mercoledì 31 agosto 2016

700 - Parte 1A

IL 700 - PARTE 1A
LA PRIMA METÀ DEL SETTECENTO

Il secolo XVIII si potrebbe dividere storicamente in due fasi, una di equilibrio e una rivoluzionaria. Lo storico francese Godechot non esita infatti a inserire le rivoluzioni borghesi che interesseranno la seconda parte del Settecento e la prima parte dell’Ottocento in un movimento ben più vasto che egli definisce rivoluzione atlantica, una rivoluzione che ha le radici storiche, politiche e culturali nella prima metà del secolo. Il Settecento viene frazionato come i secoli precedenti da una pace, la pace di Aquisgrana del 1748, a un secolo esatto dalla pace di Westfalia. Il secolo si apre con uno stato di belligeranza che coinvolge le principali monarchie europee impegnate nelle cosiddette guerre di successione, la prima delle quali è quella che si apre dopo la morte del re di Spagna Carlo II e che segnò la fine del disegno espansionistico del Re Sole. Molto importante da sottolineare è la politica diplomatica intrecciata dai vari paesi europei allo scopo di evitare la presenza di una nazione egemone: la prima parte del secolo si chiude con uno stato politico di equilibrio. La vera grande guerra della prima metà del secolo è la guerra dei Sette Anni, che coinvolge le grandi cinque potenze europee del Settecento: la Francia, l’Inghilterra, la Prussia, l’Austria e, per la prima volta, la Russia. La pace di Aquisgrana ridisegnava la carta geopolitica dell’Europa e, nella seconda metà del secolo, dopo la restaurazione si procedeva alle riforme politiche e sociali. La cultura dell’Illuminismo aveva infatti prodotto una radicale svolta non solo nella storia del pensiero ma anche in quella economica e sociale, e andavano affermandosi delle nuove identità politiche che si sarebbero poi espresse con l’avvento delle grandi rivoluzioni borghesi. Non ultima ovviamente la rivoluzione industriale, il cui terreno strutturale si poteva già intravedere nell’Inghilterra del Seicento, favorita dalle innovazioni tecnologiche e dall’affermarsi della libera impresa.

LA GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA

Il susseguirsi delle crisi dinastiche apriva nuovi spazi al processo di espansione territoriale delle grandi monarchie europee. Alle tre principali guerre di successione, quella spagnola, quella austriaca e quella polacca, bisogna aggiungere la seconda guerra del Nord. Come abbiamo detto prima, l’opera diplomatica fu incessante e finì con lo stabilire un equilibrio politico tra le parti. Si trattava di un equilibrio fittizio, poiché dalla pace di Aquisgrana escono cinque potenze e soprattutto viene ridisegnata la mappa delle leadership politiche nel nord e nel Baltico: nella seconda metà del Settecento la guerra dei Sette Anni rimetterà in discussione la guida politica dell’Europa.
Il debole e malato Carlo II muore senza eredi nel 1700. A contendersi il trono erano soprattutto la Francia, poiché la regina Maria Teresa era sorella di Carlo, e l’Impero, perché l’altra sorella di Carlo II, Margherita, aveva sposato Leopoldo I. Il testamento del defunto re indicava quali eredi, in prima battuta il pronipote di Luigi XIV e Maria Teresa, Filippo di Borbone duca di Angiò, a patto che rinunciasse alle pretese dinastiche sul trono francese, e in subordine il secondogenito di Leopoldo I e Margherita, l’arciduca Carlo d’Asburgo. Nel 1701 sale dunque al trono Filippo V, ma il pronipote di Luigi XIV non accetta la clausola di rinuncia imposta dal testamento, ingrandendo così i domini franco-spagnoli e alterando il faticoso equilibrio uscito dalla pace di Rijswijk. Le potenze europee decidono di intervenire e costituiscono l’alleanza antifrancese dell’Aja, intervenendo contro Filippo V e sostenendo la candidatura di Carlo d’Asburgo. L’elevato numero delle potenze e degli stati in guerra fa sì che il conflitto si svolga su diversi fronti, quello meridionale di Gibilterra e delle Baleari dove operarono gli inglesi, quello catalano dove sbarca l’arciduca Carlo d’Asburgo, quello piemontese dove i Savoia sconfiggono l’esercito francese e quello italiano del meridione dove operarono gli austriaci. La Francia si vide lentamente privata dei suoi principali possedimenti, ma riuscì a recuperare nel 1709 a Denain. Una svolta decisiva si ebbe nel 1711 con la morte improvvisa dell’imperatore austriaco Giuseppe I, che obbligò Carlo d’Asburgo alla successione.
A questo punto Inghilterra e Olanda decidono di chiudere il conflitto e avviano le trattative per la pace a Utrecht, mentre il neo imperatore Carlo VI prosegue la guerra. Poco dopo anche l’Austria esce dal conflitto e avvia le trattative di pace a Rastadt.
Nel 1713 gli stati della Coalizione antifrancese firmano la pace di Utrecht con la Francia, a cui segue nel 1714 la pace di Rastadt tra Francia e Impero. Queste le conseguenze: Filippo V resta re di Spagna e rinuncia ad ogni pretesa dinastica sul trono francese; Carlo VI rinuncia alla corona spagnola e ottiene in compenso i Paesi Bassi spagnoli, il Milanese, il ducato di Mantova, la Sardegna e il regno di Napoli; Vittorio Amedeo II di Savoia ottiene il titolo di re più la Sicilia e il Monferrato; Federico I Hohenzollern diventa re di Prussia e ottiene la Gheldria; l’Inghilterra ottiene vari territori francesi e spagnoli più il cosiddetto asiento, il monopolio del commercio degli schiavi.

LA SPAGNA

In Spagna regnava dunque Filippo V, che cerca di riordinare le finanze statali, ormai provate dalle guerre e dalla crisi. Filippo sposa in seconde nozze Elisabetta Farnese, erede del ducato di Parma, al cui seguito c’era il potente e abile cardinale Alberoni. Alberoni voleva restaurare l’egemonia spagnola in Italia, ormai compromessa dalla pace di Utrecht, al fine di garantire ai figli di Elisabetta i troni di Parma e di Toscana. Nel 1717 la flotta spagnola sbarca in Sardegna e nel 1718 in Sicilia. A questo punto le potenze europee si coalizzano di nuovo per salvaguardare l’equilibrio europeo e fermano gli spagnoli a Capo Passero. La Spagna viene obbligata a firmare nel 1720 la pace dell’Aja con cui rinuncia definitivamente a ogni disegno espansionistico ai danni dell’Italia; in compenso al figlio di Elisabetta e Filippo, don Carlos, viene garantita la successione ai trono ducali di Parma e di Toscana e all’Austria viene data la Sicilia, mentre la Sardegna passa a Vittorio Amedeo II, che assume il titolo di re di Sardegna.

LA FRANCIA E L’INGHILTERRA

Nel 1715 muore il Re Sole. Il suo successore, il piccolo Luigi XV, sottoposto alla reggenza del duca Filippo di Orléans, trova il paese in condizioni disastrose, poiché il regno assolutista del prozio non era riuscito a modernizzare le strutture socioeconomiche dello stato né quelle amministrative. Durante la minorità del delfino il duca di Orléans cerca di attenuare l’assolutismo politico della monarchia francese restituendo potere al parlamento, e avvia un progetto di risanamento economico seguendo le idee del finanziere scozzese John Law. Primo atto di Law è la creazione di una Banca Nazionale, che emette carta moneta, e trae profitto dalla Compagnia d’Occidente, poi Compagnia delle Indie, che aveva il monopolio dei traffici col nuovo continente e le cui azioni sono contese attraverso operazioni di speculazione. Nel 1720 Law viene nominato controllore generale delle finanze dello stato, ereditando l’ufficio di Colbert, ma dopo la fusione della Compagnia e della Banca, una pesante bancarotta lo fa cadere in disgrazia. Luigi XV affida il governo al suo vecchio tutore, il cardinale Fleury, che riporta il bilancio statale in pareggio. Nel 1743 Luigi XV restaura il potere assolutista del Re Sole guidando direttamente lo stato senza altri intermediari.

L’Inghilterra apre il secolo all’insegna della crisi dinastica, dovuta alla morte della regina Maria Stuart, priva di una discendenza diretta. Il Parlamento emana l’Act of Settlement, che assegnava la corona prima alla sorella minore della regina, Anna, e poi a Giorgio I di Hannover, entrambi protestanti, escludendo così i cattolici discendenti di Giacomo II dalla successione. Nel 1701 muore Guglielmo III di Orange e, dopo il regno di Anna Stuart nel 1714 sale al trono Giorgio I di Hannover. Il ruolo parlamentare è dominante, infatti durante il regno di Anna la maggioranza whig porta l’Inghilterra a partecipare alla guerra di successione spagnola, mentre dopo la vittoria elettorale dei tories nel 1711, la nuova maggioranza porta il paese a un maggiore impegno sul fronte commerciale. Nel 1707 si forma il Regno Unito di Gran Bretagna, che inglobava le corone di Scozia e Inghilterra. Durante il regno di Giorgio I il parlamento, di nuovo in mano ai whig, riceve dal sovrano la delega per governare. Nel 1716 il Septennial Act fissava la durata della legislatura parlamentare a sette anni.
Nel 1721 inizia il governo del primo ministro whig sir Robert Walpole, sotto il quale l’Inghilterra si avvia a consolidare la sua potenza commerciale, mentre in politica estera inizia un periodo di pace, se si esclude un intervento nel 1739 ai danni della Spagna, per costringerla a rispettare i dettami della pace di Utrecht. Nel 1727 sale al trono Giorgio II. 

LA SECONDA GUERRA DEL NORD

La seconda guerra del Nord scoppia durante il periodo della guerra di successione spagnola. La causa della guerra fu la spartizione del Baltico, su cui erano interessate la Svezia e la Russia. Nel 1700 una coalizione antisvedese con Polonia e Danimarca, capeggiata dalla Russia dello zar Pietro il Grande, attacca la Svezia; ma il re svedese Carlo XII si sbarazza senza difficoltà degli avversari e sconfigge i russi a Narva. Pietro il Grande non si dette per vinto e, dopo aver ripreso la marcia verso il Baltico fondando la città di Pietroburgo, riconquista Narva nel 1703. Carlo XII fa allora in modo che sul trono polacco sieda il suo uomo fidato Stanislao Leczynski, in luogo del deposto Augusto II di Sassonia. Riprende dunque la guerra alla Russia, sperando di arrivare a Mosca, ma viene sopraffatto dalla classica tattica dell’esercito russo che, dopo aver fatto terra bruciata, costringe Carlo a riparare in Ucraina; qui, nonostante un’alleanza con i Cosacchi, l’esercito svedese è sconfitto a Poltava (1709) mentre Carlo è costretto a rifugiarsi presso il sultano ottomano. Inutilmente Carlo cercò di sobillare il sultano contro la Russia: l’abilità diplomatica dello zar portò infatti alla sottoscrizione della pace di Husi e alla restituzione di Azov agli Ottomani, che, per tutta risposta, trattennero per cinque anni il sovrano svedese. Durante l’assenza di Carlo la Russia riesce a riportare sul trono polacco Augusto II, mentre alla coalizione si aggiungono la Prussia e l’Hannover. Rientrato in patria dopo cinque anni, Carlo cerca di riprendere la guerra, ma muore nel 1718. La Svezia decide così di avviare le trattative di pace: nel 1720 viene firmata la pace di Stoccolma con Prussia e Hannover, nel 1721 la pace di Nystadt con la Russia. Questi trattati di pace ridimensionarono il ruolo svedese nel Baltico e rilanciarono invece la Russia nel novero delle potenze mondiali.

LA RUSSIA

Pietro il Grande, zar di Russia, fu l’artefice della rinnovata grandezza del suo paese. Alla fine del Seicento, quando Pietro salì al trono, trovò un paese immenso ma indebolito nelle sue strutture sociali ed economiche e una profonda arretratezza. Perciò si propose una immediata modernizzazione del paese, e un rilancio in ambito europeo. Fu un viaggio in Occidente a convincere lo zar del ruolo che la Russia avrebbe potuto giocare in Europa, e simbolo di questo nuovo ruolo fu la città di Pietroburgo, voluta dallo stesso zar come una “finestra sull’Occidente” e simboleggiante il nuovo corso russo.
Politicamente le riforme di Pietro il Grande ricalcarono il centralismo e l’assolutismo delle grandi monarchie europee, con un notevole rafforzamento del potere centrale e di una migliore distribuzione di questo sullo sconfinato territorio russo, mediante l’istituzione di collegi e governatorati. L’apparato fiscale fu riordinato e la Russia adottò la stessa politica mercantilistica della Francia. Al controllo zarista non sfuggì nemmeno la Chiesa.
Sicuramente la mossa vincente dello zar fu il ridimensionamento dei poteri dell’aristocrazia terriera, con la soppressione della Duma dei boiari e con l’invito fatto ai nobili di porsi al servizio dello stato, introducendo un attento accesso meritocratico ai ruoli della nobiltà anche per i non aristocratici (Tavola dei Ranghi); ma anche imponendo una maggiore cura europea nell’abbigliamento e nello stile, obbligando ad esempio al taglio della barba.

LA GUERRA DI SUCCESSIONE POLACCA

Augusto II di Sassonia, restaurato da Pietro il Grande, muore nel 1733, aprendo il difficile problema della successione. I due candidati erano Stanislao Leczynski, appoggiato dalla Francia, e Federico Augusto III di Sassonia, appoggiato da Austria e Russia. La nobiltà polacca, corrotta dalla Francia, elegge Stanislao Leczynski, provocando così la reazione russa e austriaca e una conseguente guerra. È la Francia, con l’aiuto della Spagna e del Regno di Sardegna, ad attaccare per prima, spostando il territorio del conflitto in Italia, sia per evitare di coinvolgere l’Inghilterra, sia perché la Francia mirava in realtà ai domini austriaci in Italia, subito invasi dalle truppe francesi, spagnole e piemontesi. Vistasi accerchiata l’Austria si arrende e firma la pace di Vienna (1738) con cui si chiude il conflitto.
Federico Augusto viene dunque riportato sul trono polacco, mentre il suo rivale viene compensato con la Lorena, dietro promessa di una cessione alla Francia alla morte del Leczynski (avverrà nel 1766); Stefano di Lorena viene a sua volta nominato granduca di Toscana, dopo che nel Granducato si era estinta la dinastia medicea; l’Austria conserva il territorio milanese più Parma e Piacenza, mentre al sud d’Italia, questa la vera novità, i domini austriaci passano ai Borbone di Spagna. Carlo di Borbone diventa così re di Napoli e di Sicilia.

L’IMPERO ASBURGICO

L’Impero degli Asburgo esisteva solo di nome, ma non di fatto, poiché i suoi 343 stati godevano di ampie autonomie territoriali. Unici territori in cui il potere centrale poteva farsi sentire erano i domini diretti, che facevano capo all’Austria. Dal 1705 al 1711 regna l’imperatore Giuseppe I. Poco prima della sua ascesa al trono scoppia la rivolta della nobiltà ungherese, che mal sopportava l’asfissiante assolutismo centralista asburgico, che, dovendo controllare un territorio piuttosto disomogeneo, era molto oppressivo. La lotta più importante era quella religiosa, poiché gli Asburgo imponevano il cattolicesimo. Alla fine la rivolta viene piegata, ma l’Ungheria ottiene alcune autonomie politiche e amministrative. Nel 1711 sale al trono Carlo VI, sotto il quale l’Austria conosce un trentennio di discreta fortuna economica e politica. L’evento più significativo del regno di Carlo VI è l’adozione della Prammatica Sanzione, con cui aboliva la tradizionale legge salica e garantiva alle donne la successione al trono. La fortuna asburgica era la figura dell’imperatore, che garantiva unità al territorio e lo riparava dalle insidie delle monarchie europee: Carlo voleva così garantire la successione della figlia Maria Teresa, che poi sposerà Stefano di Lorena. Per farsi riconoscere la Prammatica Sanzione Carlo VI rinunciò al ruolo politico dell’Austria in Europa, e soprattutto abbandonò il Meridione italiano che passò ai Borbone.

LA GUERRA DI SUCCESSIONE AUSTRIACA

Morto Carlo VI nel 1740, gli succede appunto Maria Teresa, ma la sua ascesa al trono non veniva accettata ancora da tutte le monarchie europee. Prussia, Francia, Spagna e Sardegna chiedevano compensi territoriali per riconoscere la successione, mentre la Baviera rivendicava il titolo imperiale per Carlo Alberto. Le ostilità sono aperte dalla Prussia, che invade la Slesia, spingendosi poi in territorio austriaco e costringendo l’Austria a firmare la pace di Breslavia (1742) con cui cede parte della Slesia alla Prussia. L’Ungheria si dichiara fedele all’imperatrice in cambio di una totale esenzione fiscale.
Dopo un momento felice, in cui l’Austria riesce a cacciare gli eserciti nemici con l’appoggio di Inghilterra, Olanda, Sassonia e Sardegna, la Prussia torna a occupare la Slesia, obbligando gli austriaci a cederla con la pace di Dresda. Intanto il conflitto si era generalizzato, e si era trasformato in una contesa personale tra Inghilterra e Francia. I costi insostenibili obbligarono però le nazioni coinvolte alle trattative di pace, e nel 1748 viene conclusa la pace di Aquisgrana con cui viene riconosciuta la legittimità della successione imperiale di Maria Teresa d’Asburgo, e la conservazione di tutti i domini asburgici, a parte la Slesia che viene appunto ceduta alla Prussia. Inoltre si rafforza il dominio di Carlo Emanuele III di Savoia, mentre i ducati di Parma e Piacenza passano a Filippo di Borbone, fratello di Carlo.

L’ITALIA

Questa era la complessa geografia politica dell’Italia nella prima metà del Settecento:
Regno di Sardegna, retto dai Savoia, comprendente Piemonte, Savoia, e, dal 1720, la Sardegna;
domini austriaci, Lombardia e, dal 1714, ducato di Mantova;
ducati di Parma e Piacenza a Filippo di Borbone nel 1748;
granducato di Toscana a Francesco Stefano di Lorena nel 1738;
Regno di Napoli e Regno di Sicilia a Carlo di Borbone nel 1735;
indipendenti le repubbliche di Venezia, di Lucca, di Genova, il ducato di Massa e lo Stato Pontificio.
L’Italia si riconfermava ancora una volta terra di spartizione per le grandi potenze europee, mentre gli stati ancora indipendenti manifestavano la loro decadenza e debolezza. L’unico stato che riuscì a conservare una reale autonomia politica fu il Regno di Sardegna, che divenne tale con la cessione della Sicilia agli austriaci con la pace dell’Aja, nel 1720. Il Piemonte anelava a estendere il proprio territorio alla vicina Lombardia, ma il suo ruolo politico ancora modesto non gli consentì di avanzare ulteriori pretese; purtuttavia la Sardegna uscì rafforzata dalle vicende politiche europee, imponendo nel proprio territorio una politica a fortissimo impatto riformista e centralista, prima con Vittorio Amedeo II e poi con Carlo Emanuele III.
Mentre gli stati italiani soggetti alle altre monarchie europee dovettero sottomettersi ai dettami politici e amministrativi del dispotismo illuminato, il Regno di Sardegna potè vantare una politica autonoma e indipendente dalle tendenze illuministiche.

LA PRUSSIA

La Prussia degli Hohenzollern (che avevano ottenuto il titolo regale dall’imperatore Leopoldo I) saliva al rango di potenza europea con la partecipazione alla guerra del Nord e alla guerra di successione austriaca. Il maggior artefice della potenza prussiana fu il cosiddetto Re Sergente, ossia Federico Guglielmo I, che introdusse una concezione militaristica nella conduzione dello stato, rafforzando l’esercito come autentico punto di forza della nazione prussiana. Tutto lo stato venne infatti adattato alle esigenze dell’esercito, ma oltre a questo, Federico Guglielmo impose un severo sistema di riforma tributaria, accentuando l’efficienza burocratica e istituendo un rigoroso sistema di rapporti sociali dominato dalla nobiltà terriera degli Junker. Forte di questo terreno, il successore di Federico Guglielmo, Federico II, potè facilmente strappare all’Austria la Slesia, garantendosi un facile accesso militare ai territori vicini.

martedì 30 agosto 2016

700 - Parte 1B

IL 700 - PARTE 1B
COLONIALISMO E ILLUMINISMO

INTRODUZIONE

Il Settecento si apre all’insegna dell’equilibrio. Le guerre che sconvolgono la prima metà del secolo XVIII furono di carattere dinastico, e costituirono il rischio di un rafforzamento della Francia. Le diplomazie europee cercarono di non compromettere il delicato equilibrio ottenuto dopo la pace di Rijswijk e per questo non esitarono a intervenire nella guerra di successione austriaca, garantendo la legittimità della corona imperiale di Maria Teresa d’Asburgo. Dalla pace di Aquisgrana del 1748 usciranno cinque potenze: la Francia assolutista, l’Inghilterra costituzionale, la Russia zarista, l’Austria di Maria Teresa e la vera outsider, cioè la Prussia degli Hohenzollern.
Due sono i fenomeni degni di nota sul piano politico e sociale: l’Illuminismo e la rivoluzione industriale.
Il primo rappresenta un ideale movimento di riforma sociale, politica, economica e culturale, movimento che nasce in Francia ma che si estende ai vicini stati europei dove è la stessa autorità regia a sposare le direttive della nuova intellighenzia illuminata. L’Illuminismo ebbe anche il merito di riproporre quella libertà dell’uomo e del cittadino che troverà larga eco in ambito rivoluzionario.
Il fenomeno dell’industrializzazione nasce ovviamente in Inghilterra dove fin dal secolo precedente l’industria e l’azienda avevano operato una radicale trasformazione del territorio. Le trasformazioni in campo economico si accompagnarono a quelle sociali, con la nascita delle nuove classi della borghesia industriale e del proletariato urbano.

IL COLONIALISMO

Gli imperi coloniali delle monarchie europee si rafforzarono ulteriormente nel corso del secolo, estendendosi all’Asia e all’Africa, oltre che all’America, e in questo secolo iniziarono a essere fondate le prime colonie di popolamento in Oceania. Tra le nazioni europee quella più impegnata nella politica coloniale fu l’Inghilterra, grazie anche alle cessioni di territori da parte delle nazioni sconfitte; furono avviate nuove attività produttive, ormai non più limitate alla semplice spoliazione delle risorse agricole delle terre colonizzate, e specialmente le industrie manifatturiere inglesi trovarono materie prime e nuovi mercati di sbocco.

America – Il territorio americano era ormai praticamente tutto colonizzato dalle potenze europee, fatta eccezione per le terre di difficile accesso come Patagonia e Mato Grosso; frequenti ondate colonizzatrici avevano prodotto il mutamento della fisionomia territoriale ed etnica, anche a causa degli insediamenti sempre più stabili di coloni della madrepatria.
La Spagna, che era stata una delle primissime monarchie a insediarsi nel suolo americano, contava su un imponente assetto territoriale, in cui era stato apportato lo stesso modello organizzativo della burocrazia centrale di Madrid, oltre alla religione cattolica portata dai missionari spagnoli. Si era ormai creata una popolazione di meticci sangue misto e di creoli locali, discendenti dagli antichi conquistatori, che si accompagnavano a circa 700 mila bianchi. Madrid non aveva diminuito il suo potere, saldamente amministrato da un vicerè, ed aveva introdotto un severo regime fiscale. Molto importante era l’attività estrattiva dell’argento messicano, che faceva della Spagna il più grande importatore di argento al mondo, ma anche l’allevamento brado di bovini, con conseguente sfruttamento dei derivati.
Il Portogallo possedeva il Brasile, che era governato con metodi analoghi a quelli spagnoli. Ma la monarchia portoghese era piuttosto debole e il suo insediamento nel Sudamerica si era rivelato lento e non uniforme, il che aveva portato i creoli locali a ottenere maggiore autonomia. La popolazione si arricchirà di schiavi neri, importati dall’Africa, il cui numero supererà quello dei creoli e dei meticci. L’attività estrattiva più importante riguardava l’oro, soprattutto dopo la scoperta delle miniere di Minas Gerais: purtuttavia il Portogallo non possedeva industrie manifatturiere di rilievo, e l’attività estrattiva andò a tutto vantaggio del mercato inglese.
La Francia non aveva un impero coloniale florido, e soprattutto anche qui si registra uno scarso tasso di immigrazione; ma il poco che aveva garantiva alla corona francese una certa posizione, sia perché le colture delle Antille rendevano, sia perché i Francesi possedevano due territori, Canada e Louisiana, di enorme importanza strategica, poiché accerchiavano le tredici colonie inglesi del Nord Atlantico.
L’Inghilterra contava appunto le tredici colonie suddette, le quali garantivano un costante apporto di materie prime e di rendite fiscali alla madrepatria. Irrilevante infine il dominio coloniale dell’Olanda, con solo Guyana e Curaçao.

Africa – Per quanto le potenze europee conservassero diversi territori nel continente africano, non si registrano ondate migratorie verso questi centri. Lo sfruttamento delle colonie africane infatti fu realizzato in due modi, cioè come punto di appoggio logistico per le navi e come serbatoio di rifornimento di schiavi. Ben sei milioni di schiavi vengono deportati nelle piantagioni americane: maggiori importatori di schiavi sono Francia e Inghilterra, che strapparono il primato a olandesi e portoghesi. Inutile soffermarsi qui sul grave danno che il continente africano subiva in questo modo, sia a livello demografico sia economico.

Commerci triangolari – Sono così detti i traffici condotti soprattutto dai mercanti inglesi che, partiti dalla madrepatria con merci scadenti, le scambiavano con le risorse locali degli Africani, i quali venivano poi venduti ai proprietari di piantagioni americane in cambio di prodotti coloniali di ottima qualità, rivenduti a caro prezzo in Inghilterra. Era un sistema che stimolava la produzione sia locale sia manifatturiera, con altissimi profitti per entrambe le parti.

Conflitti coloniali – Le nazioni maggiormente coinvolte furono Francia e Inghilterra, mentre Spagna e Portogallo, nonostante la rispettiva debolezza, riuscirono a conservare i propri territori. Fu la Francia a perdere consistenti fette di territorio, soprattutto durante la Guerra dei Sette Anni, che costò alla Francia la perdita del Québec e a tutto il Nordamerica, conservando solo Martinica e Guadalupa. La pace di Parigi (cfr.) determinò l’assoluta supremazia territoriale e coloniale inglese. Ma la posizione inglese era già forte dalla guerra di successione spagnola, poiché la pace di Utrecht aveva portato all’Inghilterra un buon numero di territori francesi oltre al cosiddetto diritto di asiento de negros.

Asia -  Il grandissimo territorio asiatico, pur essendo interessato da frequenti spinte colonizzatrici, era abitato da regni locali di indiscussa organizzazione ed evoluzione politica. La Cina, ora sotto la dinastia Manchù, tratteneva da tempo rapporti commerciali con gli Europei. Il Giappone, dove regnava lo shogunato dei Tokugawa, era invece più isolato. In India, alla morte dell’ultimo imperatore Moghul, il regno piomba nel caos e viene conteso da Francia e Inghilterra: la Guerra dei Sette Anni stabilisce la netta supremazia dell’Inghilterra, che avvia la colonizzazione del territorio indiano in pianta stabile. Per arginare la pressante ingerenza della East Indian Company, l’Inghilterra fu costretta a comandare un governatore generale locale, per esercitare un controllo diretto sulla colonia. La colonizzazione inglese comportò una trasformazione radicale della realtà produttiva locale, che fu piegata al soddisfacimento di tutte le esigenze della madrepatria, principalmente la fiorente industria tessile indiana, che venne utilizzata per rifornire le industrie manifatturiere inglesi.

Oceania – Nel corso del secolo le esplorazioni geografiche non cessarono, e la scoperta dell’Australia interessò soprattutto gli inglesi che la utilizzarono come colonia penale. In seguito viene fondata Sidney, e inizia il popolamento vero e proprio del continente.

L’ILLUMINISMO

Il Settecento fu il secolo dell’Illuminismo. Si trattava di un imponente movimento di riforma culturale, filosofica, politica e sociale, che si proponeva di illuminare con i lumi della ragione le tenebre dell’ignoranza, ma soprattutto si proponeva una radicale riforma della società. La filosofia illuminista nasce in Francia, sul terreno giusnaturalista e contrattualista, e raccoglieva l’eredità dei movimenti che predicavano la tolleranza e la libertà dell’individuo. Tra i maggiori nemici dell’Illuminismo c’era la cultura dogmatica e autoritaria della religione cattolica, a cui gli illuministi opponevano la cultura laica della ragione. Il movimento nasceva in Francia, ma si estese subito ai paesi vicini e soprattutto nell’Europa centro meridionale, dove i sovrani dettero vita a un vasto programma di riforme sotto l’egida di quella tendenza politica di rinnovamento della società che fu detta dispotismo illuminato. Queste dunque erano le principali matrici culturali del movimento illuminista:
la rivoluzione del pensiero scientifico;
il pensiero politico contrattualista di Hobbes e Locke;
la critica alle religioni rivelate.
L’Illuminismo poggiava su queste basi:
la ragione come unico criterio di azione e conoscenza;
conoscenza sperimentale della natura;
studio dell’individuo e della società;
raggiungimento del progresso e della felicità per tutti.

GEOGRAFIA DELL’ILLUMINISMO EUROPEO

In Inghilterra -  I principali modelli teorici dell’Illuminismo nascono proprio in Inghilterra: la fisica newtoniana, la politica e la morale di Locke, la teoria economica di Adam Smith, trovano la loro culla ideale nella monarchia costituzionale inglese, che rappresenta nell’Europa assolutista del Settecento l’unico stato in cui il Parlamento esprime un ruolo portante. Mentre l’Illuminismo inglese si trova subito a svolgere un ruolo mediatore tra valori aristocratici e borghesi, dettato dal clima di equilibrio politico e culturale, molto più vivace risultava invece l’Illuminismo scozzese del Select Club di Edimburgo, a cui appartengono il filosofo David Hume e l’economista Adam Smith. Tra i canali preferenziali dell’Illuminismo inglese vi era la Libera Muratoria, vero sistema di diffusione delle idee illuminate, a partire dalla fondazione della Gran Loggia di Londra nel 1717, da cui il fenomeno muratorio si estende in tutta Europa. Gli aderenti alla Loggia erano detti free mason, dal francese maçon, ossia muratore, e per questo motivo l’istituzione è anche nota come Massoneria. Scopo dei liberi muratori era il fine solidaristico e assistenziale, ma anche scopi culturali volti allo sviluppo della  scienza e spirituali, rivolti all’ideale della fratellanza universale; non ultimo uno scopo di matrice iniziatica e rivolto principalmente alla costruzione razionale del Sé. 

In Francia – Qui nasce la cultura illuminista, come centro irradiante della cultura settecentesca.  È qui che si conia il termine philosophe per designare il cultore della luce della ragione, che disperde con questo strumento le tenebre dell’ignoranza. Tra i bersagli dell’Illuminismo francese vi era la Chiesa Cattolica, colpevole di dogmatismo e di chiusura, e ovviamente la rigida politica assolutista della monarchia francese. Nonostante i maggiori esponenti della nuova tendenza culturale fossero nobili e borghesi, era il vecchio sistema a essere messo sotto accusa, il soffocante abuso di potere contro cui veniva rivendicata la libertà del cittadino borghese. Nella comunicazione gli illuministi francesi operarono delle vere innovazioni con l’uso di pamphlet satirici e enciclopedie, caratterizzandosi per una prosa agevole e discorsiva. Tra i più famosi vi furono senza dubbio Voltaire (François Marie Adrouet) e Montesquieu, ma anche Diderot, D’Alembert, Condillac, e, in campo educativo, Jean Jacques Rousseau. Da una prospettiva strettamente divulgativa l’opera di Voltaire risulta essere quella fondamentale, principalmente per aver introdotto i classici del pensiero contemporaneo inglese come Locke e Newton, e per la critica all’intolleranza politica e religiosa.
In campo religioso le tendenze illuministe si diversificano, tra deismo (Dio creatore dell’universo e conoscibile con la sola ragione), teismo (carattere provvidenziale di Dio verso l’universo da lui creato) e ateismo radicale e materialismo.
Tra il 1751 e il 1772 viene pubblicata l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, in un numero complessivo di 28 volumi (17 di testo e 11 di tavole), con ben 60 mila voci, in un lavoro iconografico e storiografico enorme e prestigioso. L’opera viene messa subito al bando ma questo non frena l’immediato successo dei primi volumi, che verranno successivamente ristampati e aggiornati in edizioni anche non francesi.

In Italia – L’Italia aveva conosciuto all’inizio del secolo una ripresa culturale attestata dall’impegno storiografico di Muratori, quello filosofico di Vico e quello giurisdizionalista di Giannone. Tra i centri nevralgici della cultura illuministica italiana c’erano:
Milano, dove si era costituito il giornale Il Caffè dei fratelli Verri e del giurista Beccaria, animatori dell’Accademia dei Pugni;
Napoli, dove prendeva piede la scuola economica del Genovesi e quella giuridica del Filangieri;
Firenze, dove era attiva l’Accademia dei Georgofili.

In Germania – L’Illuminismo tedesco esprime nomi come Lessing e Kant, ma è soprattutto l’opera riformatrice del re prussiano Federico II ad essere degna di nota.

Politica ed economia - L’introduzione delle tematiche costituzionaliste inglesi aveva prodotto negli illuministi francesi la maturazione di una nuova coscienza politica, espressa soprattutto da Montesquieu. Nel suo Spirito delle Leggi Montesquieu conduce una critica razionale delle forme di governo, e dello spirito che ne informa le leggi, distinguendo tre fondamentali tipologie, una dispotica e fondata sul timore, una repubblicana e fondata sulla virtù e una monarchica e fondata sull’onore. Montesquieu non era avverso al mantenimento del potere monarchico, ma avvertiva l’esigenza di una riforma, poiché lo stato di diritto sarebbe stato garantito solo dall’effettiva separazione del tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario (in questo caso però viene introdotta una terza formulazione, quella federativa, rivolta ai rapporti tra comunità). Pur ammiratore del modello costituzionale inglese Voltaire, a differenza di Montesquieu, riteneva invece che la mancanza di una politica accentratrice avrebbe indebolito il potere regio e reso instabile e anarchico il potere dell’aristocrazia. Proponeva dunque una forma di dispotismo illuminato, con un sovrano abile e riformatore che governasse secondo ragione, difendendo i cittadini dallo strapotere della vecchia aristocrazia feudale.
Il pensiero di Rousseau fu invece ancora più radicale e basato sul tema della ineguaglianza. Egli auspica infatti il ritorno all’originale stato di natura, in cui tutti i cittadini siano dotati dell’originaria dose di uguaglianza e di diritti, in uno stato fondato sulla sovranità popolare e sulla democrazia diretta. Il filosofo di Ginevra teorizzava il ritorno a una piccola comunità repubblicana fondata sul contratto sociale, attraverso cui il singolo individuo alienava alla comunità stessa, governata da una volontà comune, la propria libertà e i propri diritti.
In ambito economico assistiamo alla nascita di due scuole, quella della fisiocrazia in Francia, e quella del liberismo in Inghilterra. Le due scuole concordavano sul fatto che anche in economia vigevano delle leggi naturali, come quella di mercato, e sulla critica alla politica mercantilistica che imprigionava il libero scambio imponendo vincoli e dazi. Entrambe proponevano quindi un rinnovamento dell’economia all’insegna del motto “laissez passer, laissez faire” e chiedevano la fine dell’intervento diretto dello stato in campo economico.

lunedì 29 agosto 2016

700 - Parte 2A

IL 700 - PARTE 2A
LA SECONDA METÀ DEL SETTECENTO

Il movimento di riforma a cui aveva aderito la borghesia francese nel secolo XVIII trovava il proprio ideale di cambiamento nella teoria politica del filosofo illuminista Voltaire. Voltaire, al contrario di Montesquieu, riteneva pericolosa una separazione dei poteri, perché avrebbe favorito il rafforzarsi del vecchio potere dell’aristocrazia feudale, con il conseguente indebolimento dell’istituzione monarchica. Era dunque necessario che il sovrano conservasse inalterata la sua autorità, accentrando nelle proprie mani tutto il potere, ma, in luogo del rigido assolutismo della corona francese, Voltaire proponeva un modello di sovrano illuminato, e garante delle libertà dei sudditi. Per libertà qui non si intende ovviamente la partecipazione diretta dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, ma si attua comunque una modernizzazione dell’istituzione monarchica, con l’introduzione di un modello amministrativo improntato al benessere della comunità e al suo progresso.
Caratteristica delle monarchie illuminate europee fu l’introduzione delle riforme, atte a migliorare e a modernizzare le strutture amministrative ed economico-politiche. In realtà quello che la propaganda dell’epoca faceva passare per “felicità del popolo” era solo il tentativo di rimpinguare le finanze statali e aumentare il controllo sulle masse e sul potere nobiliare, sempre di difficile gestione. Le stesse masse non vennero mai coinvolte nella gestione dello stato, tanto che il motto coniato a bella posta recitava tutto per il popolo, niente attraverso il popolo. Le riforme si svilupparono in diverse direzioni:
razionalizzazione dell’agricoltura, attraverso l’introduzione di nuove tecniche agricole, di nuove colture e di nuovi mezzi di produzione, e attraverso la soppressione dei vecchi privilegi come la manomorta e il fidecommesso, che impedivano il frazionamento e la ridistribuzione delle terre di proprietà ecclesiastica e nobiliare;
razionalizzazione dell’amministrazione statale, e soprattutto della burocrazia, dei meccanismi di esazione fiscale e dell’esercito;
rinnovamento delle istituzioni civili, con la riforma dei codici, l’abolizione della tortura e la promozione di maggiori garanzie di libertà per i sudditi, per esempio la libertà di stampa e la tolleranza religiosa;
la limitazione della potenza economica e politica della Chiesa, con la soppressione i alcuni ordini religiosi e il conseguente incameramento delle rispettive proprietà, con la riduzione o abolizione dei privilegi feudali della Chiesa e delle sue immunità, e con una progressiva laicizzazione dello stato; la Chiesa aveva infatti finito col costituire uno stato nello stato, e per questo era necessario ridimensionarne il potere, in nome dei principi giurisdizionalistici e per favorire la promozione della concezione laica dello stato.
Proprio in relazione a questo ultimo punto si sviluppa la persecuzione a danno della Compagnia di Gesù.  I Gesuiti detenevano a quel tempo il monopolio dell’istruzione, erano i garanti assoluti dell’ortodossia della Controriforma, avevano un enorme peso decisionale presso le classi dirigenti, e possedevano immensi patrimoni terrieri, costituendo la frangia più pericolosa dell’ingerenza della Curia romana in ambito temporale. Furono proprio i re cattolici a organizzare l’espulsione dai rispettivi paesi della Compagnia di Gesù: prima in Portogallo, poi successivamente in Francia, Spagna, nel Regno di Napoli e nel Ducato di Parma. Nel 1773 Clemente XIV con la bolla Dominus ac redemptor decreta lo scioglimento della Compagnia di Gesù, i cui beni vengono incamerati dai sovrani e destinati all’edificazione di scuole pubbliche laiche in luogo di quelle prima gestite dai Gesuiti.

LA GUERRA DEI SETTE ANNI

Dopo la pace di Aquisgrana del 1748 si verificò uno straordinario caso di rovesciamento diplomatico, che portò la Prussia ad allearsi con l’Inghilterra, e l’Austria con la Francia. Nel primo caso fu essenzialmente la volontà di uscire dall’isolamento politico a spingere la Prussia a cercare l’accordo con gli inglesi (1756, Convenzione di Westminster), mentre nel secondo caso si nota la reazione antiprussiana dell’Austria e delle nazioni confinanti (1756, Trattato di Versailles), che avrebbero ricambiato la Francia con una collaborazione nella guerra coloniale. Proprio nel 1756 Federico II invade la Sassonia, e il meccanismo diplomatico scatta, determinando così l’inizio del conflitto.
Si trattò di un vero conflitto mondiale, perché la guerra si combattè sia sul fronte europeo, dove la Prussia riportò pesanti perdite e fu sul punto di soccombere, sia su quello coloniale, dove la Francia perse quasi tutti i suoi possedimenti. A salvare la situazione fu l’uscita dal conflitto della Russia il cui zar Pietro III, successore della zarina Elisabetta, firma un accordo filoprussiano, e di conseguenza l’abnorme costo della guerra anglo-francese nelle colonie, che obbligò i Francesi a ritirarsi e l’Austria a seguirne l’esempio sul suolo europeo.
Due furono le paci, quella di Hubertsburg per quanto riguarda la guerra europea, che non produce mutamenti sostanziali se non la definitiva concessione della Slesia alla Prussia, e la pace di Parigi che pone fine alla guerra nelle colonie, entrambe firmate nel 1763. Il conflitto aveva consolidato le potenze territoriali di Prussia e Russia, ora legate da un accordo, e aveva promosso da un lato il declino della Francia e dall’altro l’assoluta supremazia coloniale dell’Inghilterra. Il trentennio di pace che seguì al conflitto fu caratterizzato dall’affermarsi del dispotismo illuminato in Europa e del tentativo di trasformazione delle strutture politiche e amministrative europee.

LA CRISI DELL’EUROPA ORIENTALE

Parallelamente alla Guerra dei Sette Anni si registra un momento di grave crisi nell’est europeo, crisi che coinvolge la Polonia e l’Impero Ottomano.
Alla morte del re polacco Augusto III di Sassonia, la zarina Caterina II, Maria Teresa d’Asburgo e Federico II si accordarono per porre sul trono polacco il nobile Stanislao Poniatowski, già amante della stessa zarina. Debole e inesperto, Poniatowski regnava su uno stato privo di solide tradizioni monarchiche, e, durante la guerra russo-turca, Austria e Prussia, preoccupate dell’avanzamento territoriale russo, chiesero una prima spartizione del territorio polacco, che aveva evidenti funzioni di cuscinetto, a cui lo stesso Poniatowski non si oppose. La Polonia fu dunque ripartita tra le tre potenze.
Concluso l’accordo, la Russia infliggeva ai Turchi una pesante sconfitta, ottenendo l’accesso al Mar Nero, che fu esteso all’intera costa nel corso della seconda guerra russo-turca: questo segnava la fine dell’Impero Ottomano.
Nel frattempo i germi della Rivoluzione Francese si estendevano in Polonia, dove un ardito disegno di riforme, che avrebbe trasformato lo stato polacco in monarchia ereditaria, obbligò Russia e Prussia a un intervento militare nel paese, che obbligò Poniatowski ad accettare una seconda spartizione. Una rivoluzione popolare nel 1794 costrinse le tre potenze a un definitivo intervento e soprattutto a una terza spartizione, che cancellava definitivamente la Polonia dalla carta geografica dell’Europa.

IL DISPOTISMO ILLUMINATO IN EUROPA

L’attività riformatrice dei sovrani illuminati si assestò principalmente al centro e al sud dell’Europa, per la necessità di riequilibrare i fondi dello stato gravati dalle consistenti uscite a causa delle guerre di successione e di modernizzare le arretrate strutture economiche.

Federico II di Prussia – Il re filosofo, così chiamato per il suo razionalismo e ateismo, è il capostipite dei sovrani illuminati. Fu amico di Voltaire, ed ereditò dal padre, il famoso re sergente, uno stato militarmente potente e fondato sul poderoso esercito che egli stesso provvede a rafforzare, fino a costituire il 6 % della popolazione prussiana. Nel 1763 viene istituita l’obbligatorietà dell’istruzione elementare, impartita dai maestri di stato; in seguito Federico II provvede a razionalizzare la magistratura, abolendo i tribunali feudali, affidandoli a funzionari in carriera, e riformando il codice penale con l’abolizione della tortura e della pena di morte. In campo economico si segnala l’introduzione di opere di bonifica e di nuove colture, oltre a un maggiore impulso dell’industria mineraria e manifatturiera.

Caterina II di Russia – Nei suoi 34 anni di regno la zarina riprende il progetto espansionistico di Pietro il Grande. Anche Caterina fu in rapporti diretti con gli illuministi francesi, e alle loro teorie ispira il proprio piano di riforme politiche e amministrative. Tra le riforme principali ricordiamo la nazionalizzazione dei beni della chiesa russo ortodossa, il progetto di un nuovo codice legislativo di impronta illuministica, e soprattutto l’aumento del numero dei governatorati per garantire un maggiore controllo delle province russe, e quindi favorire il centralismo dell’amministrazione. Purtuttavia non vi furono mai reali riforme, e la situazione sociale russa fu sempre divisa tra la condizione servile dei contadini e quella privilegiata del ceto nobiliare, situazione che sfocia nella rivolta contadina del cosacco Pugacev, che nel 1773 raduna ventimila servi chiedendo la fine della servitù della gleba e la spartizione delle terre. Dopo due anni Pugacev viene sconfitto, mentre i nobili ottengono dieci anni dopo una Carta dei Diritti, con cui viene loro concesso l’esonero dal servizio nei ranghi dello stato.

Maria Teresa d’Asburgo – Il quarantennio di Maria Teresa sul trono austriaco fu particolarmente ricco. Fervente cattolica, la figlia di Carlo VI introduce un ampio programma di riforme con la collaborazione del conte Haugwitz e poi del cancelliere Kaunitz. Il territorio fu diviso in sei dipartimenti, controllati dal Consiglio di Stato, e furono introdotte identiche misure di esazione fiscale, estesa anche al clero e all’aristocrazia. Viene varato un nuovo codice penale e, come in Prussia, l’istruzione viene statalizzata e resa obbligatoria nel grado elementare.
Nel dominio austriaco della Lombardia viene introdotto il catasto, che poi si estenderà anche in altri domini. La Lombardia austriaca traeva molto vantaggio dal dominio asburgico, non solo per l’introduzione del catasto, che censiva tutte le terre agricole per una migliore perequazione fiscale, ma anche per l’impulso modernizzatore che fu entusiasticamente appoggiato dalla nobiltà lombarda, che fornì un buon numero di tecnici e funzionari all’apparato burocratico e amministrativo austriaco. 

Giuseppe II d’Asburgo – Già associato al trono dalla madre Maria Teresa, Giuseppe II promosse una politica di libertà e di tolleranza religiosa, aprendo il suo regno con un atto che concedeva libertà di culto a ebrei e protestanti. Provvede poi a nazionalizzare la Chiesa Cattolica, confiscando molti beni ecclesiastici, istituendo seminari di stato, e considerando il clero alla stregua di funzionari statali; vieta inoltre la pubblicazione delle bolle pontificie prive di autorizzazione regia. Invano il papa Pio VI cerca di far recedere il sovrano dal suo progetto. Tra le riforme sociali vi è l’abolizione della servitù della gleba e il riscatto  dei diritti signorili dietro pagamento di una quota, oltre alla possibilità all’acquisto delle terre  da parte dei contadini. Queste riforme furono però cancellate dal suo successore, Leopoldo II, pressato dalle forze conservatrici.

Pietro Leopoldo di Toscana – Secondogenito di Maria Teresa e quindi fratello di Giuseppe II, Pietro Leopoldo (che succederà al fratello nel 1790 alla guida dell’impero) opera un notevole progetto di trasformazione delle strutture del granducato. In campo legislativo il Codice Leopoldino abolisce la tortura e la pena di morte; in campo culturale e religioso si impegna a concedere libertà di stampa e di culto, abrogando l’Inquisizione e introducendo importanti riforme scolastiche; in campo economico si segnalano opere di bonifica e la liberalizzazione del commercio dei grani.
Le riforme dell’agricoltura permisero di incentivare la piccola e media proprietà terriera, e la mezzadria; invece non decollò il progetto di autonomia della Chiesa Toscana, portato avanti dalle tesi gianseniste del vescovo pistoiese Scipione de’ Ricci.

Carlo III di Borbone – Il regno di Napoli viveva un momento di particolare impulso dovuto alla trasformazione illuminata. Soprattutto ci sembra qui il caso di richiamare la resistenza delle classi baronali che impedirono il decollo del meccanismo catastale di matrice asburgica e poi il concordato con la Santa Sede che contribuì a limitare le pretese del clero. Questo impulso riformatore si interrompe con l’ascesa al trono di Ferdinando IV.

Nell’ultimo decennio del secolo XVIII si conclude l’epopea illuminista, ma dell’Illuminismo restava comunque l’impronta in campo culturale, filosofico, scientifico, politico, economico e amministrativo. L’esperienza del dispotismo illuminato comportò indubbiamente un notevole impulso trasformatore e modernizzatore, ma lasciando inalterata la situazione sociale di partenza, aumentando così la centralità e l’assolutismo del potere regio, in luogo della libertà sognata dagli illuministi. Se infatti si guarda la carta geografica delle riforme illuminate in Europa si nota come questo programma si sia affermato in aree economicamente depresse, mentre in aree forti questo disegno non è presente, e meno che mai in Francia, dove l’assolutismo regio continuò a farla da padrone. Alla fine del secolo furono gli stessi illuministi a constatare che un vero progetto di riforme non poteva realizzarsi senza la partecipazione diretta del popolo alla vita politica dello stato, e così vennero gettate le basi per le grandi rivoluzioni borghesi.

domenica 28 agosto 2016

700 - Parte 2B

IL 700 - PARTE 2B
LE GRANDI RIVOLUZIONI ATLANTICHE
LA RIVOLUZIONE AMERICANA
(1773-1791)

INTRODUZIONE

La ribellione delle tredici colonie inglesi del Nord America verso l’eccessiva pressione fiscale della madrepatria e verso la servitù commerciale degenerò in una rivoluzione a carattere secessionista che trovò il suo documento nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. La borghesia americana non era spinta soltanto dalle esigenze economiche, ma anche dalle idee illuministe che avevano portato nelle colonie nordamericane l’interesse verso i concetti di sovranità del popolo e libertà del cittadino. La rivoluzione americana ebbe il carattere di una vera e propria guerra di indipendenza, guerra a cui parteciparono gli stessi stati europei. Dal conflitto sorse una confederazione di stati, gli Stati Uniti d’America, che si dette una costituzione in grado di garantire l’unitarietà amministrativa e contemporaneamente di tutelare le rispettive libertà degli stati membri.

1 - LE TREDICI COLONIE E I RAPPORTI CON LA MADREPATRIA

Le tredici colonie (circa 1.650.000 abitanti) erano sorte in tempi diversi, con modalità diverse e soprattutto si costituivano di diversa popolazione, il che ne accentuava le differenze in ambito demografico, sociale ed economico. Le colonie meridionali si fondavano prevalentemente su un’economia agricola, basta sulle grandi piantagioni, dove era stridente il contrasto tra i grandi proprietari terrieri e i bianchi più poveri; le colonie del centro-nord erano invece soggette a un’economia differenziata, con diverse strutture produttive che andavano dall’agricoltura all’industria manifatturiera, e qui erano presenti i piccoli proprietari, gelosi della loro libertà.

Nord – Le colonie del nord costituivano quello che ancora oggi viene chiamato New England e la loro struttura economica era come già detto articolata in diverse tipologie produttive. Tra le più note vi erano l’officina navale, l’agricoltura fondata sulla piccola proprietà e i commerci con l’estero. La società era essenzialmente inglese e costituita dai discendenti dei Puritani, dalla morale rigidamente ascetica e nemici della chiesa Anglicana, oltre che intolleranti verso i cattolici. La città più importante dal punto di vista commerciale era Boston.

Centro – Le colonie del centro vantavano le città e i porti più importanti, come New York, Filadelfia e Baltimora; qui l’economia comincia a diversificarsi ed è presente anche l’attività di contrabbando. La popolazione non è totalmente inglese, ma composta anche da svedesi, olandesi (primi colonizzatori), e tedeschi e irlandesi di recente immigrazione. Si trattava di un amalgama culturale che favoriva una maggiore tolleranza religiosa e soprattutto una maggiore spinta colonizzatrice verso ovest.

Sud – Domina qui l’economia di piantagione e lo schiavismo; la società è fondata su una divisione tra ricchi proprietari, generalmente inglesi e anglicani, e bianchi poveri. Mancano vere e proprie città, e qui è molto forte la dipendenza economica dall’Inghilterra, specie per i manufatti.

Il rapporto con la madrepatria - Le tredici colonie erano accomunate solo dal rapporto con l’Inghilterra. Erano sostanzialmente autonome e in esse era presente lo stesso tipo di libertà costituzionale presente nella madrepatria. Erano governate da un governatore di nomina regia, mentre il potere legislativo era gestito da una assemblea locale eletta a suffragio censitario. Ma la popolazione delle colonie era priva di rappresentanti al Parlamento di Londra. In più erano vincolate a mantenere una politica mercantilistica esclusiva con la sola Inghilterra, solo su navi inglesi, ed era fatto loro divieto di produrre ciò che l’Inghilterra vendeva loro. In pratica si trattava di una pesante subordinazione che l’economia americana subiva da quella inglese. La situazione fu in principio tollerata, anche perché il meccanismo di esazione fiscale era certamente meno oppressivo e poi il contrabbando con le zone caraibiche consentiva alle colonie di allentare la pressione commerciale inglese.
La situazione divenne insostenibile dopo la Guerra dei Sette Anni, quando, per rifarsi dei costi, l’Inghilterra fu costretta a gravare le colonie con una maggiore pressione fiscale; la nuova politica fiscale non fu gradita, esasperando quindi l’intolleranza verso la servitù commerciale inglese. L’accordo dell’Inghilterra con le tribù indiane, che impegnava i contraenti a non varcare la linea dei monti Allegheny, precluse poi l’espansione dei coloni verso l’ovest, creando un clima di tensione in quegli strati della popolazione coloniale desiderosi di espandersi territorialmente. La crisi si aprì per questioni fiscali.

2 - IL MOVIMENTO INDIPENDENTISTA

Era ormai diventata questione di principio, ma anche di interesse economico, che il Parlamento londinese dovesse regolare i commerci coloniali con l’imposizione di forti dazi doganali, a cui i coloni inglesi risposero con il boicottaggio delle merci della madrepatria e con il contrabbando. Prima fu lo Sugar Act, che imponeva ai coloni di acquistare lo zucchero nei Caraibi inglesi, e non in quelli francesi dove costava meno; poi toccò allo Stamp Act, che imponeva una marca da bollo su tutti i documenti pubblici, compresi i giornali. Le due imposte furono ritirate sotto i boicottaggi e anche la solidarietà di parte dell’opinione pubblica inglese, ma la situazione tornò ad aggravarsi con il Townshend Act, con cui si imponeva una tassa su tutti i prodotti importati nelle colonie. La crisi secessionista si mise in moto, con la nascita di movimenti separatisti quali i Figli della Libertà e i Comitati di Corrispondenza Intercoloniali.
Motto della rivolta era “no taxation without representation” che ineriva chiaramente alla necessità di una rappresentanza parlamentare per le colonie a Londra. Boicottaggi e proteste portarono ancora al ritiro della nuova tassa, ma restava in vigore la Tea Tax, la tassa sul tè, che colpiva soprattutto Boston. Quando il 5 marzo 1770 vengono massacrati cinque coloni in una guerriglia con l’esercito inglese, la situazione precipita.

Il 16 dicembre 1773 un gruppo di Figli della Libertà travestito da indiani getta a mare il carico di tè di una nave della East Indian Company alla fonda nel porto di Boston. Dopo l’episodio, ricordato come Boston Tea Party, il porto viene chiuso e la città posta sotto vigilanza militare.

Il I Congresso di Filadelfia nel 1774 vide  i coloni decisi nel boicottare le merci inglesi, come atto di disobbedienza civile. A quel tempo non si era costituito un vero e proprio esercito, ma esisteva solo un corpo di volontari, i cosiddetti minute-men, che derivavano il nome dalla possibilità di lasciare in un minuto il lavoro per vestire la divisa da soldati. Nel II Congresso di Filadelfia, nel 1775, fu costituito un esercito di ventimila uomini, posto sotto il comando di George Washington.
Il congresso era diviso tra tre fazioni, quella dei radicali, che volevano la rottura con Londra, quella dei moderati, che speravano in una situazione di compromesso, e quella dei lealisti, che erano invece fedeli alla monarchia. In un estremo tentativo di mediazione, pur essendo già cominciati i primi scontri armati, il Congresso mandò al re Giorgio III la cosiddetta Petizione del ramo d’Olivo, invitandolo a limitare l’ingerenza del Parlamento (era però un atto inutile, perché il Parlamento inglese era indipendente dal potere monarchico). Il governo inglese decide però l’embargo verso le colonie, causando l’inevitabile rottura e l’inizio della guerra.

3 - LA GUERRA DI INDIPENDENZA

Le assemblee locali delle tredici colonie si danno nel 1776 costituzioni autonome, tra cui spiccava il Bill of Rights della Virginia che poneva la sovranità popolare a fondamento del potere politico. Nello stesso anno lo scrittore politico inglese Thomas Paine pubblica il Common Sense, un opuscolo dove si giustificava la necessità della lotta per l’indipendenza. Ma il vero atto di secessione è quello che viene firmato a Filadelfia il 4 luglio 1776, cioè la Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie, stilata dall’avvocato virginiano Thomas Jefferson. La Dichiarazione sanciva il distacco delle colonie dalla madrepatria e la nascita di una federazione di stati che si chiamò Stati Uniti d’America. Era fondata su idee illuministe e promuoveva in sostanza tre principi:
il diritto naturale e inalienabile alla libertà, alla felicità e alla vita;
il dovere dei governi di garantire questi diritti e di fondare la propria azione politica sul consenso del popolo;
il diritto di ribellione contro un governo che non garantisse questi diritti. 
Si trattava di principi dall’enorme portata storica e politica, ancorchè basati sui temi più avanzati dell’Illuminismo moderno di Montesquieu e di Rousseau.

La Dichiarazione di Indipendenza costituiva anche una dichiarazione di guerra all’Inghilterra. Il conflitto fu lungo e aspro, e condotto da persone inesperte e inferiori numericamente. A garantire il successo delle operazioni contribuirono non poco l’entusiasmo dei patrioti americani, la loro migliore conoscenza del territorio, la forte personalità di Washington, e anche l’appoggio dell’opinione pubblica europea di parte illuminista, che inviò dei volontari a combattere nella campagna rivoluzionaria.
A dare una svolta decisiva alle operazioni militari fu la vittoria sugli Inglesi a Saratoga, il 17 ottobre 1777: dopo la vittoria infatti la Francia decise di appoggiare i ribelli con un accordo di cui si fa portavoce lo scienziato Benjamin Franklin, stimatissimo negli ambienti scientifici europei e soprattutto parigini. La Francia entra dunque in guerra contro l’Inghilterra, seguita da Olanda e Spagna. Furono proprio le flotte delle tre potenze a isolare le armate inglesi dalla madrepatria, permettendo all’esercito americano di respingere il tentativo di invasione nelle colonie meridionali. La decisiva vittoria di Yorktown, nel 1781, costringe di fatto l’Inghilterra alla resa.
Il 5 settembre 1783 viene conclusa la pace di Versailles, con cui l’Inghilterra riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, e la sovranità di questi sul territorio compreso tra l’Atlantico, il Mississippi e la zona dei Grandi Laghi; la Francia ottiene Tobago e Senegambia e la Spagna Minorca e Florida.

IL DOPOGUERRA

Mentre la guerra era ancora in pieno svolgimento le tredici colonie iniziarono a discutere sul ruolo politico e costituzionale da svolgere in seno all’Unione. Tutte le colonie adottarono inizialmente gli Articoli Confederali con cui:
le Assemblee dei singoli stati mantenevano la loro autonomia;
ogni stato avrebbe avuto un voto al Congresso dell’Unione e le decisioni di questo andavano prese all’unanimità;
il Congresso si sarebbe occupato limitatamente di politica estera e di conflitti internazionali e interstatali.
Il dopoguerra vede però emergere delle forti tensioni sociali e politiche, dovute alle differenze tra gli stati. A causare le tensioni erano soprattutto:
l’inflazione e i debiti dovuti al conflitto;
le agitazioni dei contadini poveri;
la fame di terre;
il dibattito politico e istituzionale tra coloro che volevano un potere centrale forte, cioè le colonie del nord, e coloro che lottavano per l’autonomia dei singoli stati;
le speculazioni finanziarie.
Questo stato di cose degenerò nel 1786 in una rivolta di contadini e veterani di guerra, guidati da Daniel Shays, domata dall’esercito americano dopo due anni di lotta. Dalla guerriglia venne fuori un terzo schieramento tra autonomisti e centralisti, i cosiddetti federalisti, che ricompattarono i due schieramenti.
Per risolvere il problema dei territori del nord ovest il Congresso col Proclama del Nord Ovest decise di porre queste terre sotto controllo federale, sottraendole così agli interessi dei vari stati, e ponendo le basi per la nascita di nuovi stati, che sarebbero diventati membri dell’Unione quando avessero raggiunto i sessantamila abitanti.
Nel settembre 1787 una commissione di 55 saggi guidata da Washington stila la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Erano organi centrali del governo federale:

il Congresso, che deteneva il potere legislativo, e si componeva di una Camera dei Rappresentanti e di un Senato;
il Presidente, che deteneva il potere esecutivo, eletto a cadenza quadriennale da un collegio di elettori designati dagli stati, col compito di guidare lo stato e il governo, nominare i ministri e i membri della Corte Suprema;
la Corte Suprema, che deteneva il controllo del potere giudiziario, composta da nove membri nominati a vita.
La carta costituzionale viene approvata nel 1788 da 11 stati su 13 (North Carolina e Rhode Island l’approveranno più tardi)e l’anno successivo George Washington viene eletto primo presidente degli Stati Uniti. La Costituzione viene arricchita nel 1791 dai Dieci Emendamenti, che rappresentavano un contrasto stridente con la realtà sociale: proponevano infatti un modello egualitario e libertario, fondato su dettami di chiara matrice illuminista, malgrado il paese tollerasse ancora la schiavitù e il potere fosse accentrato sulle mani delle classi dominanti.
Proprio durante la presidenza di Washington si riaccende il conflitto tra gli autonomisti, guidati da Jefferson (che nel 1800 succederà a Washington), e i centralisti, guidati da Hamilton. Lo scontro culmina con la fondazione del Partito Repubblicano Democratico, nel 1792, guidato da Jefferson e Madison. 

sabato 27 agosto 2016

700 - Parte 2C

IL 700 - PARTE 2C
LE GRANDI RIVOLUZIONI ATLANTICHE
LA RIVOLUZIONE FRANCESE
(1789-1799)

INTRODUZIONE

Sul finire del secolo XVIII il contrasto tra l’Ancien Régime (rappresentato dall’assolutismo monarchico e dai privilegi di nobiltà e clero) e il Terzo Stato (ossia la quasi totalità dei sudditi) comportò l’accensione di uno dei più importanti focolai rivoluzionari di ogni epoca. Il movimento fu guidato dalla borghesia, che rivendicava la partecipazione diretta e democratica dei sudditi alla vita politica, e si estrinsecò attraverso diversi momenti salienti, lungo un periodo storico di dieci anni. Queste le sei fasi principali della rivoluzione:

la rivoluzione del 1789, tra maggio e ottobre, culminata con l’episodio della presa della Bastiglia, che rovesciò l’Ancien Règime e insediò una Assemblea Nazionale costituita dai membri del Terzo Stato, e nella cui occasione fu proclamata la Dichiarazione dei Diritti, contenente i principi di libertà, uguaglianza e sovranità del popolo;
’opera dell’Assemblea Costituente, tra il 1789 e il 1791, che trasformò la Francia in monarchia costituzionale, e che improntò la costituzione del 1791 a principi liberali, facendo gli interessi della borghesia proprietaria;
la radicalizzazione della rivoluzione borghese, tra il 1791 e il 1793, che, sotto la spinta della Gironda, decretò la fine della monarchia francese e l’istituzione della repubblica;
la dittatura giacobina, tra il 1793 e il 1794, che salvò il paese dall’invasione degli eserciti degli stati europei filoassolutisti, promuovendo un esercito rivoluzionario e una nuova costituzione democratica nel 1793;
la reazione termidoriana, tra il 1794 e il 1795, che restituì il controllo della rivoluzione alla borghesia attraverso una nuova costituzione nel 1795;
il governo del Direttorio, tra il 1795 e il 1799, che rilanciò le velleità espansionistiche della Francia, ma che minò la stabilità politica del paese fino a favorire l’avvento del Consolato, dominato dal Bonaparte.

1 - LA CRISI DELL’ANCIEN REGIME

Dopo un settantennio di straordinaria espansione demografica, sociale e produttiva, la Francia attraversò tra il 1773 e il 1789, un grave periodo di crisi economica e finanziaria. Potrebbe sembrare paradossale che una economia florida come quella francese cadesse in rovina, ma così non sembra se si analizza il tessuto sociale della Francia di allora. Al vertice dello stato c’era il re, che esercitava un potere assoluto e basato sul diritto divino, tanto da considerare lo stato di sua proprietà.
Veniva poi la nobiltà, divisa in tre ordini:

la nobiltà di spada, che viveva a corte e che quindi doveva sostenere pesanti spese di rappresentanza;
la nobiltà di provincia, spesso povera ma comunque detenente antichi privilegi feudali;
la nobiltà di toga, cioè gli alti magistrati di nomina regia, di origini borghesi ma ormai assestati nel rango nobiliare.

La nobiltà vantava ampie proprietà terriere e antichi privilegi di stampo feudale, come banalità e corvées; inoltre era esentata dal pagamento delle tasse e godeva di una sorta di immunità da parte dei tribunali ordinari. Sullo stesso piano sociale della nobiltà c’era il clero, che viveva sia dei proventi delle proprietà terriere, sia delle decime pagate dai contadini. Si divideva in clero regolare (cioè i religiosi che vivevano nei conventi e nei monasteri) e clero secolare, quest’ultimo distinto in alto clero e basso clero. Il clero divideva con la nobiltà gli stessi privilegi fiscali e giuridici.
Un gradino più sotto veniva il cosiddetto Terzo Stato, cioè la classe più eterogenea e numerosa (costituiva infatti il 98 % della popolazione) e ovviamente priva di diritti civili. Il Terzo Stato era composto:
dalla grande borghesia della finanza e dell’imprenditoria;
dalla media borghesia delle professioni;
dalla piccola borghesia degli artigiani;
dai contadini;
dai poveri nullatenenti.
Il malcontento del Terzo Stato si manifestava in una profonda avversione per l’istituto monarchico che privava i semplici sudditi dei propri diritti civili, ma soprattutto nell’odio verso le classi agiate, che da un lato vessavano i contadini nelle campagne attraverso la sopravvivenza delle antiche consuetudini feudali, e dall’altro ostacolavano lo sviluppo economico del paese con la stagnazione delle dinamiche produttive, vetuste e legate ancora ai suddetti privilegi. Come si può notare il panorama sociale presentava una  nazione squilibrata nelle sue componenti e percorsa da tensioni di natura politica e sociale.
Con l’avvento sul trono di Luigi XVI nel 1774 emerge in tutta la sua gravità la disastrosa situazione del debito pubblico. Ministro delle Finanze era Turgot, di scuola fisiocratica illuminista, che nel suo biennio politico varò un articolato programma di riforme liberali. La carestia del 1775 fece però precipitare la situazione, e il rialzo dei prezzi e l’opposizione conservatrice della nobiltà (che si vedeva privare di alcuni diritti secolari) obbligarono Luigi XVI a licenziare Turgot e a nominare al suo posto Necker. Fu l’inizio di una serie di ministri, comprendente anche Calonne e Lomenie de Brienne, che si avvicendarono nel giro di quattordici anni, manifestando impotenza nel colmare la voragine sempre più profonda dell’economia francese. A rendere difficoltosa la mediazione era una imposta fondiaria, originariamente ideata dal Calonne, che avrebbe dovuto sanare la situazione deficitaria, peggiorata dall’intervento nella guerra di indipendenza americana: le frange conservatrici si opposero  tenacemente, obbligando il re a imporre al Parlamento francese la registrazione forzata (lit de justice) della tassa. Era il 1787: la reazione del paese fu durissima e culminò con la convocazione degli Stati Generali, ormai non più riuniti dal 1614. Il paese era scosso da tumulti popolari, e il re fu costretto a ritirare la tassa e a riaffidare il controllo delle finanze al Necker. Gli Stati Generali furono convocati per il maggio del 1789.

L’affermarsi della volontà aristocratica e la debolezza del sovrano confermavano i timori di Voltaire. Il filosofo aveva giustamente valutato pericolosa una ripartizione dei poteri, perché era ben cosciente del potenziale politico della nobiltà francese: e così avvenne, la  decisiva reazione aristocratica apriva la strada alla trasformazione del paese, e fu proprio la stessa nobiltà a innescare la scintilla rivoluzionaria.

2 - LA RIVOLUZIONE DEL 1789

Grazie al rinnovato sistema consultivo, che prevedeva delle primarie in ogni villaggio, il Terzo Stato riuscì comunque a scongiurare il pericolo di una ripresa dell’autonomismo aristocratico, affermando la propria volontà mediante i cahiers de doléance che denunciavano gli abusi e i soprusi signorili, soprattutto nelle campagne. Il Terzo Stato animò parecchi club patriottici, in cui si ponevano le basi per la riforma costituzionale del paese, e si moltiplicavano i pamphlet che denunciavano la totale assenza di libertà e diritti.
La convocazione degli Stati Generali, nel maggio 1789, fu paralizzata per circa un mese dalla questione della modalità di voto: il Terzo Stato, che col suo 98 % rappresentava la schiacciante maggioranza della nazione, premeva per il voto per testa, mentre nobiltà e clero propendevano per il voto per ordine. La convinzione del Terzo Stato spinse la borghesia, con l’appoggio del basso clero e di alcuni nobili, a proclamarsi Assemblea Nazionale (17 giugno 1789), e quindi pronunciano il famoso giuramento della Pallacorda (20 giugno 1789): l’episodio fu causato dalla chiusura della sala riunioni su ordine regio, che fece spostare i deputati del Terzo Stato nella sala della Pallacorda, dove giurarono di non separarsi mai finchè non fossero riusciti a dare al paese una costituzione. Si trattava di una vera mossa rivoluzionaria, perché di fatto escludeva dalla lotta rivoluzionaria clero e nobiltà, impedendo così che le classi agiate prendessero il sopravvento; il re fu costretto a cedere e a chiedere ai rappresentanti di clero e nobiltà di unirsi all’Assemblea Nazionale, preparando però un atto di forza che ripristinasse gli equilibri iniziali. In un primo tempo Luigi XVI adotta un atteggiamento conciliante e promette l’abolizione di alcune imposte e censure; ordina agli Stati Generali di riunirsi in separate sedi, ma il netto rifiuto del Terzo Stato lo fa retrocedere dal proposito. Basso clero e parte della nobiltà si uniscono al Terzo Stato. La situazione precipita col dilagare del carovita: a Parigi si forma una Municipalità provvisoria a forte presenza popolare e una Guardia Nazionale armata. Il re, temendo il peggio, fa preparare ventimila uomini e licenzia il Necker. L’Assemblea diventa Costituente. Il popolo inalbera la coccarda tricolore, bianca come lo sfondo dello stemma borbonico, e rossa e blu come il colore della Municipalità parigina.
Il 14 luglio 1789 una folla di artigiani, operai e borghesi, dopo aver prelevato le armi all’Hotel des Invalides, assalta e conquista la fortezza parigina della Bastiglia, costringendo il re a un immediato dietro front. Costretto dagli eventi Luigi XVI richiama Necker, riconosce la Municipalità parigina e adotta la coccarda tricolore. Il clima tormentato degenera però in una pericolosa rivolta contadina, che alla fine dello stesso luglio scatena una sanguinosa jacquerie contro nobili e clero. Per riassestare la pace, l’Assemblea Costituente decide di intervenire votando il Decreto di Abolizione, con cui venivano definitivamente abrogati i privilegi feudali e nobiliari, aprendo la strada a una dimensione egualitaria della società. Il 26 agosto dello stesso anno viene varata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in 17 articoli, che esprimeva, come quella americana, i diritti naturali degli uomini, la loro eguaglianza e la residenza della sovranità nella nazione. Occorre sottolineare che l’Assemblea Nazionale non intendeva rompere col sovrano, ma portare avanti dei diritti.
La reazione di Luigi XVI fu di netta opposizione: il popolo però minaccia nuovi moti, obbligando il re a ratificare i decreti di agosto. Dopo aver marciato fino a Versailles, i rivoluzionari obbligano il re e la corte a trasferirsi al palazzo delle Tuileries, dichiarando il re prigioniero dell’Assemblea Nazionale.

3 - LA COSTITUENTE

Caduti i privilegi e fondato il discorso politico su una base democratica, toccava ora all’Assemblea Nazionale Costituente tenere unite delle forze eterogenee e divise da interessi politici ed economici, per quanto unite nella comune lotta contro l’Ancien Régime. I lavori iniziano nel mese di ottobre nella sala del Maneggio del palazzo delle Tuileries: a destra i conservatori, fautori di un potere monarchico forte e gli anglomani, fautori di un modello politico all’inglese, con la nomina regia di una Camera Alta con diritto di veto, a sinistra i progressisti, i patrioti e i moderati, e un’ala più radicale.
Al di fuori dell’Assemblea il dibattito politico era ancora più vivace, animato da club politici rivoluzionari, come Giacobini e Cordiglieri, e dai giornali. Argomento delle sessioni assembleari e di quelle dei club politici era l’estensione dei poteri del sovrano. L’Assemblea mise mano a un articolato disegno di riforme:

il paese fu diviso in 83 dipartimenti e vennero aboliti i dazi doganali interni, smantellando così il tradizionale centralismo della monarchia francese;
vengono istituiti tribunali civili comunali e distrettuali, e tribunali penali distrettuali, e viene modificato l’accesso ai ruoli delle cariche in magistratura in forma elettiva;
i beni del clero furono confiscati e messi a disposizione della nazione mediante l’emissione degli assegnati, sorta di buoni del tesoro dell’epoca; la successiva trasformazione degli assegnati in carta moneta, e la sua crescente produzione, finì però con il deprezzarli, causando l’inflazione;
viene varata la Costituzione Civile del Clero, il 12 luglio 1790, con cui la chiesa francese viene statalizzata e riorganizzata, istituendo una diocesi in ogni dipartimento ed eliminando quelle superflue, rendendo elettive e retribuite dallo stato le cariche ecclesiastiche e sopprimendo monasteri e conventi. La Costituzione viene condannata dal papa e spacca il clero in due fazioni, costituzionali e refrattari.

Nel frattempo inizia la fuga degli aristocratici ostili alla causa rivoluzionaria. Le connivenze della regina Maria Antonietta con i controrivoluzionari austriaci favoriscono la preparazione del piano di fuga di Luigi XVI: ma nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1790 il tentativo di fuga del re è intercettato a Varennes, al confine con i Paesi Bassi austriaci; il re, tratto prigioniero, viene ricondotto a Parigi. La fuga sciolse ogni dubbio politico e il sovrano fu privato delle sue funzioni.
Il tentativo di fuga e i successivi provvedimenti radicalizzarono però anche la divisione tra i due schieramenti politici, con una fazione moderata che avrebbe voluto restituire Luigi XVI sul trono e la fazione più estremista di Cordiglieri e sanculotti che volevano la repubblica. Il conflitto politico si inasprisce tra gli stessi Giacobini, che si dividono in una minoranza radicale, guidata da Maximilien Robespierre, e una moderata detta dei Foglianti. La maggioranza moderata della Costituente dichiara il potere sovrano inviolabile e, con un atto di forza, ristabilisce Luigi XVI nelle sue funzioni regali, il 15 luglio 1791: la reazione della sinistra repubblicana fu violentissima e si concluse con il drammatico eccidio del Campo di Marte, dove 40 sanculotti rimasero uccisi; i dimostranti furono dispersi dalla Guardia Nazionale del Lafayette.
Il 3 settembre 1791 viene finalmente varata la Costituzione, che trasformava la Francia in monarchia costituzionale.

Il potere legislativo era esercitato dall’Assemblea Nazionale (745 deputati eletti ogni due anni con sistema censitario).

Il potere esecutivo era affidato al sovrano, che poteva esercitare il diritto di veto sospensivo sulle leggi.
Il potere giudiziario era affidato a una magistratura autonoma eletta dai cittadini.

L’approvazione della nuova Costituzione segnava la vittoria della borghesia proprietaria, che era riuscita a escludere dal gioco politico i ceti meno abbienti con l’introduzione del sistema elettivo censitario, e nel contempo a escludere le prerogative tardo feudali dell’aristocrazia attraverso la promozione di una politica di mercato liberale e priva di vincoli monopolistici.

Concluso l’operato della Costituente, la nuova Assemblea si disse Legislativa e nella sua composizione sedevano ora uomini nuovi, poiché fu vietato ai costituenti di ricandidarsi.
Questi erano gli schieramenti dell’Assemblea:
a destra i conservatori, circa 250, principalmente Foglianti  e lafayettisti, che ritenevano concluso il processo rivoluzionario con la Costituzione del 1791;
al centro gli indipendenti, circa 350, detti ironicamente la Palude per il loro atteggiamento oscillante tra destra e sinistra;
a sinistra i radicali Giacobini, 136, con una piccola presenza di Cordiglieri e con il sottogruppo dei Brissottini (dal nome del loro capogruppo, Brissot), poi detti Girondini poiché provenienti in buona parte dal dipartimento della Gironda.
La tensione sociale era salita e i Giacobini si erano alleati con i sanculotti, per rovesciare il potere e istituire il regime repubblicano. Sul fronte internazionale intanto si preparava un possibile attacco di Austria, Prussia e Russia ai danni della Francia, soprattutto per evitare che i germi della rivoluzione si propagassero in Europa.

3 - LA PRIMA REPUBBLICA

La maggioranza dei Foglianti si dimostrò ben presto incapace di gestire il proprio ministero: sia nell’arginare le continue tensioni sociali fomentate dai Giacobini, sia nel risolvere la pericolosa frattura internazionale che aveva condotto alla formazione del fronte antirivoluzionario europeo. Un buon numero di fuoriusciti si appella intanto all’imperatore austriaco Leopoldo II affinchè dichiari guerra alla Francia, e nella stessa Francia si forma un sempre più consistente partito interventista, formato dai Girondini borghesi, che avrebbero tratto indubitabili vantaggi economici e politici dalla guerra, dal re che avrebbe rilanciato la monarchia in caso di vittoria, e dai lafayettisti che speravano di rafforzare le posizioni conservatrici. Voce fuori dal coro era quella dei Giacobini più intransigenti, guidati da Robespierre, che non si fidavano giustamente del facile consenso di Luigi XVI al conflitto. La svolta decisiva nel dibattito si ebbe nel 1792 con l’ascesa al trono d’Austria di Francesco II, favorevole alla guerra, e, quasi in contemporanea, con l’avvento al potere dei Brissottini della Gironda, da sempre teorici dell’intervento armato. Il 20 aprile dello stesso anno l’Assemblea Nazionale votava a larghissima maggioranza la Dichiarazione di Guerra all’Austria, poi estesa anche alla Prussia.
Le operazioni volsero subito al peggio, sia per la defezione di molti nobili ufficiali francesi passati al nemico, sia per la disorganizzazione e la debolezza dell’esercito rivoluzionario. Le prime sconfitte radicalizzarono la situazione sociale e politica, già di per sé estrema: i moderati accusavano i Girondini di essere i responsabili del fallimento della guerra a causa delle agitazioni sociali, i democratici invece accusavano i nobili di connivenza col nemico. Il re fu obbligato a richiamare all’ordine i preti refrattari alla Costituzione Civile del Clero e ad approntare ventimila federati in mobilitazione nell’eventualità dell’imminente invasione. Fu proprio il timore dell’invasione a rinsaldare la sinistra, anche se furono probabilmente i sanculotti i veri protagonisti degli eventi che seguirono.
Il duca di Brunswick, alla testa del fronte controrivoluzionario, minaccia di distruggere Parigi se il re e la sua famiglia fossero stati oltraggiati: poco dopo, mentre i Giacobini instauravano la Comune Insurrezionale, il 10 agosto i sanculotti assaltano il palazzo delle Tuileries. L’Assemblea fu costretta così a sospendere di nuovo Luigi XVI dalle sue funzioni e a imprigionarlo nella Torre del Tempio; inoltre furono indette nuove elezioni a suffragio universale per istituire una Convenzione Nazionale al posto dell’Assemblea, mentre i compiti di governo venivano affidati a un esecutivo provvisorio di sei membri, di cui faceva parte Danton. Il colpo di stato sanculotto segnava la fine della monarchia, e soprattutto la sconfitta dei moderati borghesi che fino a quel momento avevano deciso le sorti della rivoluzione. La Comune era diventata il centro del potere. Nel frattempo però cadevano i presidi vicini alla capitale e la folla dei sanculotti, esasperata dal pericolo, reagiva in maniera violenta, come nel caso dell’assalto al carcere, dove vennero massacrati nobili, preti refrattari e persino comuni carcerati.
Il 20 settembre 1792 si insediava la Convenzione Nazionale: ne erano esclusi nobili e moderati, tutti sospettati di connivenza con il nemico. Nello stesso giorno l’esercito francese fermava vittoriosamente il fronte controrivoluzionario a Valmy. Il giorno dopo la Convenzione Nazionale dichiarava abolita la monarchia e proclamava la Repubblica.

4 - LA DITTATURA GIACOBINA

Il biennio seguente, tra il 1792 e il 1794, rappresenta la fase più convulsa della Rivoluzione e comprende:

la guerra tra Girondini e Montagnardi;
la dittatura giacobin
la reazione termidoriana e la fine della dittatura.

Innanzitutto gli schieramenti interni alla Convenzione erano certamente mutati dai tempi dell’Assemblea Nazionale. A destra c’erano ora i Girondini, borghesi e repubblicani sinceri, moderati nelle loro rivendicazioni politiche; al centro sedevano ancora i deputati della Palude, detti ora anche Pianura; a sinistra sedevano gli intransigenti Giacobini detti Montagnardi, poiché occupavano gli scranni più alti.
L’esercito francese del generale Dumoriez continuava intanto a mietere successi e ad aprirsi utili varchi verso il Belgio. Il 10 dicembre 1792 iniziava il processo a Luigi XVI: invano i Girondini cercarono di salvare il re dalla ghigliottina. Nella votazione decisiva prevalsero le tesi della Montagna, che rimproverava al sovrano una assoluta inadempienza al ruolo di sovrano costituzionale, e, con l’appoggio della Palude, Luigi XVI fu condannato a morte. La sentenza venne eseguita il 21 gennaio dell’anno seguente, 1793.
Forte dei successi ottenuti, l’impegno espansionistico della Francia si rafforza, con le dichiarazioni di guerra a Olanda e Inghilterra, e con l’istituzione di una leva obbligatoria, che porta nelle file dell’esercito francese trecentomila coscritti. I deputati della Montagna chiedono alla Convenzione l’istituzione di uno speciale Tribunale Rivoluzionario contro i sospetti di connivenza col nemico: il clima di terrore disordinato coinvolge tutte le istituzioni. Ad animare la révanche non era solo un interesse economico e politico, ma anche una precisa missione di liberazione di cui i Giacobini si sentivano investiti. Le potenze europee, guidate dall’Inghilterra, si uniscono nella Prima coalizione antifrancese; nel frattempo l’esercito rivoluzionario è in difficoltà, perché il generale Dumoriez reagisce all’istituzione del Tribunale Rivoluzionario contro i sospetti passando al nemico. La stessa opinione internazionale guarda con sfavore alla causa rivoluzionaria dopo l’esecuzione di Luigi XVI.
Nel marzo 1793 si ribella la Vandea, con un folto gruppo di dissidenti formato da preti refrattari, nobili e contadini. Mentre la situazione economica si riaggravava, e le sorti della guerra, dopo la defezione del Dumoriez, iniziavano a decadere, il malcontento, iniziato in Vandea si diffondeva. I Montagnardi istituiscono il Comitato di Salute Pubblica, al fine di esercitare un controllo più preciso sulla leva di massa: i Girondini però si rendevano conto che la Montagna voleva istituire una dittatura e promuovono una campagna antigiacobina che culmina con l’insurrezione contro i Girondini di Parigi il 31 maggio 1793. Il 2 giugno i sanculotti assaltano i locali della Convenzione e fanno arrestare 29 deputati Girondini. La Montagna prende definitivamente in mano il potere. Mentre i Girondini superstiti animavano una propaganda antigiacobina nel dipartimenti, la Convenzione si metteva al lavoro per consegnare una nuova carta costituzionale, e dando vita a un articolato programma di riforme democratiche.
Il 24 giugno del 1793 la Convenzione varava la nuova Costituzione democratica. Era un documento che non si discostava molto dai dettami del 1789, ma fortemente orientata in senso egualitario e democratico. Tutti i cittadini erano uguali e tutti degni di partecipare alla gestione dello stato indicendo il suffragio universale maschile; inoltre, pur senza toccare la proprietà privata, la nuova Costituzione cercava di mediare il problema della disuguaglianza economica tra i cittadini con una nuova Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. Pochi giorni dopo il leader Marat veniva assassinato dalla giovane realista normanna Charlotte Corday.
Nel luglio del 1793 il Comitato di Salute Pubblica, con Robespierre e Saint Just in prima linea, assume ufficialmente il controllo dell’esecutivo e impone la coscrizione obbligatoria mobilitando 570 mila francesi contro il nemico. L’emergenza della situazione, interna ed esterna, imponeva al Comitato la rinuncia alla separazione dei poteri, che dovevano essere affidati nelle mani di un solo ente per arginare il precipitare degli eventi politici, sociali e militari. Sotto la pressione sanculotta, il Comitato di Salute Pubblica, coadiuvato dalla polizia politica del Comitato di Sicurezza Generale, inizia a governare col metodo del Terrore, una feroce repressione che nel giro di poco tempo porta sul patibolo 17 mila sospettati di simpatie rivoluzionarie, tra cui la deposta regina Maria Antonietta.
Il 29 settembre viene approvata la legge sul maximum dei prezzi, per calmierare i costi dei beni di prima necessità nell’imminente recrudescenza del conflitto e al fine di scongiurare le speculazioni. Si procede alla laicizzazione dello stato con la soppressione della domenica religiosa, e viene promossa la cultura repubblicana con l’adozione di un nuovo calendario rivoluzionario che calcolava i giorni dal 22 settembre 1792, cioè il primo giorno della repubblica, e dava ai mesi il nome di eventi legati al mondo contadino (Vendemmiaio, Brumaio, Frimaio, Nevoso, Piovoso, Ventoso, Germinale, Fiorile, Pratile, Messidoro, Termidoro, Fruttidoro); inoltre inizia la campagna di scristianizzazione promossa dal gruppo estremista degli Arrabbiati, guidati da Jacques Hébert, volta alla soppressione del culto e del clero cattolici, sostituiti dal culto dei Martiri della Rivoluzione (come Marat) e della dea Ragione.
Nonostante i successi sui due fronti, quello interno e quello esterno, la dittatura giacobina poggiava su un terreno precario, soprattutto per la lotta politica tra gli estremisti sanculotti degli Arrabbiati e i moderati Indulgenti guidati da Danton che chiedevano la soppressione del regime del Terrore. Robespierre si alleò dapprima con gli Indulgenti, mandando a morte molti sanculotti di cui non condivideva le posizioni ateistiche, essendo lui un convinto deista, e poi non esitò a far condannare i capi degli stessi indulgenti a cui rimproverava atti di speculazione e corruzione. Robespierre arrivò dunque a una dittatura personale. Per definizione incorruttibile, Robespierre si ispirava alle teorie democratiche di Rousseau e intendeva istituire una società di eguali, senza ricchi o poveri. Dal punto di vista religioso introdusse il culto dell’Essere Supremo, con tanto di decreto e di festa comandata, e dell’immortalità dell’anima. Questa mossa non fu gradita dai sanculotti atei, che si unirono ai contadini nella lotta antigiacobina.
Il precario equilibrio della dittatura giacobina culminava col Grande Terrore: una legge sui sospetti dava facoltà al Comitato di Salute Pubblica di condannare i sospettati senza processo. Era una mossa inutile perché giungeva proprio nel periodo in cui la Francia poteva vantare nuovi successi nelle campagne militari e mentre la situazione interna era ormai stata domata. La reazione al regime fu durissima. Coadiuvati dalla Pianura, i deputati della Convenzione, unitamente ai fuoriusciti, preparano una congiura per rovesciare Robespierre. Questi cerca di affidarsi alla Convenzione, ma il 27 luglio (9 termidoro) 1794 la congiura antigiacobina fa arrestare come tiranni Robespierre, Saint Just e altri venti capi giacobini, che vengono ghigliottinati il 28 luglio, senza processo, e di fronte al popolo in muto silenzio.

Il nuovo schieramento al potere era costituito dai Girondini superstiti, reintegrati nella Convenzione, e dai deputati della Pianura. La Convenzione Nazionale riprese i suoi poteri, affiancata da quattordici nuovi Comitati (in sostanza dei dicasteri) e inizia  il processo di smantellamento del regime del Terrore instaurato da Robespierre e dai Giacobini oltranzisti. Ma la degiacobinizzazione del paese attraversa una fase ancora molto cruenta, detta Terrore bianco – per distinguerla dal Terrore rosso di matrice giacobina – in cui protagoniste furono le bande della jeunesse dorée parigina, ossia i rampolli della buona borghesia, che davano la caccia ai comunisti e ai sanculotti rimasti. Tutti i vecchi club patriottici sono chiusi, ovviamente compresi quelli giacobini, e sono aboliti tutti i tribunali e le istituzioni del precedente regime. Il ripristino della libera iniziativa economica è l’atto che riconsegna di fatto la causa rivoluzionaria nelle mani della borghesia. L’unica istituzione che resta in piedi  è l’esercito, anche se la guerra contro la Coalizione conobbe in questo periodo un attimo di stasi, favorendo l’invasione francese del Belgio e della Repubblica Batava (ex Olanda).

5 - LA REPUBBLICA TERMIDORIANA

Questo ritorno alla normalità non fu però tranquillo, perché i termidoriani dovevano fare i conti con una tenace opposizione da destra e da sinistra: da sinistra perché la Convenzione aveva, come primo atto formale, abolito il calmiere sui prezzi, provocando la temuta speculazione e l’inevitabile inflazione, da destra perché ancora sopravvivevano sentimenti filomonarchici, accentrati ancora una volta in Vandea.
Erano soprattutto le masse a insorgere, al grido di “pane e costituzione” ma l’insurrezione popolare di Parigi del  maggio 1795 fu duramente repressa (e fu anche l’ultima) e i capifazione giacobini e sanculotti furono messi a morte. Sul fronte internazionale vengono firmati trattati di pace con le potenze della Coalizione, solo l’Austria e l’Inghilterra restano in guerra. Nel frattempo si riaccende il focolaio rivoluzionario in Vandea, dove i realisti tentano l’ennesima restaurazione della monarchia. A reprimere l’insurrezione viene inviato l’esercito comandato da un giovanissimo Napoleone Bonaparte.
Il 22 agosto 1795 viene varata la nuova Costituzione, che si disse “dell’anno III” poiché cadeva nel terzo anno della repubblica. Il potere venne nuovamente ripartito:
quello legislativo fu affidato a due camere, un Consiglio dei Cinquecento e un Consiglio degli Anziani, eletti a suffragio censitario ogni tre anni;
il potere esecutivo viene affidato a un Direttorio di cinque membri, eletti dalle camere, col compito di nominare i ministri e i capi dell’esercito.
La stessa Dichiarazione dei Diritti fu nuovamente corretta, col ripristino della libera iniziativa economica, e furono vietate le associazioni popolari: si trattava dunque di misure di cautela  con cui la nuova maggioranza voleva impedire ogni tentativo insurrezionale e soprattutto ogni possibilità di rovesciamento politico; lo stesso ripristino del sistema censitario garantiva a tutti eguali diritti ma tornava a limitare l’accesso alla vita politica attiva alle frange più incontrollabili del giacobinismo estremo. Compiuta la transizione e assicuratasi la  maggioranza alle camere, la Convenzione si sciolse il 26 ottobre.

venerdì 26 agosto 2016

800 - Parte 1A

L'OTTOCENTO - PARTE  1A
L'ETÀ NAPOLEONICA
(1799-1815)

1 - DAL DIRETTORIO AL CONSOLATO: L’ASCESA DI NAPOLEONE BONAPARTE

Il Direttorio non poggiava su un terreno sicuro e stabile, minato com’era dall’opposizione monarchica e giacobina, e potè sostenersi solo con l’appoggio dell’esercito. Soprattutto il governo del Direttorio iniziava in un periodo di grave crisi economica, dovuta al blocco dei commerci esteri, a causa della guerra con l’Inghilterra, dovuto al nuovo inasprimento dell’inflazione e dovuto anche a una crisi di produzione agricola. Sul fronte interno si erano intanto riaccesi i focolai filomonarchici nel Nord e in Vandea, e a sinistra il movimento giacobino, riammesso nella legalità, si ricostituiva intorno alla figura di Caio Gracco Babeuf, e portava avanti il progetto dichiaratamente comunista della società degli Eguali, con l’abolizione della proprietà privata e la socializzazione della terra. Quello di Babeuf era un progetto cospirativo, che vantava anche un giornale, il Tribuno del Popolo, e contava molti simpatizzanti, tra cui l’italiano Filippo Buonarroti: il 10 maggio 1796 la congiura fu scoperta e l’anno dopo Babeuf e i suoi compagni furono messi a morte.
A causa della psicosi comunista il Direttorio decise di piegare a destra, dando così la possibilità agli insorti vandeani e ai ribelli chouans di combattere per la monarchia senza più nascondersi.  Fu proprio in quell’anno che il Direttorio decise una grande mossa offensiva contro l’Austria, con due armate, comandate dai generali Moreau e Jourdan, impegnate verso Vienna, e una terza armata, comandata dal generale Bonaparte, impegnata sul fronte italiano, per alleggerire il fronte tedesco.
Napoleone Bonaparte era nato ad Ajaccio nel 1769, e aveva solo 27 anni. Da sempre era fervente giacobino, e solo il suo giacobinismo gli aveva consentito di alleggerire l’odio verso i dominatori francesi della sua Corsica. Dopo essersi distinto nell’assedio di Tolone conquista i gradi di generale, ma cade in disgrazia dopo la reazione termidoriana, quando i giacobini vengono estromessi dalla vita politica. Riesce a rientrare nel giro grazie alla protezione di uno dei cinque membri del Direttorio, Barras, giù amante della sua compagna (la creola Josephine Beuharnais); il suo intervento nell’insurrezione realista del 1795 gli fa meritare la fiducia nelle sue doti militari.
Bonaparte fu il vero protagonista della guerra con l’Austria. Mentre  le due armate di Moreau e Jourdan restavano bloccate al Reno, l’armata di Bonaparte, galvanizzata dallo spirito di révanche rivoluzionaria, mieteva successi prima contro gli Austriaci e poi contro i Piemontesi, costringendo il re sabaudo Vittorio Amedeo III, prima all’armistizio di Cherasco, poi alla pace di Parigi e alla cessione di Nizza e Savoia. Sconfitti gli Austriaci a Lodi, Napoleone entra a Milano acclamato come un liberatore, occupando la Lombardia e Mantova. I sovrani italiani si piegavano al generale e avviavano le trattative di pace con la Francia. La campagna d’Italia consacrava il genio politico e militare di Bonaparte: la velocità di decisione e l’assoluta sfrontatezza portavano infatti il generale a comportarsi da padrone, fino a spingersi a Vienna, dove l’imperatore fu costretto a firmare i preliminari di pace a Leoben, a pochi chilometri da Vienna, che poi verranno ratificati a Campoformio.
Sull’onda della popolarità del Bonaparte si costituiscono molte repubbliche giacobine.
All’inizio furono due, la Cispadana e la Transpadana, che poi Napoleone fuse nella Repubblica Cisalpina, che adottò la bandiera tricolore, a cui seguono la Repubblica Ligure e la Repubblica Romana. Intanto insorgono molte città, che si pongono sotto il dominio francese, e anche a Venezia, conquistata da Napoleone, il patriota giacobino Daniele Manin costituisce un governo democratico. Le speranza democratiche dei moderati, che speravano che Bonaparte garantisse loro un regime termidoriano, furono ben presto disilluse, perché il generale impose alle “repubbliche sorelle” un regime di ferrea occupazione e proprio la caduta storica di Venezia rappresentava il vero volto dell’occupazione napoleonica. Va sottolineato però anche il carattere positivo dei tre anni di vita del giacobinismo italiano, poiché grazie a questa impronta riformatrice molte strutture politiche ed istituzionali del paese furono modificate.
Il 4 settembre 1797 (18 fruttidoro) la destra si impossessa del potere. Il 17 ottobre viene firmata la pace di Campoformio, con cui Venezia, ormai dominio francese, viene ceduta all’Austria, con la delusione dei simpatizzanti giacobini. Napoleone ottiene Belgio, Lombardia, Isole Ionie, Treviri e Palatinato; all’Austria vanno, oltre Venezia, Istria e Dalmazia. Nel febbraio 1798 l’esercito francese occupa Roma, caccia il papa, che ripara nel Regno di Napoli, e instaura la Repubblica Romana.
A Parigi, dove il golpe napoleonico aveva condotto alla vittoria della destra francese, si insedia un triumvirato che si sostituisce al Direttorio e adotta provvedimenti eccezionali e repressivi. La repressione colpì egualmente i giacobini e i monarchici, gli uni furono dissuasi dal riproporre la Costituzione Democratica del 1793, gli altri furono dissuasi dal tentativo di restaurare la monarchia. Di fatto fu una dittatura moderata, che si sosteneva con l’appoggio dell’esercito.
Nel frattempo, sul fronte internazionale, Napoleone continuava la politica di annessione, ora estesa alla Svizzera (diventata Repubblica Elvetica). Ultimo atto prima del definitivo trionfo fu la campagna d’Egitto. Dopo aver ordinato il blocco economico contro l’irriducibile Inghilterra, Napoleone si recò in Egitto: si trattava di una mossa intelligente, poiché la conquista dell’Egitto garantiva alla Francia un buon avamposto sul Mediterraneo. Dopo aver sconfitto i Mamelucchi nella battaglia delle Piramidi (21 luglio 1798) Napoleone occupa il Cairo, ma la sua flotta viene sorpresa alla fonda presso Abukir dagli Inglesi di Nelson, e la sua distruzione obbliga Napoleone a un esilio forzato in terra egiziana. Con Bonaparte bloccato in Egitto gli stati europei ancora liberi dichiarano guerra alla Francia, ma l’esercito francese riesce ugualmente a sconfiggere gli insorti e ad annettere il Piemonte e il Regno di Napoli, dove viene proclamata da alcuni patrioti la Repubblica Partenopea.
La guerra si estende però a tutta l’Europa e le principali potenze, coordinate da Austria e Russia a est e dall’Inghilterra a ovest, formano la Seconda Coalizione antifrancese. Nella primavera del 1799 l’esercito austro-russo riconquista l’Italia. Il caso più famoso è quello della Repubblica Partenopea. Coadiuvato dalla flotta inglese di Nelson, il cardinale Fabrizio Ruffo organizza in Calabria la spedizione contadina dei Sanfedisti, così detti perché inalberavano come simbolo una croce, simbolo della Santa Fede. I due schieramenti attaccano Napoli sui due fronti, quello marittimo e quello terrestre, obbligando i patrioti napoletani alla resa. Istigato da Nelson, Ruffo ordina l’arresto e la conseguente  condanna a morte dei patrioti ribelli. 
Ormai le forze della Coalizione sono giunte alle porte della capitale francese. A salvare la Francia, nel settembre 1799, furono sia la vittoria del generale Massena, che fermò a Zurigo l’esercito della Coalizione, sia i dissensi sorti tra lo zar russo Paolo I e l’imperatore asburgico. Il nuovo capo del Direttorio, Sieyès, viene convinto nel frattempo a revisionare la costituzione del 1795, e a fondare il governo del paese su poteri forti e stabili. In questo periodo Bonaparte rientra a Parigi dall’Egitto e, affidato l’esercito al generale Klèber, riesce a farsi affidare dal Direttorio (che, come si ricorderà, sceglieva i comandanti dell’esercito) il comando della guarnigione di stanza a Parigi, mentre al di lui fratello Luciano è affidata la presidenza del Consiglio dei Cinquecento. Il 9 novembre (18 brumaio) del 1799 Napoleone, sciolto con la forza il Consiglio dei Cinquecento, si fa affidare dal Consiglio degli Anziani il governo tramite un Consolato con pieni poteri.

2 - IL BIENNIO CONSOLARE

Il 18 brumaio (9 novembre) 1799, grazie a un colpo di stato, il generale Napoleone Bonaparte, con Sieyès e Ducos, viene incaricato di governare il paese con un Consolato triumvirale a cui il Consiglio degli Anziani affida pieni poteri. Il golpe nasceva da un accordo con il capo del Direttorio Sieyès, amico del Bonaparte e desideroso di un governo forte e centrale; lo stesso Bonaparte non ebbe alcun ostacolo poiché godeva di grande favore da parte del popolo francese. Il 18 brumaio 1799 si chiudeva di fatto il decennio rivoluzionario e si apriva l’età napoleonica, che durerà quindici anni, dal 1800 al 1815. Quella che fu l’eredità della Rivoluzione non andò di fatto persa. Non è un caso che la maggior parte degli storici riconosca nel 1789 l’inizio di una nuova era, praticamente la seconda fase dell’età moderna. Va infatti sottolineato come la stessa società francese fu radicalmente cambiata, con la conquista del potere da parte della borghesia e la fine dell’assolutismo e dello strapotere dei ceti nobiliari; e inoltre non si può dimenticare l’enorme influenza ideologica che l’esperienza giacobina e quella comunista di Babeuf riuscirono a esercitare sulle masse.
Il golpe napoleonico rappresentava la consacrazione di uno stato di fatto: la stabilità del paese dipendeva ormai dal potere militare e quello napoleonico si dimostrava erede della dittatura giacobina. Napoleone incarnava il ruolo del potere forte che era necessario per assicurare stabilità al paese, e fidandosi del favore dei suoi sostenitori il Bonaparte riuscì a emergere nel Consolato triumvirale diventando Primo Console e ispirando egli stesso la revisione della carta costituzionale. La nuova Costituzione, che si disse “dell’anno VIII”, fu varata il 25 dicembre 1799 e accolta plebiscitariamente dal popolo. Con la nuova Costituzione i poteri erano così ripartiti:
il potere esecutivo (nomina dei ministri, dei magistrati, dei funzionari di stato e dei comandanti dell’esercito; proposta di leggi) spettava al Primo Console, mentre agli altri due magistrati spettano solo funzioni consultive;
il potere legislativo è affidato a tre Assemblee: il Tribunato, che discute le proposte di legge; il Corpo Legislativo, che vota le leggi con un sì o con un no; il Senato, che controlla l’adesione delle leggi ai principi costituzionali.
Considerato che il Tribunato e il Corpo Legislativo erano nominati dal Senato, e che il Senato era nominato dal governo, era evidente che le elezioni non si sarebbero mai tenute. Non fu dunque difficile per il Bonaparte consolidare il potere nelle sue mani. Difatti la Costituzione dell’anno VIII:
poneva il potere nelle mani del Bonaparte, Primo Console, il quale lasciava ai due triumviri (Sieyès e Ducos furono sostituiti da Lebrun e Cambacérès) solo poteri consultivi;
riduceva le tre Assemblee a sole funzioni di rappresentanza e costituite da personale cooptato e non eletto;
istituiva sì il suffragio universale ma le consultazioni si svolgevano solo per ratificare le scelte politiche col consenso popolare, e fu lo strumento del consenso plebiscitario a rafforzare il controllo napoleonico sulle masse;
conservava sì l’indipendenza della magistratura ma era sempre l’esecutivo che sceglieva i magistrati.
Il potere di Napoleone rafforzava, soprattutto con l’istituzione dei Prefetti, uno in ogni dipartimento e alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, il potere centrale, e indeboliva quello delle autonomie locali. L’istituzione di una Polizia di Stato consentì poi un controllo più specifico.
Nel maggio 1800 Napoleone riprende la guerra con l’Austria, scendendo in Italia: sconfitti sui due fronti, a Marengo dal Bonaparte e a Hohenlinden dal Moreau, gli Austriaci sono costretti alla resa, e l’imperatore ratifica con la pace di Luneville, il 9 febbraio 1801, gli accordi di Campoformio. Mentre Napoleone occupa il nord, Gioacchino Murat occupa la Toscana, e rinasce la Repubblica Cisalpina. Ora tutta l’Italia centro-settentrionale, la Repubblica Batava e la Repubblica Elvetica, riconosciute dall’Austria, tornavano come repubbliche sorelle sotto il controllo francese.
Conclusa la pace con l’Austria restava l’Inghilterra, che aveva occupato Malta e bloccava di fatto i traffici commerciali francesi. Ancora una volta Napoleone fu salvato dallo zar Paolo I, molto vicino al Bonaparte, che promosse una Lega Baltica contro il divieto inglese di commerciare con la Francia. Ad alimentare le tensioni tra i due paesi era stato soprattutto il rifiuto inglese di cedere Malta alla Russia. L’Inghilterra riuscì a piegare la Lega, ma era di fatto isolata, e costretta a firmare la pace di Amiens, nel febbraio 1802, con cui riconosceva il controllo francese su tutte le conquiste europee e continentali. Malta venne restituita all’Ordine dei Cavalieri dell’isola.

Napoleone si impegnò già nel suo primo biennio consolare in un articolato programma di riforme:
pacificazione politica – con la soppressione definitiva dei moti realisti vandeani, della stampa giacobina e monarchica, e con la garanzia dell’amnistia per tutti gli ex rivoluzionari, a patto che giurassero fedeltà alla nuova Costituzione;
pacificazione religiosa – con la firma del Concordato col papa Pio VII, la soppressione della Costituzione Civile del Clero, il riconoscimento del diritto pontificio a consacrare i vescovi, ma anche ribadendo con gli Articoli Organici del Culto Cattolico il controllo dello stato francese sul clero, comunque nazionalizzato e stipendiato dallo stato stesso;
riordino delle finanze – con la creazione della Banca Nazionale, il ritiro della carta moneta e l’adozione del franco d’argento con le sue sottodivisioni decimali;
riordino del sistema fiscale – con l’istituzione di un nuovo sistema di tassazione indiretta sui beni di largo consumo;
riordino dell’istruzione superiore – con la statalizzazione dell’istruzione e l’istituzione dei licei, dell’Università e delle Scuole Politecniche, e con l’istituzione della Scuola Normale Superiore di Parigi, col compito di formare i docenti di liceo; l’istruzione inferiore resta affidata ai comuni e al clero.

3 - L’IMPERO

Malgrado quello napoleonico potesse richiamare una forma di dispotismo illuminato, occorre sottolineare il grado di efficienza e di modernizzazione improntati alla fisionomia della società e delle istituzioni francesi. Fondandosi ancora una volta sul consenso popolare Napoleone chiede il Consolato a vita: il Senato glielo nega, proponendo solo una estensione decennale della carica, ma col plebiscito popolare il Bonaparte ottiene la nomina vitalizia pochi mesi dopo. Per rafforzare il potere stabilisce con una nuova revisione costituzionale la scelta esclusiva dei senatori da parte del Primo Console, e la nomina a vita dei membri delle Assemblee, il che riduceva al minimo il rischio di elezioni.
Il 21 marzo 1804 Napoleone promulgava il Codice Civile dei Francesi, che fu poi detto Codice Napoleonico. Si trattava del coronamento dell’importante opera riformatrice del Bonaparte, il quale con questo atto riordinava la disordinata selva giuridica che si era creata in seno alla Rivoluzione. Il Codice riconfermava tutte le conquiste rivoluzionarie, la libertà, l’uguaglianza, la laicità dello Stato; regolamentava il diritto di proprietà come diritto naturale, e riordinava il diritto di famiglia introducendo il diritto di successione e regolamentando i matrimoni, civili e religiosi, e le modalità di divorzio.
Intanto si rompeva la pace con l’Inghilterra. L’espansionismo francese, ormai esteso a tutto il continente europeo, preoccupava gli Inglesi, che avevano rifiutato di cedere Malta provocando così la reazione del Bonaparte: nell’estate del 1803 la Grande Armata napoleonica si preparava sul centro costiero di Boulogne alle operazioni di invasione dell’isola. Erano soprattutto motivi economici a rendere inevitabile il conflitto: la politica protezionista adottata dall’economia napoleonica si scontrava inevitabilmente con gli interessi inglesi sulla terraferma, poiché le nazioni europee sotto controllo francese erano molte.
Mentre si avviavano le operazioni di guerra viene scoperto e duramente represso un tentativo di congiura realista antinapoleonico. Ne erano promotori molti vecchi sostenitori della monarchia, ma anche molti repubblicani delusi. Scongiurato il tentativo, il 18 maggio 1804 il Senato vara la Costituzione dell’anno XII e propone Bonaparte imperatore. È un plebiscito popolare, ancora una volta, a ratificare la decisione: nel dicembre seguente, lo stesso papa Pio VII incorona Napoleone imperatore nella cattedrale di Notre Dame a Parigi; pare che al momento dell’incoronazione il Bonaparte avesse tolto di mano al pontefice la corona e si fosse incoronato da solo.
Con l’incoronazione imperiale Napoleone formava una nuova aristocrazia, formata da membri del suo clan familiare e da ufficiali e funzionari di sua stretta fiducia, in pratica gli stessi suoi diretti sostenitori, conservando e rafforzando ulteriormente il proprio prestigio politico, economico e sociale presso il paese.

Il nuovo regime si muoveva verso due obiettivi: l’espansione continentale e lo sviluppo economico del paese. Mentre sul fronte internazionale Napoleone riesce a consolidare il suo controllo sull’Olanda, ora Repubblica Batava, ponendo un Gran Pensionario alle sue dipendenze, e sull’Italia, facendosi incoronare re e annettendo la Repubblica Ligure, l’Inghilterra promuove la Terza Coalizione antifrancese insieme all’Austria, al Regno di Napoli, alla Svezia e alla Russia, obbligando il Bonaparte a spostare la Grande Armata in centro Europa. Tra i due paesi vi era equità: la Francia era forte sulla terraferma (come dimostrano le due vittorie napoleoniche a Ulma, presso Vienna, e Austerlitz), l’Inghilterra era forte in mare (come testimonia la pesante sconfitta di Trafalgar, dove lo stesso Nelson muore in battaglia). Fu proprio la vittoria francese di Austerlitz, nella cosiddetta battaglia dei tre imperatori (partecipavano infatti Napoleone, Francesco II d’Asburgo e lo zar Alessandro I), che obbligò Austria e Russia alla resa.
L’Austria firmava dunque la pace di Presburgo il 26 dicembre 1805 e cedeva alla Francia il Veneto, le province di Istria e Dalmazia e parte del territorio tedesco, con cui il Bonaparte formava la Confederazione del Reno, nel luglio del 1806. Sempre nel 1806 Napoleone occupa il Regno di Napoli e lo affida al fratello Giuseppe e in quella stessa estate la Prussia, delusa dal Bonaparte che non aveva rispettato la promessa di cederle la provincia di Hannover, promuove la Quarta Coalizione, insieme all’Inghilterra, alla Russia e alla Svezia. Il 14 ottobre l’esercito prussiano viene sconfitto a Jena e poi ad Auerstadt, e Bonaparte entra trionfalmente a Berlino. Poche settimane dopo Napoleone, non potendo battere l’Inghilterra sul proprio terreno, decide di adottare il blocco continentale, imponendo il divieto assoluto di importare merci inglesi in tutti i paesi controllati dalla Francia e ordinando l’immediato arresto di tutti gli inglesi presenti sul suolo francese. Nel giugno 1807 la Francia sconfigge l’esercito russo a Friedland. Consapevole di non poter sostenere alla lunga distanza un conflitto con la Russia, Napoleone propone allo zar Alessandro I la pace, conclusa il 7 luglio 1807 a Tilsit, su una zattera sul fiume Niemen. I due imperatori dividono di fatto l’Europa in due zone di influenza: quella occidentale alla Francia, quella orientale alla Russia. Così la Francia si prende la Westfalia e i territori polacchi, mentre la Russia inizia l’espansione verso la Finlandia e l’Impero Ottomano.
Successivamente il Bonaparte occupa la Penisola Iberica, al fine di isolare l’Inghilterra: prima fa invadere il Portogallo, e successivamente, approfittando di un contrasto tra il re spagnolo Carlo IV e il figlio Ferdinando, fa invadere la Spagna, depone il sovrano e pone al suo posto il fratello Giuseppe, già re di Napoli; mentre la corona del Regno di Napoli passa al cognato di Napoleone, Gioacchino Murat. L’occupazione spagnola non fu facile: il popolo infatti insorse, usando l’arma della guerriglia e attaccando a sorpresa il contingente francese; la guerriglia fu poi appoggiata dall’Inghilterra, che invia un corpo di spedizione guidato dal duca di Wellington sul suolo portoghese. I Francesi vengono quindi cacciati dal Portogallo e il Bonaparte decide di dare una svolta alle operazioni inviando in Spagna duecentomila uomini, al fine di garantire una certa continuità nelle operazioni. Tuttavia quella francese fu solo una dominazione di facciata e sempre in bilico a causa della guerriglia.
Approfittando della difficoltà francese in Spagna, l’Austria nella primavera del 1809, promuove la Quinta Coalizione insieme all’Inghilterra. Bonaparte mette insieme un esercito di duecentomila uomini e sconfigge gli Austriaci a Wagram, obbligando l’imperatore a firmare la durissima pace di Schonbrunn, negoziata dal nuovo cancelliere austriaco Metternich, con cui ridimensiona completamente il proprio territorio. Con la decisiva vittoria sull’Austria Napoleone restituiva di fatto alla Francia la stessa potenza dei fasti carolingi. Purtuttavia a Napoleone mancava un erede al trono, che avrebbe garantito la continuità dinastica dei Bonaparte.
Il 1 aprile 1810 Napoleone, dopo aver ottenuto il divorzio dalla prima moglie Josephine Beuharnais, sposa la figlia dell’imperatore austriaco, Maria Luisa, e l’anno successivo nasce l’erede, Francesco Carlo Giuseppe, subito nominato re di Roma e primo della breve dinastia dei Napoleonidi.

Il nuovo assetto politico e istituzionale dell’Europa era così completato. Sotto l’impero di Napoleone prende forma quello che viene chiamato sistema continentale, cioè un insieme compatto di stati, controllati dalla Francia, che doveva garantire non solo una continuità politica, ma anche un fronte comune contro l’Inghilterra. In sostanza Napoleone operò su tre principali campi: l’annessione di alcuni stati, la creazione di una serie di monarchie ereditarie affidate ai propri congiunti e la riduzione degli staterelli tedeschi a una sola entità.
La ristrutturazione napoleonica fu molto importante nell’ambito della geografia politica europea, in quanto dava un assetto unitario ai territori tedesco e italiano, aboliva il lento e anacronistico Sacro Romano Impero e favoriva il sorgere dei primi sentimenti nazionalisti. Dal punto di vista giuridico e istituzionale le riforme napoleoniche furono obiettivamente più incisive del riformismo illuminato, apportando la modernizzazione delle strutture e la soppressione degli ultimi scampoli di feudalesimo. Inoltre in ambito economico creò nuove strutture produttive per sopperire ai disagi del blocco continentale e favorì la crescita politica e funzionale delle borghesie locali, dando loro modo di accedere ai ruoli militari e burocratici, e dunque di maturare culturalmente. Così cambiava la geografia politica dell’Europa:

Annessioni – Sono annesse all’impero Parma e il Piemonte, la Repubblica Ligure e le Province Illiriche, la Toscana, l’Umbria e il Lazio, il Belgio.

Monarchie ereditarie – Queste furono le monarchie costituite da Napoleone e affidate ai suoi congiunti:
Regno d’Italia – si costituisce nel 1805, dopo essere stato Repubblica Cisalpina; Bonaparte ne assume la corona e affida la reggenza a Eugenio Beuharnais.
Regno d’Olanda – già Repubblica Batava, si costituisce nel 1806 e viene affidato a Luigi Bonaparte, e poi nel 1810 annesso all’Impero.
Regno di Napoli – si costituisce nel 1806 ed è affidato prima a Giuseppe Bonaparte e poi al cognato di Napoleone, Gioacchino Murat, marito di Carolina Bonaparte.
Regno di Westfalia – si costituisce nel 1807 ed è affidato a Gerolamo Bonaparte.
Regno di Spagna – si costituisce nel 1808 ed è affidato a Giuseppe Bonaparte, che lascia il Regno di Napoli a Gioacchino Murat.
Ducato di Lucca, Massa Carrara e Piombino – viene affidato a Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone.

Ristrutturazione dell’area tedesca – I 112 staterelli tedeschi sono soppressi, vengono elevati al rango di regni Baviera e Wurttemberg, viene creata la Confederazione del Reno con stati vassalli della Francia e viene eliminato il Sacro Romano Impero con la rinuncia dell’Imperatore Francesco II alla corona imperiale e con la conseguente ascesa dello stesso al titolo di Imperatore d’Austria col nome di Francesco I. I territori polacchi sono raggruppati nel Granducato di Varsavia, mentre sul trono svedese Napoleone pone il fidato generale Bernadotte. Svezia e Polonia completano il quadro degli stati vassalli della Francia.

4 - L’ITALIA NAPOLEONICA

L’Italia - In otto anni, dal 1800 al 1808, tutta l’Italia, a eccezione delle Isole maggiori, passa sotto il dominio napoleonico. Il Regno d’Italia, retto da Eugenio Beuharnais, adotta il modello politico e istituzionale francese, con una costituzione ricalcante quella consolare, tre collegi elettorali riservati ai possidenti, ai dotti e ai commercianti, e il Codice Napoleonico. Nel Regno di Napoli murattiano veniva invece varata la legge sull’eversione della feudalità, i beni ecclesiastici venivano confiscati e  i demani comunali privatizzati. Nel frattempo giungeva anche la scomunica per Napoleone, reo di aver invaso Umbria e Lazio: il Bonaparte per tutta risposta fa arrestare Pio VII e lo rinchiude prima a Savona e quindi lo trasferisce prigioniero  a Fontainebleau.
Nonostante il positivo bilancio economico, conseguente all’inserimento della penisola in una più ampia rete di traffici internazionali, occorre dire che il progresso fu limitato alla sola borghesia e la maggior parte dei settori soffrirono di una eccessiva dipendenza dalle esigenze e dai tornaconto francesi.

La Francia - Sotto Napoleone l’economia francese compiva un gigantesco balzo in avanti.  Il blocco continentale costringeva infatti Napoleone a trovare strade alternative per produrre i beni di prima necessità. Molte colture agricole vennero rinnovate, si fecero strada nuovi settori nella manifattura tessile, modernizzata col sistema della meccanizzazione, mentre vanno in calo i porti atlantici, in conseguenza dell’embargo.

5 - LA CRISI DELL’IMPERO

Nonostante tutto ciò l’Impero Napoleonico conobbe presto numerosi dissensi. Questi venivano soprattutto dai reazionari nostalgici dell’ancien règime, dagli ideologues di matrice liberale, e dai cattolici che non avevano mai perdonato al Bonaparte l’imprigionamento del papa. Ma anche altri fattori minavano la solidità dell’impero:
innanzitutto il sentimento nazionale, risvegliato proprio dallo stesso Bonaparte, che aveva portato la Spagna a ribellarsi contro il regime francese. Proprio nella Spagna napoleonica la guerriglia rappresentava una autentica spina nel fianco, nonostante la presenza dei patrioti liberali che erano riusciti a sopprimere le istituzioni vetero-feudali e la stessa Inquisizione: molti di questi passarono al nemico, abbandonando i cosiddetti afrancesados, e ingrossando le fila dei guerrilleros.  Anche in Germania fiorisce un rinnovato sentimento nazionalista, ispirato soprattutto dal filosofo romantico Fichte e dal suo Discorso alla nazione tedesca;
un altro elemento di tensione era la resistenza inglese, poiché l’Inghilterra non solo era riuscita ad aggirare il blocco continentale con il contrabbando e il commercio coloniale, ma vantava una indiscussa superiorità navale. Tuttavia l’Inghilterra attraversa un periodo di forte tensione sociale, scatenata dal luddismo, il movimento di protesta dei lavoratori che si opponevano all’introduzione delle macchine;
infine, ad aggravare la crisi , c’era la rottura dell’alleanza franco-russa, dovuta in buona parte all’ostilità dell’aristocrazia russa che non vedeva di buon occhio il blocco continentale, in quanto comprometteva i traffici commerciali con l’Inghilterra, e anche agli ambienti religiosi, ostili al laicismo dell’impero napoleonico.
Napoleone si era reso conto dell’inaffidabilità dello zar, e aveva deciso di batterlo sul tempo. Lo zar aveva intimato al Bonaparte di sgomberare il suolo prussiano e di ripristinare i normali traffici economici tra i paesi europei e la Russia. Napoleone rispose inviando una gigantesca armata di seicentomila uomini in territorio tedesco, impedendo di fatto ogni accordo dello zar con Austria e Prussia. All’indifferenza dello zar il Bonaparte decide di rispondere invadendo il territorio russo, nell’estate del 1812. Napoleone contava sull’indiscutibile superiorità numerica della propria armata e attraversò il confine con duecentomila uomini, sicuro di ridurre l’esercito russo alla resa.
Ma i Russi evitarono lo scontro diretto, preferendo adottare la classica strategia della terra bruciata e ritirandosi all’interno del paese. Nel mese di settembre avviene il primo scontro, a Borodino, e poi a Mosca, dove la città viene data alle fiamme, ma lo zar rifiutò ogni trattativa e l’esercito continuò a ripiegare all’interno del paese. Mentre incalzava il rigido inverno russo, nell’ottobre 1812 Bonaparte ordinava la ritirata: fu una catastrofe, con l’armata napoleonica decimata dal freddo e dagli attacchi di partigiani e cosacchi, appena ventimila uomini riuscirono a riattraversare il confine.

6 - I CENTO GIORNI

Mentre Napoleone era impegnato in Russia l’Inghilterra occupava la Spagna e lo zar invadeva il territorio polacco. Tuttavia nessun paese europeo sapeva ancora approfittare della crisi del Bonaparte. La guerra fu rilanciata dalla Prussia, che nel febbraio 1813 promosse la Sesta Coalizione insieme alla Russia, alla Svezia, all’Inghilterra e all’Austria. Napoleone raduna una poderosa armata, formata da inesperti coscritti, che in un primo tempo sembra aver ragione dell’esercito della Coalizione, che viene battuto su due fronti, a Lutzen e a Bautzen, in territorio tedesco; ma a Lipsia l’esercito napoleonico pagò cara l’inesperienza dei suoi soldati e fu duramente battuto. In tre giorni si scontrarono circa un milione di uomini, e non a caso Lipsia è ricordata come la più grande battaglia dell’epopea napoleonica.
La sconfitta del Bonaparte bastò a sfaldare in pochi mesi il sistema continentale. Il 3 aprile 1814, in una Parigi occupata, il Senato dichiara Napoleone decaduto e affida il governo a un esecutivo provvisorio presieduto da Talleyrand. Abbandonato dai suoi generali Napoleone è costretto ad abdicare. L’11 aprile 1814 il governo firma l’accordo di Fontainebleau, che stabilisce la sovranità del Bonaparte sull’isola d’Elba, mentre alla moglie Maria Luisa viene affidato il ducato di Parma; al posto del deposto imperatore viene ripristinato il legittimo erede della corona francese, il conte di Provenza Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI. Il 30 maggio viene firmata la pace di Parigi, che di fatto imponeva alla Francia la rinuncia al suo impero coloniale e il ritorno alla situazione geografica del 1792.
L’Austria occupava la Lombardia per impedire la formazione di uno stato indipendente nel Nord Italia, e alcuni giorni dopo il nuovo re Luigi XVIII adottava un nuovo assetto costituzionale, simile a quello inglese, ma privando il Parlamento di ogni potere. Il nuovo assetto fu causa di un profondo malessere, perché privava gli aristocratici delle loro prerogative feudali e nel contempo restituiva alla borghesia un Parlamento di fatto esautorato. Nel novembre 1814 si riunisce il Congresso di Vienna. Duecentosedici delegazioni cercavano di ridisegnare la carta geografica europea dopo il crollo del sistema continentale di Napoleone Bonaparte. In questo periodo, pochi mesi prima che il Congresso iniziasse i lavori, lo stesso Bonaparte lascia l’isola d’Elba e il 1 marzo 1814 sbarca ad Antibes.
È l’inizio dei cosiddetti Cento Giorni. Mentre il Congresso di Vienna  dichiarava il Bonaparte bandito dall’Europa, Napoleone iniziava la sua marcia trionfale verso la Francia, acclamato da numerosi sostenitori, mentre Luigi XVIII lasciava il paese. Entrato a Parigi Napoleone cercò di appoggiarsi al gruppo degli ideologues, approntando delle riforme liberali, ma gli stati europei si riarmarono per lo scontro decisivo, obbligando il Bonaparte ad approntare un esercito di veterani. Il 18 giugno 1815, a Waterloo, l’esercito del Bonaparte riuscì a sconfiggere l’esercito prussiano; ma questo riuscì a ricongiungersi con quello inglese di Wellington e per Bonaparte fu l’ultima e decisiva sconfitta. Mentre Luigi XVIII riprendeva possesso del trono francese Bonaparte veniva esiliato nell’isola di Sant’Elena, dove consumò i suoi ultimi giorni di vita.