mercoledì 6 settembre 2017

Classe 3 - Filosofia 1

Filosofia 1 - Classi 3A-3D

 Eraclito e Parmenide

ERACLITO - LEZIONE 4
Dal principio materiale al principio immateriale

4.1 - Le prime fasi della storia del pensiero si concentrano sul problema del principio di tutte le cose (in greco arkè) e sulla natura. Questo problema viene affrontato in due prospettive, una di tipo MONISTICO, ossia che si riferisce a un unico principio, e una di tipo PLURALISTICO, ossia riferita a più elementi. Inoltre possiamo distinguere le scuole di pensiero in base alla natura stessa del principio, materiale, ossia concreto, contingente, o immateriale.
La filosofia eraclitea emerge nel panorama delle filosofie naturalistiche per la sua complessità e originalità, tanto da risultare forse la più longeva e presente come fonte d’ispirazione in diversi autori del pensiero moderno e contemporaneo. Tre sono infatti i versanti della ricerca eraclitea: la NATURA come oggetto della ricerca, il METODO per conoscerla e comprenderla ed il LINGUAGGIO  per esprimerne gli aspetti.

4.2 - La natura non è per Eraclito un insieme disordinato e casuale di elementi ma una TOTALITA’ governata da leggi che ne regolano gli eventi. All’origine di tutto c’è il FUOCO, che origina il calore e il vapore e che, mediante la RAREFAZIONE e la CONDENSAZIONE, genera tutte le cose, dando vita a una serie infinita di generazioni e di combustioni. Anche l’anima umana è un fuoco, che si alimenta attraverso la respirazione e si esprime coi sensi. Da questo punto Eraclito si discosta dagli altri naturalisti.
Il fuoco infatti, nella filosofia eraclitea, non è un principio di conservazione e di unificazione, ma anzi, assolve al ruolo di disgregatore e di trasformatore. Eraclito descrive infatti una natura in continua trasformazione, dove le cose non sono mai uguali a prima. Dal punto di vista fisico il fuoco è l’elemento che rappresenta il movimento, la forza, l’energia delle cose, che per Eraclito sono più importanti dell’essere stesso. La natura infatt non è statica ma in continuo cambiamento sotto i nostri occhi, dando luogo a una molteplicità di forme e di fenomeni. Dal punto di vista logico il fuoco rappresenta la causa efficiente di tutte le cose, ed è un principio immutabile, perchè mentre le cose cambiano, il loro divenire resta sempre uguale ed eterno. Ecco perché se da un lato il fuoco rappresenta la precarietà e l’instabilità, dal punto di vista logico il fuoco rappresenta l’infinito, poiché simboleggia l’eterno cambiamento della natura stessa. La natura è fatta di elementi diversi. Se così non fosse non avremmo mai un mutamento ma una realtà sempre uguale. I continui processi di trasformazione delle cose danno luogo invece a elementi sempre nuovi e diversi dalle cose di prima, per esempio un cubetto di ghiaccio lasciato al sole si scioglie e l’acqua che è tornata allo stato liquido poi evapora per arrivare allo stato gassoso, continuando il ciclo in forme sempre diverse e sempre nuove.Questo stato arriva però a generare dei limiti estremi che costituiscono dei contrasti insanabili trai fenomeni, cioé i cosiddetti TERMINI CONTRARI: ad esempio, se adesso è giorno non può essere notte, se un uomo è vecchio non è più giovane, e così via. Tra gli OPPOSTI  c’è una lotta continua e un conflitto incessante ma anche una reciproca attrazione, poiché un termine non potrebbe sussitere senza il suo contrario. Si tratta di una lotta che non si conclude mai e non tende mai all’armonia e alla stabilità - che annullerebbero entrambi i termini - quanto piuttosto alla CONSERVAZIONE. Per esempio se io ho fame mangio, ma la sazietà non cancella il significato della fame, che viene conservato anche dopo l’espletamento del bisogno.
IL DIVENIRE COMPORTA DUNQUE UNA CONTINUA TENSIONE TRA GLI OPPOSTI E TRA LE COSE REGNA UN’ARMONIA DINAMICA.

4.3 - L’unità del cosmo è governata da un ordine razionale che Eraclito chiama LOGOS (in greco: parola, discorso). Se per Eraclito la natura è un insieme precario e instabile, soggetto alla molteplicità e al divenire. esiste una legge che governa tutte le cose. Ma il logos non è semplicemente una legge, un ordine e un principio, è esso stesso il metodo che dobbiamo usare per unificare i concetti delle cose tra di loro. Se si spezzasse questo legame si perderebbe il vero significato delle cose e precipiteremo nell’illusione e nel sogno. Il logos ha nella logica eraclitea lo stesso valore del fuoco nella fisica. Così come il fuoco, disgregando, genera e rinnova, allo stesso modo il logos permette di comprendere i concetti meno chiari ed evidenti, ricomponendoli e trasformandoli. Si deve notare come in greco il termine logos assuma il significato sia di parola sia di discorso, proprio per il fatto che esso rappresenta fin dai tempi antichi non solo un singolo elemento ma il modo di collegarlo agli altri elementi. L’opposizione e il conflitto non sono elementi maligni, in quanto ogni elemento tende naturalmente al suo opposto e nulla sarebbe senza esso. Di qui la funzione metodologica del logos come sintesi degli opposti. Proprio da questa concezione Eraclito muove una durissima reprimenda contro i suoi concittadini, avvezzi alle lusinghe delle apparenze e incapaci di andare oltre le cose. Essi credono di essere svegli ma per essi non esiste differenza tra la realtà e il sogno, e sono abituati a dare lo stesso valore alle cose vere come agli oggetti illusori e irrazionali. Ecco perché Eraclito li accusa di essere invece dormienti: gli uomini vedono le cose da un solo lato, non cercano di conoscerne i legami, non vanno mai oltre ciò che a loro appare, sopratutto non si accorgono della legge che governa ogni cosa e dell’intrinseca connessione che ricompone gli opposti. Si tratta di un tentativo vano:  non ci sarà mai una riconciliazione tra gli opposti. Il metodo eracliteo è un metodo DIALETTICO (dal greco: connessione, comunicazione) aperto, a differenza di metodi simili usati da altri filosofi che giungono invece a una soluzione definitiva, aperto in quanto non esiste una riconciliazione e una sintesi. Gli uomini devono accettare la frammentarietà dell’essere e della natura, imparando a scoprirne le connessioni. Nella filosofia eraclitea per la prima volta la stessa anima umana appare in tutta la sua ambivalenza, divisa cioè tra i sentimenti opposti come amore e odio, piacere e dolore. L’uomo deve quindi imparare ad accettarsi e ad accettare la natura. Eraclito invita l’uomo a compiere un percorso di consapevolezza, che lo liberi dalle illusioni e gli mostri la realtà così come è realmente. Si tratta di un invito a liberasi del pregiudizio: in tal modo il filosofo si rivolge all’intera comunità allo scopo di rinnovare la vera comunicazione.

4.4 - Oltre agli aspetti già evidenziati (etico, razionale, logico, fisico) il logos eracliteo ha anche un significato linguistico come DISCORSO: è nel discorso, unione delle parole, che si rivela la molteplicità del reale e sopratutto la sua mutevolezza. Quella di Eraclito è una SEMANTICA NOMINALE: ogni cosa viene chiamata col suo nome cioè ha un senso UNIVOCO (per esempio è diverso dire “l’uomo che pensa” dal dire “l’uomo pensante”). Questa univocità è tipica della logica antica, molto diversa da quella moderna, in cui usiamo di norma sostantivi, aggettivi e verbi per definire azioni e cose. Nella semantica nominale i nomi indicano esattamente le cose a cui sono riferiti: è una convenzione, una soluzione semplice, che non contiene l’essenza della cosa, ma proprio quella cosa a cui ci riferiamo. Per questo motivo Eraclito insiste molto sui contrari, porprio perché una cosa NON è un’altra. Eraclito paragona il discorso a una linea retta, ai cui estremi ci sono i contrari, mentre al centro ci sono le cose. Tutte queste componenti cambiano, così come cambiano le cose della natura e di conseguenza cambiano le parole, ma non cambia la linea del discorso che le unifica, come non cambia la natura dove accadono le cose. All’interno di questa linea i nomi delle cose perdono la loro univocità e diventano EQUIVOCI. Questo significa che se vogliamo COMPRENDERE il senso di un discorso non possiamo isolare dal contesto del discorso i nomi delle cose, che perderebbero valore e risulterebbero allora contraddittori (per esempio: stamattina era caldo e ora è freddo). L’unico modo di comprendere la contraddizione è quello di non staccare le parti del discorso. Questa  è una dipendenza razionale, propria dell’uomo, che ha facoltà di mettere insieme le opposizioni nel ragionamento.
Per questo motivo Eraclito è il primo vero filosofo del soggetto.

PARMENIDE - LEZIONE 5
Essere, pensiero e linguaggio.
Parmenide e la tesi dell’isomorfismo tra pensiero e realtà.

5.1 - In Eraclito il problema del principio assume un carattere immateriale, espresso nel logos o discorso, quale unifcatore delle parole soggette a eterno mutamento. In Parmenide si cercano le condizioni specifiche che portano un discorso ad essere vero. Qui entriamo dunque nel mondo della riflessione o della speculazione (da specus, specchio): parlare di una cosa significa conoscerla, conoscerla significa poterla pensare. Non esiste un contatto diretto, immediato, con la natura: a fare da tramite tra l’uomo che conosce e la natura sono tre strumenti, il PENSIERO, il LINGUAGGIO e i SENSI. Tra  di essi il più complesso è il linguaggio, poiché si rivolge sia all’uomo in quanto soggetto che pensa sia a ciò che viene pensato, quindi agli oggetti. Il problema centrale della filosofia parmenidea è quello della verità della realtà, cioè dell’ESSERE. Per Parmenide è vero ciò che esiste per il soggetto. Ma un nostro pensiero o una nostra sensazione non possono essere oggettivati poiché resta dentro di noi. Per poter essere oggettivati e conoscibili occorre esprimerli in un discorso (per esempio: ho caldo, oppure il fiore profuma) con un giudizio. Parmenide intuisce che il problema della verità deve essere affrontato solo dal punto di vista del linguaggio. Questo aspetto implica che ci deve essere un collegamento tra essere, pensiero e discorso vero. Ora, la condizione di verità di un discorso è per Parmenide la coincidenza di realtà e di pensiero: realtà e pensiero DEVONO AVERE LA STESSA FORMA. Questo criterio è noto come TESI DELL’ISOMORFISMO e si esprime nell’equazione:
x = f (a, R)
in cui l’incognita x è la realtà che corrisponde (f) a un pensiero o a un segno linguistico (a) posti in relazione (R). Questa equazione ci consente di non sapere il significato di un termine in sé stesso limitandosi alla sola relazione di corrispondenza oggettiva con l’altro termine. Ma come si fa a sapere se questa relazione è adeguata e quindi vera? Parmenide dice che è vero e quindi conoscibile solo ciò che può essere pensato, in quanto ciò che non esiste non può essere pensato. Possiamo anche pensare qualcosa di irreale e di fantastico, dice Parmenide, ma sempre sulla base di qualcosa che esiste veramente. Ora questa tesi porta a una conseguenza paradossale: se realtà e pensiero hanno la stessa struttura logica, si potrebbe anche fare a meno dell’esperienza usando il discorso come criterio di verità. La realtà (l’essere) per essere compresa deve essere pensata. In questo modo Parmenide fa derivare l’ONTOLOGIA - cioè la nozione dell’essere - dalla LOGICA - cioè il discorso sull’essere. L’essere è logicamente l’insieme delle verità correlate ma non ci permette di cogliere la realtà in un senso assoluto, solo come una rappresentazione o immagine delle cose: se tra questi termini sussiste una correlazione logica, ossia se c’è una coerenza, allora il discorso è vero. Occorre precisare che Parmenide non si pone il problema della garanzia di questa corrispondenza tra i termini a, ossia immagini rappresentate, segni linguistici e realtà. Coerente col principio della logica arcaica secondo cui i nomi sono le cose stesse, come già Eraclito, Parmenide non rivela se c’è qualcuno che crea questa relazione IR) tra l’essere (x) e (a) cioè pensiero e linguaggio: le cose ci parlano e contengono il linguaggio. Questa identitò di nomi e cose mette bene in evidenza il vero ruolo del linguaggio non come semplice mezzo di espressione mediante segni o simboli, ma come il modo in cui l’essere si presenta, l’immagine che ci viene data della realtà.
Attraverso le parole del discorso l’essere si svela e si rivela. Per Parmenide il linguaggio è dunque più affidabile dell’esperienza, poiché l’esperienza è mutevole e questa incostanza rende impossibile la comprensione dell’essere.

5.2 - L’ontologia parmenidea si divide in due parti: un’ontologia fondamentale, volta a individuare il modo in cui l’essere viene conosciuto (GNOSEOLOGIA) ed espresso (TEORIA DEL LINGUAGGIO), e un’ontologia descrittiva, volta a individuare le caratteristiche dell’essere, sia puro o INTELLIGIBILE (pensato) sia impuro o SENSIBILE (percepito con i sensi).
L’ontologia fondamentale rappresenta il nucleo centrale del pensiero di Parmenide ed è racchiusa nel poema filosofico SULLA NATURA, dove viene descritto un viaggio immaginario e iniziatico intrapreso dal filosofo in cerca della verità. Abbandonato il mondo degli uomini, indicato dalla morte e dalle tenebre, egli giunge alla porta vigilata dalla dea Dike, la Giustizia, che indica a Parmenide il punto che separai la via della luce e del giorno dalla via delle tenebre e della notte. Il traguardo di questo percorso, ricco di metafore e di allegorie, è rappresentato appunto dalla verità, ossia la luce del giorno, per raggiungere la quale è necessario staccarsi dal senso comune, che conduce solo a esperienze ordinarie, confuse e contraddittorie, simboleggiate dalla via dell’oscurità e della notte. Da un punto di vista concettuale il poema può avere due livelli interpretativi: il primo costituisce la via alla verità e rivela la CONTRADDIZIONE tra le due vie della luce e delle tenebre, rappresentate nelle proposizioni “l’essere è” e “il non essere è”; il secondo costituisce la via all’opinione e palesa invece la CONTRAPPOSIZIONE dei due termini essere e non essere, come accade nell’opinione, in cui al tempo stesso qualcosa è e non è. Queste due strade sono complementari, poiché esauriscono tutte le possibili combinazioni dell’essere e del non essere assoluti, e dell’essere e del non essere relativi: il vero, il falso, il vero e il falso, e il né vero né falso. In che modo si arriva a questa articolazione? Il vero è rappresentato dalla frase “l’essere è”. Si tratta di un principio di identità di una certezza indubitabile (per esempio: il tavolo è il tavolo) laddove si afferma l’esistenza di qualcosa. La via del falso e dell’errore è rappresentata dalla frase “il non essere è”. Occorre precisare che il falso consiste nella negazione del soggetto e non del predicato, come nella frase “il fiore NON è rosso”. Affermare l’esistenza del non essere è una posizione impraticabile poiché non si può conoscere o pensare il nulla, in quanto il pensiero è sempre pensiero di un oggetto. Dunque del non essere assoluto possiamo solo dire che non è, anzi, dice Parmenide che possiamo solo osservare il silenzio in quanto nulla possiamo dire del non essere. L’uso di una doppia negazione, del soggetto e del predicato, ristabilisce il principio di identità quale criterio di verità e indica che si tratta di una verità di secondo grado o di una “verità dell’impredicabilità”, in quanto privazione assoluta. Tale verità non va tradotta in un senso positivo, come succede nella logica moderna in cui una doppia negazione afferma: affermare che il non essere non è non significa infatti per Parmenide che tutto è ma semplicemente che non si può conoscere e pensare il nulla. Questo porta Parmenide a concludere che all’AFFERMAZIONE ASSOLUTA - l’essere è - si contrappone la PRIVAZIONE ASSOLUTA - il non essere non è - mentre la NEGAZIONE ASSOLUTA - il non essere è - è considerata esplicitamente un errore, sia come negazione del soggetto (il non essere è) sia come negazione del predicato (l’essere non è), specie nel secondo caso poiché negando l’oggetto del pensiero non è più possibile pensare. Bisogna però  aggiungere che il non essere assoluto è sì impensabile e indicibile ma non insensato, se espresso come principio di identità: il non essere non è. Seppur privo di contenuto il non essere assoluto ha dunque un senso.

PARMENIDE - LEZIONE 6
Parmenide e le caratteristiche dell’essere

6.1 - Dopo l’ontologia fondamentale, Parmenide prende in esame l’essere e il non essere in quanto relativi: si tratta del mondo dell’opinione e dell’apparenza, strada percorribile ma che non porta al vero per la contemporanea presenza di essere e di non essere in contrapposizione. Questa via ha due conseguenze, sul piano conoscitivo e su quello logico. Sul piano conoscitivo si tratta di un mondo falso, ma allo stesso tempo utile, in quanto è possibile, ammette Parmenide, usare le opinioni più convincenti per fini pratici - per esempio quando si vede il cielo a pecorelle e ci si aspetta che piove, perciò si esce con l’ombrello - anche se non sono supportate dalla verità. Al posto dell’identità e della contrapposizione dell’essere puro, all’essere relativo appartiene la gradualità, quindi la possibilità dell’opinione: il suo metodo di indagine non è logico ma analogico. Sul piano logico Parmenide non si occupa tanto del falso perché tanto il vero quanto il falso sono relativamente possibili. Questo ovviamente dà luogo a due soluzioni, una in cui una cosa è un po’ vera e un po’ falsa (secondo una logica di tipo bivalente), l’altra in cui qualcosa potrebbe essere vera (secondo una logica polivalente).

6.2 - La seconda parte dell’ontologia descrittiva riguarda l’essere assoluto. La domanda che si pone Parmenide è in che modo l’essere si presenta nella realtà. Affermare che qualcosa è in una logica arcaica e ancora nominalistica (per esempio: il fiore è rosso) significa indicare che questo qualcosa non è (il fiore non è giallo) ma questo ci riporterebbe nel mondo dell’opinione a una coesistenza di essere e di non essere. Dunque per descrivere l’essere assoluto occorre procedere negativamente e spogliarlo di tutti gli attributi, caratteristici del mondo sensibile. Qui il non essere assoluto - cioè il nulla - è già fuori gioco, e l’essere assoluto può essere conosciuto in maniera indiretta: possiamo conoscere l’essere assoluto in modo diretto solo ammettendo il non essere come contrasto. Per fare ciò è necessario che la negazione sia già contenuta nell’attributo sensibile del giudizio che esprime l’esistenza di una cosa: a = non b. Solo così non si corrompe l’essere col non essere. L’essere assoluto è così descritto:
a) non nasce e non muore (E è non-N e non-M): esso è INGENERATO e IMPERITURO: se così non fosse nascerebbe dal non essere e morirebbe nel non essere;
b) non ha passato né futuro, cioè è ATEMPORALE ed eternamente presente, per le stesse ragioni descritte in precedenza;
c) NON E’ FINITO - poiché ciò che è finito è destinato a finire, cioè a non essere più (si tratta di una infinità quantitativa) - ma DEFINITO ossia perfetto è completo, nel senso che non gli manca nulla in quanto se gli mancasse qualcosa sarebbe fuori dall’essere (si tratta di una finitezza qualitativa); Parmenide paragona l’essere a una sfera per descrivere il suo concetto di infinito che è da intendersi senza fine ma non in un senso spaziale quanto temporale;
d) è CONTINUO, non ha fratture, interruzioni, confini, è UNICO, ossia non molteplice, ed è FERMO, immobile, in pura quiete, in assenza di movimento.

6.3 - Nella filosofia parmenidea si ha il passaggio da una semantica nominale di derivazione eraclitea a una semantica PROPOSIZIONALE. Nella filosofia di Eraclito il nome aveva un valore univoco e indicava l’oggetto (N = O) tanto che il il discorso aveva per Eraclito un carattere contraddittorio. Nella filosofia parmenidea invece il nome è ridotto a una semplice apparenza: esso presuppone infatti una negazione Iil tavolo non è la sedia) in un modo perciò equivoco. Al contrario di Eraclito, che considerava il logos come parola elemento ultimo di una realtà in divenire, Parmenide non ammette un essere mutevole e per questo motivo afferma il primato del logos sull’epos, ossia del discorso sulla parola. Il logos eracliteo era il nome, quello parmenideo è invece la proposizione o giudizio, espresso nella forma “A è B” (soggetto + predicato). A differenza della semantica eraclitea il significato del nome non è dunque più legato all’oggetto ma dipende dalla proposizione. La differenza da  una semantica nominale è evidente: i nomi non appartengono alle cose ma sono usati per convenzione in modo biunivoco (per esempio: il fiore è quella cosa con i petali, il gambo e le foglie): la realtà non si mostra mai nelle singole parole ma a partire dalla loro unità proposizionale. Per comprendere il vantaggio di questa semantica occorre evidenziare alcuni aspetti.
Nella semantica nominale di Eraclito l’elemento - il nome - è univoco mentre l’intero - il discorso - è equivoco: tra nome e discorso esiste una distinzione di tipo qualitativo. Eraclito deve perciò individuare un principio immateriale che possa garantire la coerenza del discorso. Nella semantica proposizionale invece tra l’elemento - la proposizione - e l’intero - il discorso - esiste una distinzione quantitativa: il discorso è infatti un’articolazione complessa della proposizione e se questa è univoca tutto il discorso sarà univoco e viceversa.
Nella semantica nominale abbiamo dualità mentre in quella proposizionale abbiamo dualismo. In Parmenide esiste una netta separazione tra struttura superficiale e struttura profonda del linguaggio, che a sua volta riproduce la stessa separazione tra opinione e verità, una che proviene dai sensi e l’altra dal pensiero. Parmenide separa la percezione sensibile (il tavolo è verde) di ciò che è soggetto quindi alla negazione (se il tavolo è verde NON è rosso) dal pensiero (il tavolo è il tavolo), a differenza della semantica eraclitea in cui  ogni elemento fa parte del tutto e il tutto si trova in ogni elemento, senza  distinzione. Per questo motivo l’impostazione proposizionale è alla base della filosofia scienza moderna.

Filosofia 1 - Classi 3A-3D