martedì 12 settembre 2017

Classe 3 - Filosofia 2

Filosofia 2 - Classi 3A-3D

 i Sofisti e Socrate

PROTAGORA - LEZIONE 11
La soggettività relativa del vero

11.1 - Nel corso dell’età periclea (V sec. a. C.) la logica classica raggiunge il suo apogeo e con la sofistica la filosofia si trasforma in uno studio dei segni (SEMIOTICA). Merito del movimento sofistico non fu solo quello di indagare sull’origine dei segni, ma sopratutto quello di avere chiarito la distinzione tra la lingua e il linguaggio: un linguaggio, come quello della matematica o della musica, può essere infatti usato in diverse lingue, e una lingua, per esempio il greco, può comprendere diversi linguaggi. Il logos assume nella sofistica un carattere nominalistico e convenzionale, perdendo quindi quella sostanzialità che Parmenide aveva cercato di individuare con la tesi dell’isomorfismo. Dal punto di vista politico i sofisti incarnano la vera novità del periodo: sapienti, poiché contrari a un sapere puramente contemplativo, essi danno alla cultura un carattere marcatamente pratico, insegnando le loro verità come strumento di comunicazione politica, attraverso le tecniche della RETORICA - l’arte della persuasione, da essi inventata -  e dell’oratoria. Sono stati a tutti gli effetti i primi professionisti della cultura, ruolo che però non ha mancato di suscitare grande indignazione nelle correnti successive che accusarono i sofisti di  fare mercimonio della cultura: ciò si deve al fatto che l’arte della persuasione veniva insegnata, dietro pagamento, ai futuri politici, che dovevano diventare maestri di ragionamento, senza però un rigoroso fondamento scientifico delle loro convinzioni. Ma sarebbe impropriamente riduttivo limitare la sofistica solo a questo aspetto, esulando dall’importante contributo dato alla logica. Ma a rendere ancora più pregnante il contributo sofistico è lo studio dell’uomo, che coincide con un periodo critico nell’evoluzione delle poleis e apre di fatto la fase antropologica del pensiero antico.

11.2 - Secondo Protagora la ricerca dell’uomo ha un fine pratico, quello della costruzione della polis, che viene prima di tutto. A differenza di Parmenide, che aveva operato una radicale distinzione tra le strade dell’essere e del non essere, costituendo l’identità di essere, pensiero e linguaggio come legge inderogabile, Nella sua prospettiva relativista Protagora pone l’uomo al centro della natura: senza di lui non avrebbe senso una distinzione tra essere e  non essere. L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono. Ma di quale relativismo si tratta? E in che rapporto sta rispetto all’isomorfismo parmenideo?
Occorre dire innanzitutto che quando Protagora si riferisce all’uomo non si riferisce solo al singolo ma tutta la specie, con tutte le sue complessità e diversità: questo aspetto conduce a considerare l’uomo misura non solo di tutte le cose ma dell’essere in generale. Ogni uomo infatti ha un modo diverso di cogliere l’essere, a seconda delle caratteristiche della specie. La verità di cui parla Protagora è una verità OPERATIVA e COSTRUTTIVA: Coerentemente col movimento di cui è esponente egli non si interessa degli aspetti teoretici e speculativi, ma di quelli pratici, ossia delle azioni umane, poiché sono le azioni umane a dare un significato al mondo piuttosto che i concetti astratti. Infatti Protagora non è interessato a un sapere universale e oggettivo, ma al modo di usare la conoscenza, ossia alla sua applicazione. Nel testo si riporta l’esempio delle regole dell’aritmetica: le regole aritmetiche sono universali e condivise da tutti ma la loro applicazione a seconda dei casi assume un diverso valore d’uso. Per esempio, la somma di due pietre più due pietre ha come totale quattro pietre, poiché due più due fa quattro. Ma se sommiamo due gocce d’acqua a due gocce d’acqua otteniamo una sola grande goccia d’acqua. Secondo questo esempio le regole dell’aritmetica sono oggettive a seconda della loro applicazione e ciò lascia intuire che oltre al sapere TEORICO e FORMALE ne deve esistere un altro SINTETICO e OPERATIVO, che corrisponde appunto alla posizione protagorea. Il carattere operativo della conoscenza a differenza di quello formale non necessita di essere realmente oggettivo dato che il suo valore dipende dal mondo in cui la conoscenza viene costruita: Protagora chiama le cose col termine greco krémata, ossia ciò che ancora non è stato definito, dando all’uomo - che è anche misura delle cose che non sono in quanto non sono - il potere di decidere su qualcosa che ancora non si è compiuto. Protagora afferma qui il ruolo fondamentale dell’uomo che deve sperimentare e conoscere le cose, dato che la materia ci dice che ci sono ma non cosa esse siano.
La prospettiva d’indagine di Protagora basata sul concetto dell’essere in funzione dell’uomo conduce a una rottura col modello isomorfico tradizionale. Sul piano logico questa rottura appare evidente con le forme del discorso di Eraclito e di Parmenide, ancora vincolate a una logica interna. Un simile modello teorico infatti non mi dice nulla sugli scopi del discorso, mentre mi informa solo della sua struttura: io posso ad esempio affermare l’intelligenza di una persona dando a questa affermazione una cadenza volutamente ironica o canzonatoria, questo perché l’azione pratica del discorso sofistico è basata sopratutto sulla comunicazione. Nella comunicazione il linguaggio appare nella sua duplicità e nella sua forma anti-logica, in cui su ogni cosa possiamo dire tutto e il contrario di tutto. Assume qui ancora più valore il ruolo dell’uomo, che decide a seconda dei casi il grado di oggettività della propria comunicazione: questo aspetto rivela la missione educativa dei sofisti, che intendevano responsabilizzare gli uomini e renderli consapevoli, padroni delle proprie decisioni, in modo tale che nel caso di errori non dovessero incolpare la natura o gli dei ma solo loro stessi. Platone nel dialogo Protagora (dedicato al filosofo) fa raccontare dallo stesso protagonista il mito di Prometeo: qui il fratello di Prometeo, Epimeteo, dona agli animali le capacità di vivere e di difendersi, ma nulla resta poi per l’uomo; così Prometeo decide di rubare il fuoco agli dei per donarlo agli uomini affinché ne facessero uso per costruire il mondo. Prometeo sceglie l’uomo perché l’uomo ha le capacità tecniche per costruire, ma questo dono può diventare una sventura, guerre e distruzione, se l’uomo tenta di usarlo individualmente, per i propri interessi e non per il bene comune. Protagora intende fondare sulla parola l’arte della politica, intesa come bene di tutti, in cui la parola è lo strumento per comunicare. Per questo il convenzionalismo di Protagora è la prima vera forma di umanismo antico.

GORGIA - LEZIONE 12
La soggettività assoluta del vero e il nichilismo

12.1 - Il pensiero di Gorgia porta alle estreme conseguenze la rottura con l’isomorfismo presente nel relativismo di Protagora: nulla esiste nel pensiero e nel linguaggio senza l’intervento dell’uomo. La presenza dei contrari, nota infatti Gorgia, dimostra che c’è qualcosa di sbagliato nell’assunzione delle premesse di un ragionamento: non è detto che la negazione di una antitesi serva ad affermare la tesi. Gorgia prende le distanze dai modelli di semantica nominale, proposizionale e paradigmatica per affermare l’assenza nel reale dei principi razionali atti a comprenderlo, ed esautorando il ruolo del pensiero e del linguaggio della teoria isomorfica: l’essere assoluto di Parmenide è così lontano dalla possibilità di coglierlo che di esso non possiamo dire nulla e ogni parola che useremo non avrà quindi alcuna rilevanza ontologica e per questo potremo dire tutto e il contrario di tutto. La parola non identifica più l’oggetto, e il pensiero e il linguaggio non descrivono più la realtà. Questo atteggiamento impone il passaggio da una dimensione diadica tipica della formula dell’isomorfismo - in cui pensiero e linguaggio descrivono la realtà - a una dimensione triadica, in cui è presente l’elemento mediatore della mente. Non esistono delle premesse che portano a percorsi obbligati, dalle premesse si può arrivare a qualsiasi conclusione. L’uomo consapevole di non trovare nel reale i principi razionali che servono a conoscerlo non si fida più del pensiero o delle parole e usa la mente per giungere a un criterio di verità di tipo convenzionale. L’assenza di certezza porta l’uomo a scegliere un punto di partenza convenzionale per giungere sempre a una conclusione ipotetica.

12.2 - Un esempio di questo procedimento è l’ENCOMIO DI ELENA. Questa famosa orazione, basata sulla vicenda di Elena e Paride che fu causa della guerra di Troia, rappresenta un esempio importante delle capacità sofistiche e del ruolo ontogenetico della retorica. Qui Gorgia si pronuncia in difesa di Elena, adducendo la responsabilità degli eventi a fattori sovrastanti come la natura e gli dei: si evince chiaramente l’abilità eristica di ricreare nuove forme di realtà partendo da premesse che lascerebbero pensare a una conclusione diversa: infatti il procedimento sofistico ha una struttura assolutamente differente dalla logica tradizionale. Gorgia distingue tra prova e persuasione, tra la logica, che ha carattere razionale, e la retorica, che ha invece carattere irrazionale: il comportamento di Elena non può essere giudicato in base alla logica, spiega Gorgia, poiché il comportamento umano non segue mai una via razionale ma è condizionato dalle passioni irrazionali. L’uomo è costretto dalla vita a scegliere tra diverse possibili alternative senza che però vi sia una reale ragione ultima per scegliere una piuttosto che l’altra. Elena ha scelto non sulla base della ragione ma perché persuasa dal discorso di Paride: qui il filosofo di Lentini mette in evidenza la responsabilità della scelta di Elena che non deriva dalla ragione. Infatti una prova ben congegnata è oggettivamente valida e inattaccabile, la persuasione è invece opinabile. Nella persuasione ci sono due versanti, uno linguistico e uno psichico, che agiscono sulla convinzione dell’individuo, nonostante non siano presenti elementi razionali a supportare tale convincimento. A questo proposito Gorgia si domanda se sia possibile dare all’essere un carattere razionale, se sia possibile dimostrare attraverso i fatti esistenti: la risposta è ovviamente negativa, in quanto non esiste nessuna ragione che possa supportare la conoscenza dei fatti esistenti e quindi è impossibile dare una dimostrazione della loro esistenza o della loro non esistenza: resta solo il discorso, la parola. Ma questo non implica che l’uomo, privato di un principio razionale da seguire, sia immorale: l’uomo, dice Gorgia, è libero di decidere e di agire secondo la situazione. Gorgia ritiene invece immorale l’inganno della logica, che illude l’uomo con la pretesa di un fondamento.

12.3 - Gorgia giunge dunque a svuotare del suo significato l’essere assoluto parmenideo: esso è talmente rigoroso da sfuggire. Nella vita reale noi non c’è l’essere se non come una riflessione mentale, piuttosto abbiamo situazioni o fenomeni. Inoltre l’essere nel mondo concreto è come un continuo inganno poiché nel mondo reale, soggetto come sappiamo al molteplice e al divenire, non troviamo essere ma non essere. Nella sua opera SUL NON ESSERE O SULLA NATURA Gorgia sostiene che noi possiamo pensare l’essere solo come pensiero puro, ossia come non essere, come qualcosa di irreale, e per conversione non possiamo pensare il reale come essere. Questo porta Gorgia a definire la sua prima affermazione: nulla è. Da questa affermazione deriva la seconda affermazione: se anche qualcosa esistesse non sarebbe comprensibile all’uomo. Ma se la semantica proposizionale parmenidea perde così il suo significato ontologico, anche la semantica nominale eraclitea perde il suo significato: se anche l’essere osse comprensibile non sarebbe comunque esprimibile. Ogni discorso sull’essere, conclude Gorgia, non può dunque avere un carattere razionale: ci appare tale solo in virtù del suo potere di persuasione.

SOCRATE

L’importanza storica della filosofia socratica rappresenta non solo il nuovo ruolo assunto dall’uomo, già reso fondamentale dalla Sofistica, ma anche il diffondersi di una metodologia speculativa che  favorisce l’integrazione delle opinioni e l’interazione tra le parti coinvolte dialetticamente. La vita civile di Socrate si svolge tra l’Atene tardo periclea e l’Atene decadente, e in entrambe le epoche egli fu solerte cittadino attento alla vita politica e democratica ateniese. Figlio di uno scultore e di una levatrice, Socrate rifiutò sempre i vantaggi della vita borghese, astenendosi dalle mollezze della materia; visse sempre sobriamente e lontano dai lussi, coerente e probo; sofista lui stesso, non percepì mai denaro e condannò decisamente la mercificazione che i suoi colleghi facevano della cultura. Socrate è il primo martire della libertà di pensiero e il suo esempio di coerenza fu poi eternato nei dialoghi platonici in cui è protagonista.

IL METODO

Socrate accoglie i problemi, ma non le soluzioni, dei sofisti. I sofisti ebbero secondo Socrate il merito di effettuare una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia del pensiero greco, spostando l’interesse del filosofo dalla natura e dalle forze primordiali che la guidano all’uomo e alle sue potenzialità. Ma il relativismo sofistico non è ben visto da Socrate per il quale si fa invece necessaria una ricerca più attenta della verità. L’uomo che fonda la sua conoscenza sui propri sensi non è dissimile dagli altri animali; ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è la ragione, l’unico elemento che gli consenta di fornire ragioni valide universalmente. Solo sulla ragione e non quindi sulle opinioni della conoscenza sensibile si basa la teoria della gnoseologia socratica. L’uomo razionale è davvero misura di tutte le cose in quanto la sua ricerca ha valenza universale.

Ma qual è il modo migliore per iniziare la ricerca? La vera conoscenza inizia da noi stessi: il metodo ideale è l’introspezione, poiché non si può iniziare a conoscere l’esterno senza conoscere l’interno. Socrate fa suo il motto dell’oracolo di Delfi, “conosci te stesso”, primo passo indispensabile sulla strada della conoscenza, poiché l’uomo deve imparare a conoscere e a padroneggiare la propria  razionalità. Dopo il momento introspettivo e soggettivo viene il momento dialogico. Il dialogo è la forma più alta dell’insegnamento socratico, in cui  il maestro interviene sui singoli per liberarli dalle aporìe e dalle illusioni della vita sensibile. Nel dialogo Socrate sfrutta i vantaggi dell’apprendimento in comune, cercando di aiutare l’allievo a tirare fuori il positivo e a liberarsi dal falso. Questo metodo è l’arte levatrice per eccellenza, ossia la maieutica. Per far uscire le opinioni fallaci allo scoperto, Socrate usa l’ironia, attraverso cui demistifica i contenuti privi di effettivo fondamento. Al momento prettamente negativo subentra però il momento critico, ossia costruttivo, in cui Socrate aiuta l’allievo a ricostituire il proprio sapere secondo schemi razionali.
Il metodo socratico non segue degli schemi ben precisi. Lo scopo di Socrate non era infatti quello di dimostrare la verità, ma di mettere i suoi allievi in condizione di proseguire da soli la propria ricerca.

Per Socrate la vera sapienza consiste nella consapevolezza dei propri limiti; nell’Apologia di Socrate scritta da Platone egli chiede all’oracolo di Delfi il nome dell’uomo più sapiente e si sente rispondere “Socrate”; quando però Socrate interroga gli altri sapienti ateniesi per valutarne la preparazione, si accorge di quanto la presunzione avesse inficiato la cultura di queste persone. La vera sapienza è quella di Socrate che, certo di non sapere nulla,  ha piena coscienza dei propri limiti e dunque veramente sa.

IL CONCETTO

Tutta l’indagine di Socrate ruota intorno a una domanda, “che cosa è ?” ma le risposte a questa domanda non bastano a Socrate: si possono dare risposte molto opinabili sulle argomentazioni sensibili e materiali, naturalmente soggettive, ma per rispondere a domande sul bene, sulla morale e sulla virtù Socrate ha bisogno di un’essenza universale, piuttosto che di una spiegazione pratica.  Per arrivare a ciò devo astrarre dalle opinioni particolari i caratteri comuni e universalmente validi: per esempio da varie descrizioni di piante differenti per tipologia, formo razionalmente l’idea di albero in base a pochi ma essenziali elementi (fusto, tronco, corteccia, foglie, radici).

La grande conquista della filosofia socratica è il concetto: si tratta di un elemento che l’uomo ha sempre posseduto, ma di cui ha dimenticato la funzionalità. Solo col concetto si può fondare un costrutto scientifico, poiché universale e uguale per tutti; soprattutto il concetto è necessario, così come sarà per Aristotele o per Kant, perché il concetto non può essere inteso in una forma diversa ma unica e perciò valida necessariamente. Alla base della sua teoria conoscitiva Socrate pone dunque una sostanza o ousìa, il cui valore universale e necessario ne fa uno strumento di fondamentale conoscenza scientifica. Ma a Socrate non interessano le cose fisiche, quanto il recupero degli ideali, e il concetto ha qui un’importanza in tal senso.

LA MORALE

Per Socrate la virtù è sapere. Se per i sofisti l’azione umana si doveva dispiegare verso l’utilitarismo pratico, Socrate, che ha una concezione idealmente elevata dell’uomo, l’azione umana ha per obiettivi il bene e la virtù. Ma per raggiungere il bene non ci si può rinchiudere nell’individualismo soggettivo presumendo di essere depositari della verità; il Bene è una realtà assoluta e universale, ed è scienza; proprio in quanto scienza chi conosce conosce il Bene, e dunque il Male è semplicemente ignoranza, ossia non conoscenza del Bene. Per Socrate è assurdo che l’uomo colto rifiuti il bene: solo applicando il Bene, l’uomo vive felice. In Socrate felicità e virtù coincidono (eudemonismo) e l’ideale socratico è quello di una vita felice lontana dalla materia e dalle sue false tentazioni. L’intima felicità del dotto rappresenta il raggiungimento del Bene.

Socrate onorava gli dei ma la sua religiosità si ispirava a un modello morale, e rifiutava di applicare al divino, seppure antropomorfizzato, le stesse storture della dimensione umana. Ciò gli valse l’accusa di empietà che fu uno dei motivi che ne determinarono la condanna.

Accusato di empietà e di corruzione della gioventù ateniese, inviso agli aristocratici e ai conservatori, Socrate fu condannato a morte. Nonostante avesse la possibilità di fuggire, egli preferì accettare la velenosa cicuta, come racconta il Fedone platonico, aspettando il momento conversando con i suoi discepoli sul tema dell’immortalità dell’anima.

DOPO SOCRATE

Platone fu di sicuro il discepolo più celebre di Socrate, ma oltre a Platone si distinguono varie tendenze tra gli scolari socratici. Fra essi è annoverato anche Senofonte, storico politico e militare, autore di un’Apologia del maestro ma per nulla interessato ad approfondirne o a svilupparne il pensiero. Quattro sono le scuole socratiche; di una, la scuola eretriaca, non abbiamo notizie certe.

Scuola Megarica – Fu fondata da Euclide di Megara, omonimo del matematico posteriore, e assomma nella sua speculazione temi socratici ed eleatici. Euclide riteneva come Socrate l’essenziale unità del Sommo Bene, inteso come Dio, come intelligenza universale, come Uno e Assoluto; ma al centro della speculazione euclidea trovavano posto temi già cari agli eleati e a Zenone, come l’illusorietà della conoscenza sensibile. Tra i megarici c’era anche Eubulide che, per dimostrare l’inconsistenza del molteplice usava l’argomento del sorite (cumulo): togliendo un elemento da un cumulo, esso non diminuisce; parimenti la realtà è una e non molteplice. Sempre suòòo stesso tema Stilpone riteneva impossibile attribuire al cavallo un predicato come “corre”, poiché il “corre” del cavallo è diverso dal “corre” di un altro animale e dal senso stesso del correre, rendendo assurdo ogni riferimento al molteplice. Tra le asserzioni più famose dei megarici ci sono le antinomie o paradossi, tra cui il celebre argomento riportato da Cicerone: se dico di mentire, o dico il falso, e allora non mento, o mento e dico la verità. Queste affermazioni non riguardano la critica al molteplice ma si tratta di argomenti indecidibili, e dunque paradossali. Infine Diodoro Crono rifiutava la potenza in assenza dall’atto: tutto ciò che non si è verificato, tutte le cose che esistono solo in fase progettuale, per Diodoro sono inesistenti; solo ciò che si è già verificato è possibile. Tutto ciò che accade deve necessariamente accadere, altrimenti, perché la possibilità si sarebbe trasformata in impossibilità?

Scuola Cirenaica -    Si tratta della scuola fondata da Aristippo di Cirene e si caratterizza per la scarsa importanza attribuita alla vita teoretica in favore della ricerca della felicità e della condotta morale. Questa praticità fraintende l’insegnamento socratico, e porta la ricerca della felicità alla ricerca del piacere, o meglio nella sensazione piacevole. Per i cirenaici il conoscere si fonda sulla sensazione, e di conseguenza il bene sensibile è rappresentato dal piacere: il piacere va vissuto nella sua immediatezza e intensità. Tra gli allievi della scuola si sviluppano diverse teorie sulla tipologia dei piaceri (edonismo). Quella di Aristippo è una teoria che ricalca la filosofia di Protagora: come il sofista, anche Aristippo considera l’uomo “misura di tutte le cose” proprio in quanto “sente”; e questa sensazione fa sì che l’uomo sia il momento passivo del sentire poiché recepisce lo stimolo sensoriale, mentre la causa ne è il momento attivo. La sensazione è il fondamento dei tre stati emotivi dell’uomo, che sono il piacere, il dolore e la quiete, e che sono paragonabili allo stato del mare. La vera felicità risiede per Aristippo nell’attimo, ed in questo attimo si esplica la libertà dell’uomo, “che possiede e non è posseduto”. Dopo Aristippo si segnala una seconda scuola cirenaica che estremizza il problema arrivando al conflitto tra principio del piacere e ricerca del piacere guidata dell’intelletto (Teodoro l’Ateo, Egesìa, Anniceride).

La Scuola Cinica -  La scuola cinica fu fondata dall’ateniese Antistene, già scolaro di Gorgia e di Socrate; il nome cinico deriva dal greco (cane) a voler sottolineare lo stile di vita, spartano e sfacciato, dei suoi membri.  Per Antistene, così come per i megarici, la conoscenza di una cosa prevede l’impossibilità di predicarle un attributo. Ma i cinici arrivano all’estremismo negando che si possa effettivamente conoscere il vero o negarlo assolutamente. Una frase come “la mela è un frutto” è assurda poiché mela e frutto sono termini diversi e irrelativi; così come è assurdo dire “l’uomo è buono” per lo stesso motivo. I cinici operano come tutti gli allievi socratici la ricerca della virtù, e lo dimostrano coerentemente disprezzando le comodità e i lussi, come già fece Socrate.
Il più estremista fu Diogene di Sinope, allievo di Antistene, che realizzò fattivamente il sogno del ritorno alla natura vagheggiato dai cinici; noto come il “Socrate pazzo”, Diogene viveva in una botte a dispregio del superfluo. E’ assai probabile che molte notizie su Diogene siano fantastoriche, ma, per quanto siamo certi che egli non sempre visse in una botte, è vero che, come tutti i cinici, predicava l’antimaterialismo mendicando e ostentando una “cittadinanza del mondo” in modo sfacciato.

Filosofia 2 - Classi 3A-3D