimentale, in cui il termine logico “tutto” aveva il senso dell’universalità. Ma in un mondo come quello rinascimentale, complicato dall’avvicendarsi di continue teorie e scoperte, la pretesa totalizzante era inammissibile. A colpire maggiormente il giovane Descartes era stato però un altro elemento, il fatto che Aristotele non usa mai il sillogismo nella sua forma pura e assoluta ma parte sempre da premesse che sono opinioni generalmente accettate e per questo universali, ma non frutto di un lungo lavoro di ricerca. Non lo fa poiché non avrebbe potuto: usare il termine logico “tutto” implica che tutti gli elementi considerati sono stati tutti esaminati, per escludere eventuali errori. Per questo il sillogismo viene usato in forma dialettica. L’accettazione di queste verità universali era tipica delle poleis greche e delle comunità cristiane medievali, in cui lai fiducia e la condivisione sorreggevano la ricerca del vero, ma era insostenibile nell’epoca moderna, caratterizzata dalla rottura del vecchio modello cosmologico ad opera della rivoluzione astronomica e dalla frattura del mondo cristiano. Questa inadeguatezza assume nel pensiero cartesiano le forme della DIFFIDENZA  e del DUBBIO. Descartes ritiene affidabile solo L’EVIDENZA CHE SI PRESENTA DIRETTAMENTE ALL’INTUIZIONE MEDIANTE RAPPRESENTAZIONI CHIARE E DISTINTE. 
Questa prima regola del metodo sancisce perciò l’abbandono del sillogismo in favore di una conoscenza vera che il sillogismo non poteva garantire.

11.2 - La seconda regola del metodo cartesiano è l’ANALISI, che amplifica ancora le distanze dal sillogismo aristotelico. La procedura di ragionamento sillogistica è infatti sintetica, in quanto la conclusione è la sintesi delle due premesse, invece il metodo cartesiano è analitico, e si basa sulla dissezione, in senso anatomico, dei diversi problemi, allo scopo di semplificarli e raggiungere una soluzione certa e valida. La prospettiva analitica va però inesorabilmente a scontrarsi con la visione di tipo organicista del naturalismo rinascimentale, in cui il mondo naturale viene visto come un gigantesco organismo dove ogni parte dipende dal tutto e dove il tutto non potrebbe stare senza le sue parti: l’ablazione di una di queste parti comporterebbe o la rigenerazione della parte mancante o la morte dell’organismo (esempio del corpo umano). Questa visione dell’intero, che di fatto impedisce uno studio analitico  della natura, rivela a Descartes l’esigenza di una ricomposizione delle parti, costituendo la terza regola del metodo che è appunto la SINTESI. 
La sintesi cartesiana non ha però nulla a che vedere con la sintesi sillogistica: così come un corpo umano smembrato inevitabilmente muore, allo stesso modo un organismo ricomposto non è mai uguale a prima. Alla prospettiva tradizionalmente organicista Descartes sostituisce quella meccanicista. Si intende per MECCANISMO un complesso di oggetti materiali in movimento, che costituiscono la realtà, i cui rapporti sono regolati da relazioni di causa ed effetto. Il meccanicismo, già teorizzato da Galileo, conduce anche al definitivo abbandono del finalismo aristotelico e medievale. L’universo è un insieme di movimenti meccanici senza uno scopo ultimo. Dio è il creatore della natura ma non è la natura stessa, non si identifica con essa come teorizzato dal PANTEISMO rinascimentale, anzi, è assolutamente lontano da essa. Attribuendo a Dio il ruolo di iniziatore del movimento dell’universo, la cui quantità di moto si mantiene costante, Descartes offre, a detta di molti suoi contemporanei e del suo amico Padre Mersenne, la migliore difesa del ruolo divino, a differenza della concezione panteistica del Dio-Natura che mescola Dio alle forze naturali, sfociando in una sorta di paganesimo.

11.3 - Malgrado la prospettiva meccanicista Descartes ritiene la deduzione uno strumento ancora indispensabile per la conoscenza, anche se - come per la sintesi - il suo significato appare diverso, e non è rappresentata più dall’inferenza universale-particolare ma dalla proporzione a:b=c:x, dove a, b e c sono gli elementi attraverso i quali pervenire alla conoscenza dell’incognita x. Rispetto al sillogismo, questo schema di ragionamento presuppone innanzitutto una scoperta, e, in secondo luogo, così come la sintesi dipende dall’analisi, la deduzione è sempre subordinata all’intuizione evidente, chiara e distinta. La condizione formale per la validità della procedura deduttiva infatti è che questi elementi devono essere sempre noti, conosciuti, e anche laddove siano risultato di altre proporzioni devono essere sempre sottoposti all’evidenza dell’intuizione. Descartes ammette nell’intuizione anche quelle semplici relazioni tra gli elementi (esempio 1+1=2) che consentono di non ricorrere alla memoria: questo sistema non aggiunge all’intuizione nulla di originale ma ne amplia le possibilità di ragionamento mediante la creazione di concatenazioni tra gli elementi, in modo da agevolare una comprensione più efficace dell’intero.

DESCARTES - LEZIONE 12
Il “cogito” e le idee

12.1 - Esposte le regole del metodo, Descartes si trova nella necessità di fondare queste regole allo scopo di pervenire ad una verità certa, che sia assoluta e autoevidente. Lo strumento usato per arrivare a questa certezza è il DUBBIO, nei due aspetti METODICO e IPERBOLICO.
Il dubbio metodico è la prima fase della ricerca cartesiana di una verità certa e si rivolge alla sensibilità. Esso si rivolge primariamente agli OGGETTI DEI SENSI, poiché i sensi possono sempre ingannarci, e quello che ci appare non può mai costituire una verità, a causa dei continui cambiamenti delle cose. Descartes rifiuta così, provvisoriamente, il mondo esterno, che non gli dò sicurezze. Dopo gli oggetti dei sensi si rivolge al proprio CORPO. Sarebbe assurdo negare il proprio corpo. Ma nessuno potrebbe garantire che il corpo che noi percepiamo sia vero. Si potrebbe pensare di vivere un eterno sogno e di non essere svegli, e che  tutto quello che noi vediamo sia falso. Un genio ingannatore potrebbe farci credere che questa sia la vera realtà che invece non esiste. Descartes conclude sostenendo che tutto il mondo è falso e false sono le scienze che lo studiano.
Il dubbio iperbolico è la seconda fase della ricerca cartesiana e si riferisce alla conoscenza intellettuale e sopratutto alla matematica. Galileo Galilei aveva descritto la matematica come il linguaggio più chiaro scritto da Dio, ma Descartes avverte: se è vero che 2+2 fa 4, non è certo che non esista un genio malefico che decida di ingannarmi facendomi credere che la somma di quei numeri faccia quel totale. Descartes prende dunque atto dell’impossibilità di conoscere sia la realtà esterna del mondo della natura sia quella interna del pensiero. Ma cosa sopravvive?

12.2 - Si può e si deve dubitare di tutto, afferma Descartes, ma solo di una cosa non possiamo dubitare: di pensare. Il pensiero è infatti l’unica vera certezza che abbiamo e costituisce la massima autoevidenza del sistema cartesiano: cogito ergo sum. Esisto in quanto sono in grado di pensare e di dubitare. Questa massima implica alcuni aspetti:
- innanzitutto il tentativo di falsificarla, implicando il pensiero, la rende vera;
- non deriva da nessun ragionamento sillogistico e non è dedotta;
- non è un’evidenza vera e propria ma è una evidenza in sé stessa;
- il fatto di esistere non implica che io abbia un corpo.
Descartes mette quindi in risalto una sola certezza, quella dell’esistenza del pensiero in sé stesso.

12.3 - Il pensiero, continua Descartes, non è vuoto ma contiene le IDEE. Si tratta di un’affermazione per quei tempi abbastanza rivoluzionaria: LE IDEE SONO MODIFICAZIONI DELLA SOSTANZA PENSANTE. Nella filosofia medievale, come nel pensiero antico, le idee erano prima di tutto mella mente di Dio quali modelli delle cose create e poi per analogia nella mente umana come modelli delle cose che l’uomo avrebbe fatto. Descartes invece afferma che le idee sono modi di essere del nostro pensiero e quindi sono interne al pensiero stesso. L’affermazione cartesiana è coerente col suo ragionamento: le idee sono rappresentazioni, immagini, prodotte dal pensiero, e quindi non ci dicono esattamente che esiste qualcosa di esterno ad esso.
Nonostante la grande originalità del pensiero cartesiano, la sua concezione delle idee e del pensiero è molto più vicina al pensiero aristotelico-scolastico di quanto lo stesso Descartes avrebbe voluto. Infatti:
- il pensare è ridotto a una SOSTANZA (res cogitans);
- questa sostanza ha dei modi, cioè degli ACCIDENTI (le idee);
Le idee di tipo quantitativo, assimilabili alle proprietà oggettive di Galileo, cioè quelle matematiche, appaiono chiare e distinte. Questo aspetto comporta due conseguenze: il superamento del dubbio iperbolico e la res extensa.
Il dubbio iperbolico viene superato in quanto le idee matematiche sono certe ed evidenti all’intuizione. Esse conducono alla probabile presenza di una realtà esterna. La certezza di questa realtà, che Descartes chiama sostanza estesa (res extensa), non è però acclarata. A questo punto Descartes si trova  due sostanze, una, quella pensante, priva del predicato di estensione, che è certa in quanto autoevidente, e la seconda, quella estesa, che non ha per ora  una certezza e che appare già come una realtà chiusa e finita, misurabile con gli strumenti della matematica.

DESCARTES - LEZIONE 13
Dio e il mondo esterno

13.1 - Descartes, affermando l’evidenza del cogito, supera di fatto il dubbio iperbolico, ma la certezza delle idee matematiche apre inevitabilmente una nuova fase di ricerca. Infatti la certezza del superamento del dubbio iperbolico può darla solo l’esistenza di Dio, che è onnipotente, a differenza dell’uomo che è limitato, e infinitamente buono, quindi non mi inganna: sarò dunque la dimostrazione dell’esistenza di Dio a confermare la certezza degli elementi chiari e distinti dell’evidenza. Le prove dell’esistenza di Dio sono tre:

PRIMA PROVA - Se io sono un essere imperfetto come posso avere un’idea di perfezione come quella di Dio? Evidentemente questa idea non deriva da me, poiché se così fosse io sarei stato perfetto e mi sarei creato ancora più perfetto di quello che sono. E siccome non sono in grado di crearmi da solo, altrimenti mi sarei creato perfetto, allora qualcuno mi ha creato.
SECONDA PROVA - L’esistenza sta a Dio come tre lati stanno al triangolo: l’esistenza stessa di Dio è sinonimo di perfezione, quindi se dicessimo che Dio non esiste, non staremmo parlando di Dio, in quanto Dio esiste proprio in quanto perfetto.

Queste prime prove non sono originali di Descartes, la prima è ripresa da San Tommaso, la seconda da Sant’Anselmo. La prova originale cartesiana è la terza. Prima di tutto Descartes chiarisce che noi ci riferiamo genericamente col termine di idee a tutti i contenuti del pensiero. Ma le idee sono di tre tipi:

IDEE AVVENTIZIE - derivano dai sensi (Descartes scrive “appaiono” con le virgolette poiché non è stata ancora dimostrata l’esistenza della res extensa), e sono confuse e oscure, poiché sensibili.
IDEE FITTIZIE - sono le idee prodotte dalla fantasia e costruite con le idee fittizie, come per esempio le sirene, gli unicorni, ecc.
IDEE INNATE - sono le idee originali del pensiero, che non sono derivate dai sensi e dall’esperienza, e per questo sono chiare e distinte. Sono necessarie e fondamentali: tra esse ci sono le idee matematiche che sono indispensabili alla conoscenza. E tra le idee innate è presente l’idea di Dio. 

TERZA PROVA - Essendo innata l’idea di Dio è chiara e distinta, proprio come può essere l’idea del triangolo, ma rispetto alle idee innate ha qualcosa di più: presuppone l’infinito, che non ha nulla a che vedere con la natura finita e limitata dell’essere umano. Dunque, afferma Descartes, se io sono finito e limitato come posso avere innata un’idea di infinità come quella di Dio? Evidentemente questa idea è stata posta dentro di me da un Essere Infinito e assai più potente di me, e questo ente è appunto Dio.

Questa terza prova, sottoposta a durissime critiche in quanto presuppone un circolo vizioso, dimostra dunque l’esistenza di una seconda sostanza, quella divina. La dimostrazione dell’esistenza di un essere perfetto e infinitamente buono sconfigge per sempre lo jpsettro del famoso genio malefico e ingannatore e consente a Descartes di superare in modo definitivo il dubbio iperbolico. Tuttavia questo non significa che il giudizio sia immune dall’errore, in quanto l’uomo è imperfetto. L’errore nasce da uno squilibrio tra l’intelletto, che è finito, e la volontà. Mentre l’intelletto si rivolge solo alle cose finite, la volontà pretende di innalzarsi oltre i confini fissati dall’intelletto, considerando chiare e distinte quelle cose che non lo sono: per questo motivo nonostante l’infinita bontà di Dio l’errore, a causa della volontà dell’uomo, non può essere estirpato dal mondo.

13.2 - Descartes si chiede dunque se sia possibile l’esistenza del corpo e di un mondo esterno. Fino a questo momento ogni dimostrazione di queste due realtà è stata vana a causa dell’inganno sensoriale, assimilato da Descartes a un genio malefico, e latore del dubbio. Dubbio che viene a cadere con la dimostrazione dell’esistenza delle due sostanze, pensante e divina. 
Descartes ricorre all’esempio del chilagono, un poligono regolare di mille lati, la cui idea matematica è pensabile ma non una sua rappresentazione in forma di immagine. L’esistenza del corpo è supposta dalla presenza nella res cogitans delle idee fittizie, che sono date dall’immaginazione e pertanto hanno origine dalle idee avventizie, che hanno origine dai sensi. Mentre l’intelletto non potrebbe giustificare l’esistenza di una corporeità, mentre l’immaginazione lascia supporre che esista qualcosa fuori dal solo pensiero e che costituisce un limite al pensiero stesso. L’immaginazione è attiva, e dipende dunque dalla mia volontà, mentre la percezione è passiva: mentre posso scegliere di immaginare un albero di qualsiasi tipo , se io vedo davvero un albero non posso impedirmi di vederlo, ed è questo obbligo che porta Descartes a dire che esiste un mondo esterno, poiché nessuna percezione può essere rifiutata. La garanzia della certezza dell’esistenza del corpo e del mondo esterno è data da Dio, in quanto buono e quindi non ingannatore. 
Da qui derivano alcune conseguenze rilevanti:
nonostante sia acclarata la certezza di una sostanza estesa, la sola certezza viene dalle idee matematiche, in quanto la realtà è mutevole e le idee proprie dei sensi non possono rappresentare la realtà di partenza;
tuttavia la presenza delle sole idee innate, chiare e distinte, non basta a darmi la certezza di avere un corpo, e quindi ho bisogno più delle idee oscure e confuse afferenti alla sensibilità;
il Dio cartesiano non è il Dio della religione ebraico-cristiana, quanto un Dieu des philosophes, col solo compito di garante della verità.

martedì 29 marzo 2016

2A - U4

2A - U4
Locke, Leibnitz e Hume

LOCKE - LEZIONE 17
Alle origini dell’empirismo
La genesi della conoscenza in John Locke

17.1 - La critica rivolta da Locke all’innatismo della scuola di Cambridge ha per molto tempo inserito arbitrariamente il pensiero lockiano nel novero delle filosofie empiriste. In realtà si può notare quanto Locke, nonostante la critica suddetta,  sia vicino a Descartes. La mente, dice Locke, non percepisce che le proprie idee: questa affermazione ha un grande significato logico,che viene rafforzato dalla convinzione lockiana che la conoscenza è conoscenza di rappresentazioni mentali. La condanna dell’innatismo è una conseguenza politica e religiosa: Locke infatti, testimone del fanatismo dell’epoca, voleva scongiurare a pretesa di possedere il monopolio della verità. La negazione delle idee innate risponde però anche a una precisa esigenza teoretica della filosofia di Locke, ossia quella di mostrare la genesi delle idee nella mente umana, dalle idee semplici a quelle complesse.

17.2 - Il concetto di idea di Locke si inserisce nello spazio lasciato libero da Descartes, il quale si limita a mostrarci le idee come già presenti nella mente ma non ce ne mostra la genesi: Locke per contro intende mostrare questo aspetto, dal semplice apparire dell’idea alla mente umana, fino a definirne lo sviluppo, dalle idee semplici alla loro composizione in quelle complesse. Però come Descartes Locke non spiega essenzialmente cosa sono le idee, anzi, è abbastanza vago sulla loro essenza. Locke descrive la mente come un foglio bianco che attende l’esperienza per riempirsi di caratteri. Questa celeberrima definizione comporta che: a) Locke parte proprio da un problema di natura religiosa, opponendosi più alle Scritture che a Descartes; e b) Locke inizia la sua indagine proprio dall’infanzia dell’uomo, ossia l’età che Descartes aveva liquidato bollandola come la fonte degli errori.

IDEE SEMPLICI - sono i primi segni che vengono tracciati sul foglio bianco della nostra mente, esse hanno carattere passivo, e non siamo noi a crearle, né abbiamo facoltà di rimuoverle. Esse sono di due tipologie: le idee della SENSAZIONE, che provengono dai cinque sensi e che riguardano le qualità (come il colore, il profumo), e le idee di RIFLESSIONE, che riguardano il senso interno, cioè la facoltà di giudizio, il dubbio, l’assenso. Nel pensiero di Locke non esistono idee innate e avventizie, come nella filosofia cartesiana, e la certezza della corrispondenza tra idee e cose non è più garantita da Dio ma viene confermata da più sensi. Questa conferma consente a Locke di  distinguere tra le qualità primarie e quelle secondarie o soggettive. L’accordo tra i sensi conduce alla conoscenza dello spazio e della figura: si nota nella filosofia lockiana un’accezione probabilistica, che accomuna Locke più a Descartes che agli empiristi, in quanto Locke non cerca tanto la certezza e la stabilità ma l’incertezza e il limite della conoscenza umana e l’errore che consegue al tentativo di varcarne i confini.

IDEE COMPLESSE - sono le idee prodotte dalla mente a partire dalle idee semplici e la loro genesi è attiva e non più passiva. Si dividono in tre tipi: a) le idee di MODO, che corrispondono agli accidenti della sostanza e che sono basate su una sola idea semplice ripetuta (MODI SEMPLICI) come lo spazio (ripetizione dell’idea di distanza) e il tempo (ripetizione dell’idea di durata), o su idee di diverso tipo (MODI MISTI) come la bellezza e la giustizia; b) le dee di RELAZIONE, che introducono più termini; c) le idee di SOSTANZA. Quello della sostanza è uno dei problemi cardinali della filosofia lockiana, dato che Locke ammette che la sostanza non è oggetto di una percezione diretta ma è data da una costruzione mentale. La percezione ci conduce a individuare insieme diverse qualità a cui diamo solitamente un nome (per esempio il tavolo o la sedia): ma, una volta spogliata dei suoi accidenti, come facciamo a individuare la sostanza? La vera novità di Locke è che la sostanza non corrisponde a un’idea semplice ma sia una raccolta di idee semplici, da cui  deriva ed è fondata. La sostanza è dunque un’idea complessa e non è più indipendente. Locke non rinuncia all’esistenza della sostanza ma la confina al rango di ESSENZA NOMINALE: si tratta della convenzione di nominare una serie di idee semplici che si presentano insieme con una certa parola (per esempio arancia: tonda, rugosa, arancione....). Le parole dunque non si riferiscono a cose reali ma a quelle collezioni di idee semplici che abbiamo nella nostra mente e che noi chiamiamo cose o sostanze: in questo senso il linguaggio ha uno scopo pratico e convenzionale, serve cioè a migliorare la comunicazione, ma è privo di qualsiasi valore teoretico, poiché i nomi che usiamo non è detto che corrispondano alle stesse idee che pensa il nostro interlocutore. Le sostanze sono quindi universali astratti, in cui è mantenuta la sola essenza nominale, spogliandola delle variazioni accidentali delle cose. La conoscenza per Locke consiste in un accordo (o disaccordo) tra le idee, ed espressa mediante il GIUDIZIO. Locke distingue 3 tipi di conoscenza certa:

a) conoscenza INTUITIVA, quando questa relazione avviene in modo chiaro e immediato e si ha una certezza assoluta;
b) conoscenza PER DIMOSTRAZIONI, quando questa operazione è eseguita attraverso la relazione tra intuizioni collegate tra di loro e pertanto si ha una certezza anche in questo caso;
c) conoscenza SENSIBILE, ossia la conoscenza diretta delle cose esterne e anche qui si rileva una certezza.

Questi tre tipi di conoscenza certa vanno distinti da altrettanti tipi di  conoscenza incerta:

a) conoscenza PROBABILE (priva della certezza empirica);  
b) conoscenza PER FEDE (che non puó essere verificata pur risultando attendibile);
c) conoscenza  basata sull'OPINIONE, che è la conoscenza più incerta di tutte.

17.3 - Conoscenza è per Locke la percezione delle relazioni tra le idee, che si sviluppa in diversi modi: dalla semplice relazione di identità (per esempio: il triangolo equilatero ha tre lati uguali e tre angoli uguali) fino alla coesistenza e alla contrapposizione (per esempio: la sedia non è il tavolo). Origine di ogni conoscenza è - come in Descartes - una intuizione o una dimostrazione, ma - a differenza di Descartes - Locke nega una sostanzialità della conoscenza, ossia non viene percepita una cosa estesa bensì una rete di relazioni tra i termini. Il pensiero lockiano risponde infatti a una vocazione funzionale e nominalistica, in cui la sostanza ha perso ogni importanza e i nomi sono solo comode abbreviazioni per chiamare le cose. Ma in Locke è presente anche una problematica metafisica, che incrocia la sua filosofia, e che riguarda tre aspetti: l’esistenza dell’io, del mondo e di Dio. Si tratta di tre problemi esposti in ordine crescente, che rievocano quelli cartesiani ma del tutto privi di quella drammaticità che aveva invece caratterizzato in Descartes il problema della certezza.

ESISTENZA DELL’IO - è dimostrata in modo intuitivo, attraverso il dubbio che accerta l’esistenza stessa;
ESISTENZA DI DIO - è dimostrata mediante la prova a contingentia mundi, in base alla quale ogni cosa contingente non può crearsi da sola ma bisogna quindi regredire fino a trovare l’autore della sua creazione;
ESISTENZA DEL MONDO - è dimostrata sensibilmente, in base all’accordo tra i sensi e al fatto che la loro azione non può essere condizionata in nessun modo.

LEIBNITZ - LEZIONE 18
I principi della logica e la libertà dell’uomo

18.1 - A differenza di Descartes che ripudia la sua formazione aristotelica e scolastica, Leibnitz predica proprio il ritorno a quelle FORME SOSTANZIALI proprie della logica aristotelica e che ritroviamo nei suoi principi logici. Tutto il sistema leibnitziano non parte da singole idee o semplici concetti, bensì dal GIUDIZIO che ne costituisce la loro unità ORGANICA  e INDISSOLUBILE: se viene meno questa unità, vengono meno le sue componenti. A differenza di Descartes, interessato al significato di singoli termini, Leibnitz è interessato al giudizio, espresso nella tradizionale forma “S è P” dove S è il soggetto, P il predicato e la copula “è” rappresenta l’unità della forma giudicativa. Secondo il rigido determinismo causale logico, come quello di Spinoza, l’attribuzione di un predicato al soggetto risponde a una naturale conseguenza, come nelle relazioni di causa ed effetto (per esempio: il corpo è pesante): ciò significa che un predicato è necessariamente proprio di quel soggetto (per esempio la pesantezza che appartiene all’essere corpo, e per questo un giudizio è vero o falso. Se una cosa accade, accade perché doveva accadere, se non accade non doveva accadere. Il predicato si deduce quindi dal soggetto secondo un ordine causale rigoroso: cil che non può essere attribuito è impossibile. Anche l’uomo è soggetto di giudizio, soggetto per eccellenza essendo egli stesso depositario della facoltà di giudizio, ma è evidente che un sistema così chiuso precluderebbe all’uomo quella spontaneità che caratterizza la facoltà di giudicare. Leibnitz individua due tipi di verità, le verità di RAGIONE e le verità di FATTO, che appartengono ai due principi logici, quello di IDENTITA’ e quello di RAGION SUFFICIENTE.

VERITA’ DI RAGIONE - sono le verità logico-matematiche (per esempio: ogni parte è minore del tutto o 7+5=12), il loro prodotto è finito e la garanzia della predicazione è fondata sul principio di identità. Si tratta di verità eterne, e, a differenza di Descartes, Leibnitz afferma che non possono essere modificate neanche da Dio.
VERITA’ DI FATTO - sono le più complesse, poiché date da una infinita serie di predicati attribuibili al soggetto, che li deve contenere tutti perché siano possibili (per esempio: Cesare passò il Rubicone implica che il soggetto Cesare deve contenere tutti i possibili eventi oltre all’evento accaduto). In questo caso la garanzia della relazione predicativa col soggetto è garantita dal principio di ragion sufficiente, che funziona “a posteriori”. A differenza di Dio che è in grado di stabilire “a priori” una relazione di identità, all’uomo è consentito individuare la “buona ragione”, tra tutte le altre, che ha portato Cesare a maturare la decisione di varcare il Rubicone per attaccare Pompeo. Questa buona ragione esprime una libertà: data la natura finita dell’uomo non serve un infinito numero di possibilità a motivare l’evento, ma servono quelle sufficienti a determinare “perché” è accaduta quell’azione. In questo caso la scelta di Cesare non è necessaria ma libera.

18.2 - Leibnitz ammette nella sua logica la possibilità. Dio ha un intelletto, in cui sono contenute le idee, relative alle verità di ragione, che hanno carattere necessario, e alle verità di fatto, che hanno carattere possibile. Le sole idee che la mente di Dio non contiene sono quelle impossibili, per esempio il ferro di legno o il quadrato rotondo. Tutte le idee possibili stanno tra loro in rapporti reciproci secondo la compossibilità’ che evita l’inganno della contraddizione: per esempio è possibile cj Cesare adotti Ottaviano ma non il contrario. Accanto alla compossibilità Leibnitz pone la volontà stessa di Dio, che mette insieme le idee compossibili per creare il migliore dei mondi possibili. Tra tutti i mondi che Dio poteva creare questo è il migliore: si tratta di un principio applicato ovviamente alle sole verità di fatto e non a quelle di ragione, che rivela il traguardo finalistico del pensiero leibnitziano. Questa posizione, che di fatto non prevede una finalità etica, pone due ordini di problemi, il primo riguardante Dio e il secondo l’uomo.
Primo problema è quello della TEODICEA: se è vero che Dio ha creato il migliore mondo possibile come mai questo mondo non è veramente migliore di altri e sopratutto contiene il male? In realtà Dio non ha creato il migliore mondo possibile ma il migliore tra i mondi possibili: nessuno avrebbe potuto o potrebbe fare meglio di Dio, perché il mondo è come un complesso algoritmo costituito da tutte le idee compossibili che devono essere combinate tra di loro. Solo Dio può fare una cosa del genere, mentre gli uomini, dalla loro posizione limitata e finita, non sono in grado di capirne la complessità.
Da questo primo problema deriva il secondo, quello della LIBERTA’: è libero l’uomo? Le azioni umane sono libere nel migliore dei mondi possibili creato da Dio? Il problema scaturisce dal fatto che nella realtà effettiva ogni azione è  determinata da una serie di fattori e produce una serie di conseguenze. Da qui la natura causale della libertà dell’uomo, inserita nella complessa rete di predicati che caratterizza ogni azione. Leibnitz sostiene che Cesare passa il Rubicone liberamente, nel senso che Dio ha disposto che egli liberamente agisse in questo modo per dichiarare guerra a Pompeo. Si tratta quindi di una libertà vincolata dall’ordine finalistico del mondo effettivamente scelto da Dio e contro questa concezione di libertà si opporrà Kant rivolgendosi alla legge morale universale e incondizionata racchiusa dall’imperativo categorico.

LEIBNITZ - LEZIONE 19
La metafisica dell’infinitesimale e l’organismo vivente

19.1 - La metafisica moderna si caratterizza per l’assunzione dell’infinito come punto di partenza per la conoscenza  della realtà (il Dio di Descartes ne è un esempio). La metafisica leibnitziana è la filosofia dell’infinitesimale. Tale elemento consente di cogliere i due diversi aspetti del reale. A differenza del meccanismo di Descartes, Leibnitz cerca di concepire il movimento in base a una teoria dell’organismo vivente. Al dualismo cartesiano Leibnitz oppone un ritorno ad Aristotele operato attraverso una sostanza individuale: il filosofo teorizza infatti un’infinità di sostanze con tratti singolari e irripetibili, simili ai predicati aristotelici. Sul piano logico questa sostanza è di fatto soggetto della predicazione, ciò da cui è possibile desumere i predicati ad esso attribuiti, sul piano metafisico è un vero e proprio principio vitale. Si tratta di un principio di natura spirituale, poiché la materia non potrebbe essere sostanza, in quanto divisibile all’infinito, proprietà che non consentirebbe alla sostanza di essere ricondotta come soggetto unificatore dei predicati. Pertanto la sostanza non può essere identificata come estensione, figura o movimento. 
Leibnitz identifica la sostanza con l’organismo vivente. Infatti a differenza del meccanismo, che non è veramente uno - fa l’esempio di un orologio che possiamo smontare e rimontare e sostituire i pezzi - l’organismo ha una sua unità intrinseca, in cui le parti dipendono dal tutto e sono altro se separate dal tutto: esso è perciò complesso ma non composto. A differenza di Descarte Leibnitz afferma che cil che viene mantenuto costante in un organismo non è tanto la quantità di moto ma la forza vitale. Proprio per tale ragione, mentre la materia inerte aspetta una forza esterna che le dia forma, l’organismo è in grado di darsi da sé una forma distinta e di rigenerare le parti eventualmente mancanti. Nella fase successiva della sua metafisica Leibnitz sostituisce al concetto di organismo quello di MONADE, una sostanza indivisibile, semplice e unitaria e sopratutto immateriale, animata da una forza vitale.

19.2 - La sostanza è una unità complessa di elementi contraddistinta da una monade dominante, l’anima (l’ENTELECHIA aristotelica), suo principio vitale e forma. Ogni parte di questa unità complessa, separata dal resto, diventa una cosa diversa e a sua volta con una monade che la contraddistingue (per esempio: braccio, mano, dita). In quanto non estesa la monade contiene già in sè tutti i predicati e tutti i pensieri e gli accidenti. I caratteri della monade sono: a) la PERCEZIONE cioè la coincidenza delle rappresentazioni che a monade ha internamente del mondo e b) l’APPETIZIONE, che estende e collega le percezioni tra loro. Le monadi stanno tra loro in rapporti gerarchici: come già Descartes, anche Leibnitz non oppone una distinzione tra qualità soggettive e oggettive, tra idee confuse e oscure e idee chiare e distinte, quanto un passaggio continuo e graduato. Al vertice della gerarchia ci sono le monadi superiori, dotate di APPERCEZIONE, ossia l’AUTOCOSCIENZA (la consapevolezza della percezione), in grado di passare dalla vita biologica a quella morale. La monade somma è Dio, a cui è riservata una conoscenza intuitiva e distinta, che è preclusa agli uomini, mentre alla base di tutte le monadi ci sono le piccole percezioni che non raggiungono la soglia della coscienza e che fanno solo un confuso e indistinto brusio.

19.3 - Nel pensiero leibniziano sono presenti altri due principi di natura logica e metafisica. Il primo, di natura logica, è l’identità degli INDISCERNIBILI: non esistono nell’universo, dice Leibnitz, due sostanze uguali altrimenti sarebbero la stessa cosa. Qui è evidente che Leibnitz si sta riferendo ai predicati, e non alla sostanza, che è inestesa e quindi non occupa uno spazio: dunque, dice Leibnitz, è impossibile che esistano sostanze con medesimi predicati, in quanto non sarebbe comprensibile perché Dio avesse creato l’una piuttosto che l’altra. Il secondo principio, di natura metafisica, è quello dell’ARMONIA PRESTABILITA. Nonostante le monadi siano chiuse, sono coordinate da Dio che ha fatto in modo che tutte le rappresentazioni del mondo contenute dentro ogni monade si corrispondano in maniera perfetta. Dunque nonostante il loro isolamento le monadi percepiscono lo stesso universo che esiste come conseguenza di questa armonia prestabilita: in tal modo ogni monade offre, nonostante il suo isolamento, un diverso angolo visuale che si completa con le altre monadi per esempio all’azione di dare uno schiaffo corrisponde la percezione del dolore che appartiene a un’altra monade.

19.4 - Newton aveva inteso lo spazio è il tempo come realtà esistenti nella natura, oggettive e assolute. Si trattava di una totalità omogenea, uniforme e indifferenziata. Leibnitz contesta Newton, sostenendo che se l’universo fosse un tutto indistinto non vi sarebbe alcuna ragione della varietà dell’armonia prestabilita voluta da Dio. Spazio e tempo non esistono in quanto tali, ma derivano alla corrispondenza delle percezioni che le monadi hanno dei corpi nell’armonia prestabilita: secondo l’ordine della COESISTENZA dei corpi nel caso dello spazio, secondo l’ordine della loro SUCCESSIONE nel caso del tempo. In coerenza col suo PANPSICHISMO Leibnitz ritiene che tutto nell’universo sia vita e anima, e per questo nega una posizione di realtà agli stessi corpi, facendoli derivare come già per il tempo e lo spazio dall’insieme delle percezioni delle monadi. Il rapporto tra i corpi è di natura meccanicistica e casuale, anche se qui non siamo di fornte al rigoroso ordine cartesiano ma piuttosto a un disegno finalistico nell’ordine dell’armonia prestabilita. Ed è appunto questa armonia ad allontanare Leibnitz da Descartes, laddove egli afferma che su percepisce di avere un corpo proprio perché si hanno percezioni confuse. Le monadi sono infatti ordinate gerarchicamente e più ci si allontana dalla monade somma, ossia Dio, più si va verso la confusione. Le monadi situate a un più basso livello gerarchico avranno quindi una capacità percettiva ottusa e offuscata.

HUME - LEZIONE 21
Le idee, la conoscenza, la causalità

21.1 - Il pensiero di Hume segue tre direttrici, a loro volta riconducibili ad altrettante categorie storico-filosofiche: lo SCETTICISMO, cioè l’accettazione della sola esperienza sensibile come fonte di conoscenza; l’ILLUMINISMO, che parte dallo scetticismo per criticare la metafisica e la religione, sia  quella tradizionale sia quella  naturale; l’ANTROPOLOGIA, ossia lo studio dell’uomo in quanto uomo, ossia soggetto di conoscenza. Hume chiama genericamente percezioni i contenuti della nostra mente, sia che provengano dall’esterno in quanto sensazioni, sia che provengano dall’interno come i pensieri. Queste percezioni sono distinte in IMPRESSIONI e IDEE. Le impressioni sono le rappresentazioni sensibili della realtà, tutto ciò che viene percepito qui e ora, come nell’evidenza cartesiana. A differenza di Descartes però Hume conferisce alle impressioni e a tutto ciò che viene dai sensi un carattere fondamentale per la conoscenza, fino a considerarle un criterio di verità. I sensi non sono ingannatori, anzi, sono testimoni del vero: responsabile degli errori è per contro l’IMMAGINAZIONE. Infatti le due facoltà che ci consentono di passare dall’evidenza nitida ma imitata delle impressioni alla stabilità delle idee sono la MEMORIA  e l’IMMAGINAZIONE. Mentre la memoria si limita a  conservare fedelmente la vivacità originale delle impressioni, l’immaginazione, operando in base al principio dell’ASSOCIAZIONE, unisce più impressioni in una sola idea fornendo una rappresentazione sicuramente più ampia ma anche meno esatta della singola impressione. L’associazione agisce secondo tre criteri: a) il criterio della SOMIGLIANZA, che si ha quando una singola impressione ne richiama un’altra analoga (per esempio un colore richiama alla mente altri colori); b) il criterio di CONTIGUITA’, quando una singola impressione ne richiama un’altra vicina (per esempio un vestito richiama la persona che lo indossa); c) il criterio di CAUSALITA’, secondo cui due impressioni sono accostate per una relazione causa-effetto (per esempio lampo e tuono). Hume va a coprire in questo modo un vuoto del sistema di Locke, che non spiegava di fatto il passaggio dalle idee semplici alle idee complesse. Ma questo principio ha solo un valore psicologico, ossia non ha né un valore soggettivo né oggettivo ma è come se fosse sospeso tra questi due e necessita dunque dell’immaginazione per creare un’idea, stabilizzando così il modo causale in cui la natura si presenta all’uomo. Hume definisce il legame che si crea tra le impressioni una DOLCE FORZA, dolce proprio a indicare che il legame non è inalterabile e può essere spezzato e ricomposto, in una serie di associazioni alternative. Hume getta così di fatto le basi del CONVENZIONALISMO. Hune distingue infatti tra due tipi di conoscenza: la conoscenza delle RELAZIONI TRA IDEE, ossia la conoscenza matematica, che è certa poiché non necessita di dimostrazione, e la conoscenza delle QUESTIONI DI FATTO, ossia la conoscenza della scienza naturale e della metafisica, delle cui idee non sappiamo l’origine e per questo si ha bisogno della dimostrazione per garantirne la certezza. Se la dimostrazione fallisce l’idea non potrà essere considerata valida.

21.2 -  Nella critica di Hume al principio di causalità è interessante l’esempio del biliardo. Se assistiamo a una partita di biliardo, sicuramente percepiremo tre impressioni: a) il movimento delle due sfere (principio della SUCCESSIONE); b) l’urto tra le due sfere (principio della CONTIGUITA’); c) l’effetto del tiro sulle due sfere (principio della CONGIUNZIONE). Queste tre impressioni fanno parte della causalità ma non bastano a giustificarla poiché è assente proprio l’impressione necessaria, quella del passaggio da A a B. La causalità, dice Hume, non è una qualità degli oggetti ma una relazione, e perciò non può scaturire, ANALITICAMENTE, come proprietà dI un oggetto (a priori), ma può essere colta solo SINTETICAMENTE con l’esperienza (a posteriori): infatti se vediamo molte volte che l’evento B segue all’evento A ne deduciamo che A è causa di B. Si tratta di un procedimento a carattere induttivo, che a sua volta deve essere supportato dalla regolarità della natura (R) che permette di sostenere la relazione di causalità. Ma questa regolarità si rivela solo con l’esperienza e solo l’esperienza ci dice che essa è valida, perché le cose sono sempre andate in questo modo, ma questa validità non costituisce una certezza, rendendo la relazione di causalità indimostrabile.

HUME - LEZIONE 22
L’immaginazione, l’io e il mondo

22.1 - L’assoluta indimostrabilità dei rapporti di causa-effetto inficia in modo negativo l’intera visione scientifico-naturale del mondo, e il modo in cui viene pensata la realtà. Ma Hume non fu il solo filosofo a negare questa prospettiva (e non sarà neanche l’ultimo): l’originalità del pensiero di Hume consiste in un approccio metodologico fondato non su premesse teologiche, come nel caso di Leibnitz per esempio, ma su premesse antropologiche. Hume si chiede come debba essere fatto l’uomo per riaffermare l’esistenza di questi processi causali che la ragione tende a negare. Secondo Hume la scienza della natura non si discosta dal modo umanamente istintivo di spiegare il reale, ripetendo gli stessi errori. Ma se lo scetticismo cartesiano considerava il dubbio come una preparazione alla soluzione che lo avrebbe poi eliminato, quello humiano non perviene a una vera conclusione. Infatti lo scetticismo di Hume è una vera e propria presa d’atto, da parte della filosofia, una dichiarazione di resa, di impotenza e di rassegnazione, nei confronti del dispiegarsi della vita. Qui è la forza vitale a prendere il sopravvento sulla pretesa onnipotenza cartesiana della ragione. La forza vitale secondo Hume si esprime nell’uomo attraverso tre forme: ABITUDINE, CREDENZA, IMMAGINAZIONE. L’immaginazione genera associativamente le idee delle relazioni causali, l’abitudine la rafforza constatando il collegamento tra diverse impressioni: da ciò deriva la credenza dell’esistenza di una causalità naturale. La credenza non è un’idea ma un modo di apparire delle idee, che conferisce una validità apparente agli oggetti rendendoli persuasivi. La credenza è importante: se la credenza non ci fosse sarebbe pericoloso: il mondo sarebbe caotico e frammentario e ogni evento imprevedibile. Per questo la credenza, come l’immaginazione e l’abitudine, è NECESSARIA per l’uomo. Necessaria non vuol dire vera: la necessità non comporta infatti l’esistenza, così come se l’idea di Dio fosse necessaria per regolare i comportamenti umani non significherebbe che Dio esiste. 
L’uomo non è dunque, conclude Hume, un animale razionale, ma un animale immaginante e abitudinario: non sono i sensi a ingannalo ma il sentimento di fiducia necessario a colmare la propria impotenza. 

22.2 - Il meccanismo antropologico della credenza coinvolge oltre la causalità anche l’esistenza del mondo esterno e dell’io.
Credere all’esistenza di un MONDO ESTERNO significa credere in una realtà stabile e ordinata. Rifacendosi a Berkeley, Hume afferma che le impressioni esistono perché siamo noi a percepirle: non è possibile guardare dietro le impressioni e scoprire la realtà, se si facesse questo si scoprirebbero solo altre impressioni. Per le stesse ragioni della credenza nella causa anche in questo caso è necessario che l’uomo creda a una realtà stabile e ordinata. Allo stesso modo è necessario ammettere l’esistenza di un IO PERSONALE come la res cogitans cartesiana, a cui affidare pensieri e passioni, anche se il mondo esterno al di fuori del pensiero non esistesse affatto. Ma l’esistenza del pensiero non giustifica affatto quella di ciò che viene pensato dal pensiero stesso: non esiste infatti un’impressione che possa convalidare le idee, la res cogitans cartesiano o l’io personale humiano. L’io personale è un FASCIO DI IMPRESSIONI, legato dalla memoria e dall’immaginazione, gli stessi agenti responsabili del passaggio dalle impressioni alle idee. La credenza ci abitua a considerare rapporti causali pregressi mentre l’immaginazione prefigura  le conseguenze future, senza però nessuna impressione di supporto che possa validare questa idea. Hume mette dunque in discussione anche l’io personal, negando scetticamente la res cogitans cartesiana.

22.3 - Hume giunge dunque a una concezione AFINALISTICA della realtà:  si tratta di una concezione diversa dal rigoroso geometrismo  spinoziano, in cui viene negato ogni  legame causale e in cui la probabilità si sostituisce alla certezza della deduzione. Le stesse leggi naturali sono esempi di probabilità, per esempio non è certo che domani sorgerà il sole: è sempre successo così e probabilmente continuerà a succedere così ma non ci sono certezze che sarà sempre così. Hume concorda con Spinoza sulla considerazione che il mondo finalistico è una metafora antropologica, ma a differenza di Spinoza Hume evidenzia l’incessante attività umana ed i meccanismi di adattamento all’ambiente, allontanandosi dall’immagine dell’uomo come animale razionale della filosofia aristotelico-cartesiana, e avvicinandosi dunque alle stesse posizioni dell’antropologia moderna.