sabato 2 settembre 2017

Classe 5 - Filosofia 1

Filosofia 1 - Classe 5A

 Feuerbach e Schopenhauer

FEUERBACH

LEZIONE 1
La disputa sull’hegelismo
Ludwig Feuerbach

1.1 - Hegel muore nel 1831, lasciando un’eredità pesante, quella di una filosofia in cui si era praticamente detto tutto. Questo aspetto totalizzante, che riguarda diversi sviluppi del pensiero - incluse arte, religione, diritto, storia, la stessa filosofia - non incarna tanto una pretesa  hegeliana di voler dare una risposta a tutto, ricomprendendo questi aspetti in un unico sistema, quanto la difficoltà, una volta individuato il metodo nella dialettica, di riaprire il problema hegeliano, quello della vera essenza del reale. Eppure alla morte di Hegel i suoi seguaci si dividono in correnti, che produssero la frattura all’interno della scuola hegeliana, condannando il paradigma stesso dell’idealismo.
La spaccatura si formalizza nel 1837 grazie a Strauss, che propone di rinominare i vecchi ed i giovani hegeliani come destra e sinistra hegeliana, riprendendo la consuetudine parlamentare francese, evidenziando nei primi l’ortodossia e nei secondi il riformismo e la modernizzazione. Il dibattito tra le due correnti inizia su aspetti religiosi e si sviluppa poi su temi storico-politici. I vecchi hegeliani erano assolutamente sostenitori del sistema del maestro, tanto da applicarne i dettami in ambito politico e istituzionale, sopratutto per quanto concerne la teoria hegeliana dello stato razionale e reale, arrivando a supportare il regime prussiano. I cosiddetti giovani hegeliani si oppongono al rigido conservatorismo della destra sfruttando proprio gli aspetti dinamici del sistema hegeliano, quelli legati alla contraddizione del reale e al conflitto,  elementi imprenscindibili della dialettica.
Molto probabilmente l’opera che ruppe lo schieramento fu la VITA DI GESU’ del già citato David F. STRAUSS, che destò molto scalpore descrivendo la religione cristiana come un mito, non perché mancasse di verità ma per la mancanza di un qualsiasi fondamento critico, separando il Gesù storico dal Cristo della fede, e portando il dibattito nell’ambito del Nuovo Testamento, provocando quindi un vespaio di critiche. A raccogliere le posizioni di Strauss fu tra gli altri Bruno BAUER, autore del pamphlet LA TROMBA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE CONTRO HEGEL, opera che spinge le conclusioni di Strauss verso un convinto ateismo. Accanto a Bauer ricordiamo anche Moses HESS e Arnold RUGE.

1.2 - Con la sinistra hegeliana si consuma il definitivo passaggio dall’idealismo a una filosofia della prassi, in cui il contributo maggiore, prima del suo esponente più organico e completo, ossia Marx, è sicuramente quello di Ludwig FEUERBACH. Feuerbach inizia come hegeliano, diventa poi un esponente della sinistra hegeliana e quindi di quella anti.hegeliana, con cui si allontana decisamente da Hegel. Gli aspetti che Feuerbach contesta del suo ex maestro sono i seguenti:
a) la pretesa assolutizzante del sistema hegeliano;
b) la concezione dialettica della storia;
c) la tendenza immaterialista e spirtiualista;
d) l’incapacità di cogliere concretamente il reale.
Va detto che Feuerbach mette in evidenza che il pensiero hegeliano è la consacrazione delle tendenze della filosofia moderna, da Cartesio in poi, e questo aspetto rende ancora più marcato il distacco dal suo maestro, tanto che il pensiero feuerbachiano si propone come un’assoluta novità. Sono due le opere in cui si estrinseca questa novità, entrambe scritte tra il 1842 e il 1843: le TESI PROVVISORIE PER LA RIFORMA DELLA FILOSOFIA  ed i  PRINCIPI DELLA FILOSOFIA DELL’AVVENIRE. Nelle due opere, sopratutto nella seconda, divisa in 65 principi dichiaratamente anti-idealistici si consuma un’irrevocabile transizione  alla filosofia della prassi. Feuerbach irride la pretesa idealistica di far coincidere materia e spirito, finito e infinito, ed elegge la condizione sensibile a principio primo della conoscenza filosofica, quale altro del pensiero, e molto più adatta alla vita umana e terrena. La filosofia di Feuerbach potrebbe essere distinta come una antropologia filosofica, oppure come un umanesimo materialistico, data la sua specifica concentrazione sul problema uomo. Feuerbach opera una vera e propria rivoluzione copernicana dell’hegelismo, attribuendo la realtà al finito e l’idealità all’infinito, e spostando la loro coincidenza, in forma negativa, non più a un assoluto ma all’uomo, a partire dal quale l’infinito può essere pensabile. Infatti al centro del pensiero di Feuerbach, ci sono la corporeità, la sensibilità e la materialità, incarnate dall’uomo, essere finito, limitato, fatto di bisogni: Mann ist was isst, (l’uomo è ciò che mangia), afferma Feuerbach con un gioco di parole - comprensibile solo in tedesco - che afferma la natura finita dell’uomo. In questo capovolgimento il pensiero non è più espresso soggettivamente ma oggettivamente, come predicato del reale finito che per Feuerbach costituisce la vera soggettività. L’unica vera realtà è perciò quella sensibile: Feuerbach ripristina la scissione tra soggettivo e oggettivo, riportando la dialettica a un confronto umano tra esseri finiti. A denunciare l’umanesimo di Feuerbach è la frase “io sono uomo con gli uomini” opposta alla frase tipica dei filosofi assoluti: “io sono la verità”.
Nella letteratura filosofica feuerbachiana assumono una determinante rilevanza gli scritti di argomento filosofico-religioso, tra cui L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO del 1841 e L’ESSENZA DELLA RELIGIONE del 1845. La prima delle due opere si concentra sul tema dell’ALIENAZIONE, un tema non nuovo e trattato anche da Hegel, a cui però Feuerbach conferisce una direzione particolare, considerando la religione come alienazione, nel senso di una proiezione della finitezza umana in un essere altro, identificato come Dio. Questo processo di oggettivazione è causato dalla tendenza del luomo a superare i propri limiti - AUTOTRASCENDIMENTO - che lo porta a proiettare una parte di sé stesso in un essere altro, da cui però ben presto finisce con l’allontanarsi - ESTRANIAZIONE - non riconoscendosi più in questa figura perfetta, illimitata, assoluta, così diversa da sé. Dio finisce quindi con l’espropriare l’uomo delle sue facoltà, la ragione, la volontà, il sentimento, facendogli pesare tutta la limitatezza della sua condizione, schiacciandolo e non elevandolo. Questo è un canone tipico delle figure dell’Antico Testamento che rivendicano un Dio ESSENZA DELL’INTELLETTO, in quanto RAGIONE ASSOLUTA, e ESSENZA MORALE in quanto VOLONTA’ ASSOLUTA. Nel Nuovo Testamento compare invece la personificazione del Dio cristiano come ESSENZA DEL CUORE in quanto SENTIMENTO ASSOLUTO, che per amore dell’uomo si incarna in Gesù. Qui emergono due aspetti: l’AMORE, ossia lla funzione riconciliatrice tra gli uomini, e la FEDE, espressione dice Feuerbach di un egoismo supernaturalistico, che mira per contro a rafforzare la scissione tra uomo e Dio. Feuerbach evidenzia dunque due nature nella religione, una vera e una falsa, da un lato il tentativo vano dell’uomo di superare la propria condizione, dall’altra il presagio di quello che l’uomo è veramente. Per questo Feuerbach affida alla filosofia - quale antropologia materialistica - il compito di DISALIENARE l’uomo, ossia di liberarlo,  compito terapeutico, mostrandogli l’aspetto antropologico alla base di ogni religione e mettendo bene in chiaro che Dio altro non è che la proiezione e l’oggettivazione di alcuni aspetti dell’uomo stesso.
Questi temi tornano in uno scritto successivo, L’essenza della religione, dove però Feuerbach non mette in risalto gli aspetti essenziali dell’uomo ma della natura, da cui l’uomo si sente dipendente. La natura infatti viene vista come una manifestazione del divino fino a diventare autonoma e base di ogni credo religioso, finendo col sopraffare l’uomo: per questo motivo anche questo scritto ha uno scopo terapeutico, quello cioè di liberare l’uomo dalla malattia religiosa, ossia la cancellazione di qualsiasi desiderio soprannaturale.

SCHOPENHAUER

LEZIONE 2
La realtà metafisica dell’uomo

2.1 - La filosofia di Schopenhauer prende le distanze dalla filosofia hegeliana per abbracciare una concezione della realtà fondata sulla volontà e sulla rappresentazione, e in cui la filosofia deve essere lo strumento per superare la conoscenza rappresentativa della realtà per isolarne l’essenza, ossia la volontà. L’opera più importante di Schopenhauer è sicuramente IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE. Nella prefazione Schopenhauer indica quali fonti d’ispirazione le opere di Kant e di Platone e i libri sacri della tradizione induista, Veda e Upanishad. Da Kant Schopenhauer eredita la scissione tra fenomeno e noumento, ma a differenza di Kant egli considera il noumeno conoscibile, attraverso il concetto di volontà. Da Platone eredita invece la divisione dei due mondi, a cui accompagna la creazione di un mondo intermedio fondato sulla volontà. Dai testi sacri dell’induismo infine egli eredita la concezione illusoria della realtà empirica, che è solo apparenza, e che deve essere superata per passare a una verità più stabile e meno effimera. Come i filosofi del suo tempo anche Schopenhauer sente l’esigenza di dare un’espressione sistematica e scientifica al suo pensiero, ma non segue la concezione architettonica dei suoi contemporanei, bensì predilige una prospettiva organica e circolare, in cui ogni parte sostiene il tutto e viceversa. L’esigenza di abbandonare una tradizione gerarchica nasce dal fatto che ogni uomo è portato a interrogarsi sulla realtà da una continua meraviglia. Lo stupore filosofico è la conseguenza dalla ricerca dell’uomo che non si arrende di fronte alla morte, al male, al dolore, e cerca di soddisfare il proprio bisogno metafisico. L’inquietudine deriva dalla consapevolezza che la non esistenza del mondo è possibile quanto la sua stessa esistenza. Ma per questo motivo Schopenhauer non si rivolge al concetto tradizionale, razionalistico, di metafisica, quella che Kant aveva definito abisso senza fondo, e che pretende di andare oltre il fenomeno: egli elabora la concezione di una metafisica immanente, che parte proprio dal fenomeno empirico, e che considera indispensabile per spiegare la realtà, in quanto gli stessi concetti che la metafisica usa per spiegare il reale partono dal reale stesso, e quindi è necessario ammettere una metafisica che parta dal fenomeno per spiegare il fenomeno stesso. Si tratta dunque di una metafisica completamente diversa da quella degli idealisti, che Schopenhauer critica e dileggia per il linguaggio oscuro, espressione a suo dire di una disonestà intellettuale. Obiettivo delle suecritiche è sopratutto il pensiero hegeliano, non solo per la mistificazione di un’illusoria coincidenza tra ideale e reale ma sopratutto per aver occultato quelle caratteristiche umane che permettono all’uomo di agire, imprigionando l’uomo nell’obbedienza alla religione e allo Stato.

2.2 - Kant aveva sostenuto che del reale si potesse cogliere il solo aspetto fenomenico, relegando quello noumenico a qualcosa di pensabile ma non conoscibile, e per questo limite indispensabile della conoscenza umana. Schopenhauer riprende questa dicotomia nella sua descrizione del mondo, indicando il fenomeno come la RAPPRESENTAZIONE del mondo stesso, ossia come effettivamente appare ai nostri sensi, e affermando il noumeno come VOLONTA’, ossia il mondo come noi vorremmo che fosse, espressione di quella forza metafisica che eccede il piano empirico. Schopenhauer però prende le distanze da Kant, in quanto Kant considerava il mondo una delle idee della ragion pura, di natura dunque noumenica e inconoscibile, mentre il filosofo di Danzica pone il mondo al centro di tutta la sua speculazione. Nella sua riflessione Schopenhauer considera il mondo come rappresentazione, dal punto di vista fenomenico, e come volontà, dal punto di vista noumenico. Nel primo caso, relativo alla conoscenza scientifica, il mondo viene visto come un oggetto per il soggetto. Il soggetto è ovviamente l’uomo che lo deve conoscere. Nel secondo caso invece il mondo è l’oggettivazione di quella forza metafisica che è la volontà in quanto forza viva, ossia volontà di vivere. Il mondo in quanto rappresentazione non può prescindere dai due aspetti,  inseparabili, di soggetto e oggetto, che caratterizzano ogni esperienza. La dimensione oggettiva si basa a sua volta sulle forme di spazio e e tempo e sulla causalità: ogni esperienza infatti non potrebbe prescindere dallo spazio, dalla successione temporale e dalle relazioni causali che legano gli oggetti tra di loro. Si tratta del mondo del cosiddetto PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS per cui la realtà appare frammentata e divisa come sono separati soggetto e oggetto, e che  Schopenhauer riconduce al termine sanscrito AHAMKARA che nei Veda indica praticamente la coscienza nel suo atto rappresentativo del reale (da aham, cioè io, e  kara, fare). Il soggetto, in quanto condizione della stessa esperienza, a differenza dell’oggetto, non può essere conosciuto e a lui non si possono ricondurre le stesse prerogative dell’oggetto poiché la è unitario e non frammentato come la realtà: per questo motivo le forme del mondo della rappresentazione sono a priori e indipendenti sia dall’esperienza sia dal soggetto stesso da cui ogni esperienza dipende. Rispetto a Kant Schopenhauer riduce le dodici categorie a una sola, quella della causalità, e, in un modo diverso da Kant, distingue nel soggetto tre facoltà conoscitive: la SENSIBILITA’, l’INTELLETTO (facoltà delle rappresentazioni intuitive) e la RAGIONE (facoltà delle rappresentazioni astratte). La collaborazione tra sensibilità e intelletto permette di applicare a tutti i fenomeni il principio della causalità. che è forma a priori dell’intelletto: grazie a questa collaborazione le sensazioni esterne sono interpretate dall’intelletto come effetti di cui occorre ricercare le cause, a loro volta proiettate fuori dall’organismo. L’intuizione nella filosofia di Schopenhauer è dunque opera dell’intelletto, e si tratta di una intuizione empirica. La fissazione delle conoscenze acquisite con l’intuizione dà luogo alla conoscenza astratta che è oggetto della ragione e riguarda invece i concetti. La dottrina della causalità, altrimenti detta da Schopenhauer PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE, riveste un ruolo fondamentale nel sistema (tanto che egli dedica a questo problema la sua tesi di laurea): niente è senza ragione. La formulazione wolffiana di tale principio (nihil est sine ratione cur potius sit, quam non sit) non viene assunta da Schopenhauer in senso ontologico ma critico, riferendosi cioè al modo in cui il soggetto si rapporta agli oggetti e al modo in cui gli oggetti si rapportano tra loro. Schopenhauer individua quattro forme del principio di ragion sufficiente, che corrispondono ad altrettanti modi di connessione necessaria tra gli oggetti:

DIVENIRE - si applica alle rappresentazioni intuitive che ci permettono di avere un’immagine della realtà empirica e coincide con la necessità fisica delle relazioni causali;
CONOSCERE - si applica alle rappresentazioni astratte, cioè ai concetti, e coincide con la necessità logica delle relazioni tra premesse e conseguenze;
ESSERE - si applica alle intuizioni a priori di spazio e di tempo in ambito matematico e coincide con la necessità matematica e geometrica;
AGIRE - si applica al soggetto e coincide con la necessità morale, in quanto spiega il motivo delle azioni.

Queste quattro forme del principio di ragion sufficiente forniscono nell’insieme una prospettiva del mondo, ma la conoscenza del mondo per Schopenhauer non finisce qui: anzi, l’immagine del mondo che ci rappresentiamo è solo una parvenza illusoria che nasconde la vera essenza, quella che Kant chiamava la cosa in sé. Il compito della filosofia è quello di svelare questa essenza, liberandola dal velo di illusorietà che Schopenhauer chiama col termine sanscrito maya.

SCHOPENHAUER

LEZIONE 3
La liberazione della volontà

3.1 - L’esperienza che l’essere umano fa del proprio copro nell’autocoscienza è la dimensione che permette di connettere la rappresentazione e la volontà. Anche il corpo è un oggetto, ma a differenza degli altri oggetti è immediato, poiché ne facciamo continuamente esperienza diretta nell’autocoscienza. Ma il corpo è sopratutto forza viva, e lo si vede da ogni movimento che si compie, che costituisce un atto di volontà: il soggetto conosce dunque continuamente sé stesso come soggetto dei propri atti volontari. Schopenhauer apre dunque ad una conoscenza metafisica. Non tutte le forze della natura possono infatti essere spiegate con l’atteggiamento scientifico-naturalistico, e necessitano di essere spiegate in prospettiva metafisica, facendo coincidere tutte queste forze proprio nella volontà di cui facciamo esperienza nell’autocoscienza: ecco che troveremo nei minerali gravitazione, fossilizzazione e coesione, nei vegetali nutrizione e crescita, negli animali l’istinto e la sensibilità, nell’uomo la consapevolezza di sé. La volontà è una forza unica, indistruttibile ed  eterna, che si presenta, intera e indivisa, in ogni fenomeno naturale.
Per spiegare la mediazione tra l’unicità e della volontà e la molteplicità dei fenomeni Schopenhauer riccorre al significato platonico dell’IDEA. Le idee sono i diversi gradi di oggettivazione della volontà, cioè le forme degli oggetti attraverso cui la volontà si manifesta nel mondo. Come in Platone le idee non appartengono al mondo del divenire ma a quello dell’essere. Schopenhauer sottolinea che la volontà è cieca e irrazionale, inconscia, priva di fondamento e di scopo: essa è volontà di volere, desiderio, bisogno, mancanza, in poche parole DOLORE. Questo bisogno è all’origine di una contesa tra le volontà, una lotta quasi animalesca che in senso umano si traduce nell’hobbesiano homo homini lupus: ma Schopenhauer compie una distinzione gerarchica tra le diverse forme, fino ad arrivare all’uomo, in cui alle rappresentazioni intuitive, tipiche dell’intelletto, si accompagnano le rappresentazioni astratte, tipiche della ragione. Compare quindi non più una forza inconsapevole ma la coscienza, che dipende dal cervello, strumento al servizio della volontà al fine di conservare l’individuo e la specie.

3.2 - La conoscenza scientifica non è sufficiente. Per questo Schopenhauer considera l’arte fondamentale, non solo dal punto di vista estetico ma anche metafisico: spetta ad essa il compito di comunicare, in modo contemplativo e disinteressato, che l’essenza del mondo della rappresentazione è la volontà: l’arte è il primo grado del processo di liberazione dalla volontà. In quanto tale l’arte è una conoscenza geniale: essa è disinteressata e non utilitaristica. Qui l’intelletto non è asservito alla volontà come nella conoscenza empirica: nel genio la conoscenza è spropositata rispetto a ciò che serve alla volontà. Il genio conosce le cose indipendentemente dal principio di ragion sufficiente. L’intuizione geniale non si rivolge alle cose, agli oggetti della realtà empirica, ma alle loro forme, ossia alle idee: essa è contemplazione, non conoscenza, e in quanto tale essa trascende il principium individuationis. Il soggetto qui diventa puro soggetto del conoscere, l’intelletto si libera del suo asservimento alla volontà ed è libero di cogliere il significato metafisico della realtà. Dunque il soggetto si rivolge all’essenza delle cose, a “ciò che le cose sono”.
Schopenhauer elabora una gerarchia delle arti, procedendo dall’architettura alla pittura figurativa, dalla scultura alla poesia, dal dramma alla tragedia, fino  ad arrivare alla musica. La tragedia è la più importante dei generi poetici dato che mette in scena il lato negativo della vita, l’essenza dell’umanità, ma è la musica la forma d’arte più elevata. Essa è infatti un’espressione diretta della volontà: il linguaggio universale della musica consente di cogliere l’essenza della realtà, non questo o quel dolore, non questa o quella gioia, ma la gioia e il dolore in sé stessi. Perciò la musica costituisce l’equivalente della filosofia, che esprime invece il linguaggio dei concetti astratti.

3.3 - L’arte come via di liberazione ha un carattere fugace e momentaneo, ma essa prefigura il passaggio al grado successivo, che ha carattere etico e non più estetico, quello della negazione della volontà e del suo abbandono in via definitiva e duratura. Il primo passo è quello dell’azione morale. La moralità è come in Kant un’azione disinteressata, volta a superare gli atteggiamenti egoistici degli uomini nei confronti della realtà, ma Schopenhauer non pone l’imperativo categorico come principio: egli fonda la moralità sulla pietà, cioè l’altruismo disinteressato, per cui il bene degli altri è il nostro bene, e sulla compassione, per cui il dolore degli altri è il nostro dolore. Ma la pietà e la compassione non nascono dalla conoscenza del dolore ma dall’esperienza del dolore degli altri. Poiché la volontà è libera, la morale di Schopenhauer non è una morale del dovere ma un atto di volontà. A differenza del piano fenomenico, dove sussiste una ragion sufficiente per ogni azione, sul piano noumenico l’azione è libera, e proprio per questo l’etica non può imporre qualcosa basato su un principio trascendente ma deve procedere in modo immanente. Schopenhauer afferma che il suo compito non è tanto quello di portare l’uomo dall’egoismo individuale a una moralità più elevata, quanto di renderlo consapevole della vera essenza della realtà. La volontà giunta a uno stadio di consapevolezza nell’essere umano deve scegliere tra continuare a volere (MOTIVO) o rinunciare alla volontà di vivere (QUIETIVO). Se sceglie la seconda strada l’uomo inizia un percorso di liberazione dal condizionamento del volere, che passa attraverso tre gradi: la GIUSTIZIA, ossia il rispetto per gli altri e il rifiuto di fargli male; la carità o AGAPE, ossia l’amore universale, non egoistico e disinteressato, che si traduce nella compassione universale; e infine l’ASCESI, ossia una radicale negazione della volontà di vivere. In qunato tale l’ascesi è diversa dal suicidio, poiché il suicidio è per contro un’affermazione della volontà di vivere, essendo un atto della volontà che esprime una insoddisfazione e un bisogno non colmato. L’ascesi è uno stato inattivo, una contemplazione estatica del nulla, come le vite dei santi e porta l’uomo oltre il principio di individuazione in uno stato di serenità e di quiete, di pace dell’anima, calma, imperturbabilità. Schopenhauer conobbe una certa fortuna negli ultimi anni della sua vita anche in Italia, esercitando una discreta influenza su diversi intellettuali e artisti, sopratutto per merito di alcuni scritti pubblicati nel 1851 col titolo PARERGA E PARALIPOMENA, la cui redazione non contrasta,con la sua principale opera sistematica, ma ne rappresenta, come dice lo stesso Schopenhauer nella Premessa, un’integrazione in senso organico.

Filosofia 1 - Classe 5A