domenica 22 maggio 2016

3A - U1

3A - U1
La reazione all'hegelismo

FEUERBACH - LEZIONE 1
La disputa sull’hegelismo
Ludwig Feuerbach 

1.1 - Hegel muore nel 1831, lasciando un’eredità pesante, quella di una filosofia in cui si era praticamente detto tutto. Questo aspetto totalizzante, che riguarda diversi sviluppi del pensiero - incluse arte, religione, diritto, storia, la stessa filosofia - non incarna tanto una pretesa  hegeliana di voler dare una risposta a tutto, ricomprendendo questi aspetti in un unico sistema, quanto la difficoltà, una volta individuato il metodo nella dialettica, di riaprire il problema hegeliano, quello della vera essenza del reale. Eppure alla morte di Hegel i suoi seguaci si dividono in correnti, che produssero la frattura all’interno della scuola hegeliana, condannando il paradigma stesso dell’idealismo. 
La spaccatura si formalizza nel 1837 grazie a Strauss, che propone di rinominare i vecchi ed i giovani hegeliani come destra e sinistra hegeliana, riprendendo la consuetudine parlamentare francese, evidenziando nei primi l’ortodossia e nei secondi il riformismo e la modernizzazione. Il dibattito tra le due correnti inizia su aspetti religiosi e si sviluppa poi su temi storico-politici. I vecchi hegeliani erano assolutamente sostenitori del sistema del maestro, tanto da applicarne i dettami in ambito politico e istituzionale, sopratutto per quanto concerne la teoria hegeliana dello stato razionale e reale, arrivando a supportare il regime prussiano. I cosiddetti giovani hegeliani si oppongono al rigido conservatorismo della destra sfruttando proprio gli aspetti dinamici del sistema hegeliano, quelli legati alla contraddizione del reale e al conflitto,  elementi imprenscindibili della dialettica.
Molto probabilmente l’opera che ruppe lo schieramento fu la VITA DI GESU’ del già citato David F. STRAUSS, che destò molto scalpore descrivendo la religione cristiana come un mito, non perché mancasse di verità ma per la mancanza di un qualsiasi fondamento critico, separando il Gesù storico dal Cristo della fede, e portando il dibattito nell’ambito del Nuovo Testamento, provocando quindi un vespaio di critiche. A raccogliere le posizioni di Strauss fu tra gli altri Bruno BAUER, autore del pamphlet LA TROMBA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE CONTRO HEGEL, opera che spinge le conclusioni di Strauss verso un convinto ateismo. Accanto a Bauer ricordiamo anche Moses HESS e Arnold RUGE.

1.2 - Con la sinistra hegeliana si consuma il definitivo passaggio dall’idealismo a una filosofia della prassi, in cui il contributo maggiore, prima del suo esponente più organico e completo, ossia Marx, è sicuramente quello di Ludwig FEUERBACH. Feuerbach inizia come hegeliano, diventa poi un esponente della sinistra hegeliana e quindi di quella anti.hegeliana, con cui si allontana decisamente da Hegel. Gli aspetti che Feuerbach contesta del suo ex maestro sono i seguenti:
a) la pretesa assolutizzante del sistema hegeliano;
b) la concezione dialettica della storia;
c) la tendenza immaterialista e spirtiualista;
d) l’incapacità di cogliere concretamente il reale.
Va detto che Feuerbach mette in evidenza che il pensiero hegeliano è la consacrazione delle tendenze della filosofia moderna, da Cartesio in poi, e questo aspetto rende ancora più marcato il distacco dal suo maestro, tanto che il pensiero feuerbachiano si propone come un’assoluta novità. Sono due le opere in cui si estrinseca questa novità, entrambe scritte tra il 1842 e il 1843: le TESI PROVVISORIE PER LA RIFORMA DELLA FILOSOFIA  ed i  PRINCIPI DELLA FILOSOFIA DELL’AVVENIRE. Nelle due opere, sopratutto nella seconda, divisa in 65 principi dichiaratamente anti-idealistici si consuma un’irrevocabile transizione  alla filosofia della prassi. Feuerbach irride la pretesa idealistica di far coincidere materia e spirito, finito e infinito, ed elegge la condizione sensibile a principio primo della conoscenza filosofica, quale altro del pensiero, e molto più adatta alla vita umana e terrena. La filosofia di Feuerbach potrebbe essere distinta come una antropologia filosofica, oppure come un umanesimo materialistico, data la sua specifica concentrazione sul problema uomo. Feuerbach opera una vera e propria rivoluzione copernicana dell’hegelismo, attribuendo la realtà al finito e l’idealità all’infinito, e spostando la loro coincidenza, in forma negativa, non più a un assoluto ma all’uomo, a partire dal quale l’infinito può essere pensabile. Infatti al centro del pensiero di Feuerbach, ci sono la corporeità, la sensibilità e la materialità, incarnate dall’uomo, essere finito, limitato, fatto di bisogni: Mann ist was isst, (l’uomo è ciò che mangia), afferma Feuerbach con un gioco di parole - comprensibile solo in tedesco - che afferma la natura finita dell’uomo. In questo capovolgimento il pensiero non è più espresso soggettivamente ma oggettivamente, come predicato del reale finito che per Feuerbach costituisce la vera soggettività. L’unica vera realtà è perciò quella sensibile: Feuerbach ripristina la scissione tra soggettivo e oggettivo, riportando la dialettica a un confronto umano tra esseri finiti. A denunciare l’umanesimo di Feuerbach è la frase “io sono uomo con gli uomini” opposta alla frase tipica dei filosofi assoluti: “io sono la verità”.
Nella letteratura filosofica feuerbachiana assumono una determinante rilevanza gli scritti di argomento filosofico-religioso, tra cui L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO del 1841 e L’ESSENZA DELLA RELIGIONE del 1845. La prima delle due opere si concentra sul tema dell’ALIENAZIONE, un tema non nuovo e trattato anche da Hegel, a cui però Feuerbach conferisce una direzione particolare, considerando la religione come alienazione, nel senso di una proiezione della finitezza umana in un essere altro, identificato come Dio. Questo processo di oggettivazione è causato dalla tendenza del luomo a superare i propri limiti - AUTOTRASCENDIMENTO - che lo porta a proiettare una parte di sé stesso in un essere altro, da cui però ben presto finisce con l’allontanarsi - ESTRANIAZIONE - non riconoscendosi più in questa figura perfetta, illimitata, assoluta, così diversa da sé. Dio finisce quindi con l’espropriare l’uomo delle sue facoltà, la ragione, la volontà, il sentimento, facendogli pesare tutta la limitatezza della sua condizione, schiacciandolo e non elevandolo. Questo è un canone tipico delle figure dell’Antico Testamento che rivendicano un Dio ESSENZA DELL’INTELLETTO, in quanto RAGIONE ASSOLUTA, e ESSENZA MORALE in quanto VOLONTA’ ASSOLUTA. Nel Nuovo Testamento compare invece la personificazione del Dio cristiano come ESSENZA DEL CUORE in quanto SENTIMENTO ASSOLUTO, che per amore dell’uomo si incarna in Gesù. Qui emergono due aspetti: l’AMORE, ossia lla funzione riconciliatrice tra gli uomini, e la FEDE, espressione dice Feuerbach di un egoismo supernaturalistico, che mira per contro a rafforzare la scissione tra uomo e Dio. Feuerbach evidenzia dunque due nature nella religione, una vera e una falsa, da un lato il tentativo vano dell’uomo di superare la propria condizione, dall’altra il presagio di quello che l’uomo è veramente. Per questo Feuerbach affida alla filosofia - quale antropologia materialistica - il compito di DISALIENARE l’uomo, ossia di liberarlo,  compito terapeutico, mostrandogli l’aspetto antropologico alla base di ogni religione e mettendo bene in chiaro che Dio altro non è che la proiezione e l’oggettivazione di alcuni aspetti dell’uomo stesso.
Questi temi tornano in uno scritto successivo, L’essenza della religione, dove però Feuerbach non mette in risalto gli aspetti essenziali dell’uomo ma della natura, da cui l’uomo si sente dipendente. La natura infatti viene vista come una manifestazione del divino fino a diventare autonoma e base di ogni credo religioso, finendo col sopraffare l’uomo: per questo motivo anche questo scritto ha uno scopo terapeutico, quello cioè di liberare l’uomo dalla malattia religiosa, ossia la cancellazione di qualsiasi desiderio soprannaturale. 

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SCHOPENHAUER - LEZIONE 2
La realtà metafisica dell’uomo

2.1 - La filosofia di Schopenhauer prende le distanze dalla filosofia hegeliana per abbracciare una concezione della realtà fondata sulla volontà e sulla rappresentazione, e in cui la filosofia deve essere lo strumento per superare la conoscenza rappresentativa della realtà per isolarne l’essenza, ossia la volontà. L’opera più importante di Schopenhauer è sicuramente IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE. Nella prefazione Schopenhauer indica quali fonti d’ispirazione le opere di Kant e di Platone e i libri sacri della tradizione induista, Veda e Upanishad. Da Kant Schopenhauer eredita la scissione tra fenomeno e noumento, ma a differenza di Kant egli considera il noumeno conoscibile, attraverso il concetto di volontà. Da Platone eredita invece la divisione dei due mondi, a cui accompagna la creazione di un mondo intermedio fondato sulla volontà. Dai testi sacri dell’induismo infine egli eredita la concezione illusoria della realtà empirica, che è solo apparenza, e che deve essere superata per passare a una verità più stabile e meno effimera. Come i filosofi del suo tempo anche Schopenhauer sente l’esigenza di dare un’espressione sistematica e scientifica al suo pensiero, ma non segue la concezione architettonica dei suoi contemporanei, bensì predilige una prospettiva organica e circolare, in cui ogni parte sostiene il tutto e viceversa. L’esigenza di abbandonare una tradizione gerarchica nasce dal fatto che ogni uomo è portato a interrogarsi sulla realtà da una continua meraviglia. Lo stupore filosofico è la conseguenza dalla ricerca dell’uomo che non si arrende di fronte alla morte, al male, al dolore, e cerca di soddisfare il proprio bisogno metafisico. L’inquietudine deriva dalla consapevolezza che la non esistenza del mondo è possibile quanto la sua stessa esistenza. Ma per questo motivo Schopenhauer non si rivolge al concetto tradizionale, razionalistico, di metafisica, quella che Kant aveva definito abisso senza fondo, e che pretende di andare oltre il fenomeno: egli elabora la concezione di una metafisica immanente, che parte proprio dal fenomeno empirico, e che considera indispensabile per spiegare la realtà, in quanto gli stessi concetti che la metafisica usa per spiegare il reale partono dal reale stesso, e quindi è necessario ammettere una metafisica che parta dal fenomeno per spiegare il fenomeno stesso. Si tratta dunque di una metafisica completamente diversa da quella degli idealisti, che Schopenhauer critica e dileggia per il linguaggio oscuro, espressione a suo dire di una disonestà intellettuale. Obiettivo delle suecritiche è sopratutto il pensiero hegeliano, non solo per la mistificazione di un’illusoria coincidenza tra ideale e reale ma sopratutto per aver occultato quelle caratteristiche umane che permettono all’uomo di agire, imprigionando l’uomo nell’obbedienza alla religione e allo Stato.

2.2 - Kant aveva sostenuto che del reale si potesse cogliere il solo aspetto fenomenico, relegando quello noumenico a qualcosa di pensabile ma non conoscibile, e per questo limite indispensabile della conoscenza umana. Schopenhauer riprende questa dicotomia nella sua descrizione del mondo, indicando il fenomeno come la RAPPRESENTAZIONE del mondo stesso, ossia come effettivamente appare ai nostri sensi, e affermando il noumeno come VOLONTA’, ossia il mondo come noi vorremmo che fosse, espressione di quella forza metafisica che eccede il piano empirico. Schopenhauer però prende le distanze da Kant, in quanto Kant considerava il mondo una delle idee della ragion pura, di natura dunque noumenica e inconoscibile, mentre il filosofo di Danzica pone il mondo al centro di tutta la sua speculazione. Nella sua riflessione Schopenhauer considera il mondo come rappresentazione, dal punto di vista fenomenico, e come volontà, dal punto di vista noumenico. Nel primo caso, relativo alla conoscenza scientifica, il mondo viene visto come un oggetto per il soggetto. Il soggetto è ovviamente l’uomo che lo deve conoscere. Nel secondo caso invece il mondo è l’oggettivazione di quella forza metafisica che è la volontà in quanto forza viva, ossia volontà di vivere. Il mondo in quanto rappresentazione non può prescindere dai due aspetti,  inseparabili, di soggetto e oggetto, che caratterizzano ogni esperienza. La dimensione oggettiva si basa a sua volta sulle forme di spazio e e tempo e sulla causalità: ogni esperienza infatti non potrebbe prescindere dallo spazio, dalla successione temporale e dalle relazioni causali che legano gli oggetti tra di loro. Si tratta del mondo del cosiddetto PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS per cui la realtà appare frammentata e divisa come sono separati soggetto e oggetto, e che  Schopenhauer riconduce al termine sanscrito AHAMKARA che nei Veda indica praticamente la coscienza nel suo atto rappresentativo del reale (da aham, cioè io, e  kara, fare). Il soggetto, in quanto condizione della stessa esperienza, a differenza dell’oggetto, non può essere conosciuto e a lui non si possono ricondurre le stesse prerogative dell’oggetto poiché la è unitario e non frammentato come la realtà: per questo motivo le forme del mondo della rappresentazione sono a priori e indipendenti sia dall’esperienza sia dal soggetto stesso da cui ogni esperienza dipende. Rispetto a Kant Schopenhauer riduce le dodici categorie a una sola, quella della causalità, e, in un modo diverso da Kant, distingue nel soggetto tre facoltà conoscitive: la SENSIBILITA’, l’INTELLETTO (facoltà delle rappresentazioni intuitive) e la RAGIONE (facoltà delle rappresentazioni astratte). La collaborazione tra sensibilità e intelletto permette di applicare a tutti i fenomeni il principio della causalità. che è forma a priori dell’intelletto: grazie a questa collaborazione le sensazioni esterne sono interpretate dall’intelletto come effetti di cui occorre ricercare le cause, a loro volta proiettate fuori dall’organismo. L’intuizione nella filosofia di Schopenhauer è dunque opera dell’intelletto, e si tratta di una intuizione empirica. La fissazione delle conoscenze acquisite con l’intuizione dà luogo alla conoscenza astratta che è oggetto della ragione e riguarda invece i concetti. La dottrina della causalità, altrimenti detta da Schopenhauer PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE, riveste un ruolo fondamentale nel sistema (tanto che egli dedica a questo problema la sua tesi di laurea): niente è senza ragione. La formulazione wolffiana di tale principio (nihil est sine ratione cur potius sit, quam non sit) non viene assunta da Schopenhauer in senso ontologico ma critico, riferendosi cioè al modo in cui il soggetto si rapporta agli oggetti e al modo in cui gli oggetti si rapportano tra loro. Schopenhauer individua quattro forme del principio di ragion sufficiente, che corrispondono ad altrettanti modi di connessione necessaria tra gli oggetti:

DIVENIRE - si applica alle rappresentazioni intuitive che ci permettono di avere un’immagine della realtà empirica e coincide con la necessità fisica delle relazioni causali;
CONOSCERE - si applica alle rappresentazioni astratte, cioè ai concetti, e coincide con la necessità logica delle relazioni tra premesse e conseguenze;
ESSERE - si applica alle intuizioni a priori di spazio e di tempo in ambito matematico e coincide con la necessità matematica e geometrica;
AGIRE - si applica al soggetto e coincide con la necessità morale, in quanto spiega il motivo delle azioni.

Queste quattro forme del principio di ragion sufficiente forniscono nell’insieme una prospettiva del mondo, ma la conoscenza del mondo per Schopenhauer non finisce qui: anzi, l’immagine del mondo che ci rappresentiamo è solo una parvenza illusoria che nasconde la vera essenza, quella che Kant chiamava la cosa in sé. Il compito della filosofia è quello di svelare questa essenza, liberandola dal velo di illusorietà che Schopenhauer chiama col termine sanscrito maya.

SCHOPENHAUER - LEZIONE 3
La liberazione della volontà

3.1 - L’esperienza che l’essere umano fa del proprio copro nell’autocoscienza è la dimensione che permette di connettere la rappresentazione e la volontà. Anche il corpo è un oggetto, ma a differenza degli altri oggetti è immediato, poiché ne facciamo continuamente esperienza diretta nell’autocoscienza. Ma il corpo è sopratutto forza viva, e lo si vede da ogni movimento che si compie, che costituisce un atto di volontà: il soggetto conosce dunque continuamente sé stesso come soggetto dei propri atti volontari. Schopenhauer apre dunque ad una conoscenza metafisica. Non tutte le forze della natura possono infatti essere spiegate con l’atteggiamento scientifico-naturalistico, e necessitano di essere spiegate in prospettiva metafisica, facendo coincidere tutte queste forze proprio nella volontà di cui facciamo esperienza nell’autocoscienza: ecco che troveremo nei minerali gravitazione, fossilizzazione e coesione, nei vegetali nutrizione e crescita, negli animali l’istinto e la sensibilità, nell’uomo la consapevolezza di sé. La volontà è una forza unica, indistruttibile ed  eterna, che si presenta, intera e indivisa, in ogni fenomeno naturale.
Per spiegare la mediazione tra l’unicità e della volontà e la molteplicità dei fenomeni Schopenhauer riccorre al significato platonico dell’IDEA. Le idee sono i diversi gradi di oggettivazione della volontà, cioè le forme degli oggetti attraverso cui la volontà si manifesta nel mondo. Come in Platone le idee non appartengono al mondo del divenire ma a quello dell’essere. Schopenhauer sottolinea che la volontà è cieca e irrazionale, inconscia, priva di fondamento e di scopo: essa è volontà di volere, desiderio, bisogno, mancanza, in poche parole DOLORE. Questo bisogno è all’origine di una contesa tra le volontà, una lotta quasi animalesca che in senso umano si traduce nell’hobbesiano homo homini lupus: ma Schopenhauer compie una distinzione gerarchica tra le diverse forme, fino ad arrivare all’uomo, in cui alle rappresentazioni intuitive, tipiche dell’intelletto, si accompagnano le rappresentazioni astratte, tipiche della ragione. Compare quindi non più una forza inconsapevole ma la coscienza, che dipende dal cervello, strumento al servizio della volontà al fine di conservare l’individuo e la specie.

3.2 - La conoscenza scientifica non è sufficiente. Per questo Schopenhauer considera l’arte fondamentale, non solo dal punto di vista estetico ma anche metafisico: spetta ad essa il compito di comunicare, in modo contemplativo e disinteressato, che l’essenza del mondo della rappresentazione è la volontà: l’arte è il primo grado del processo di liberazione dalla volontà. In quanto tale l’arte è una conoscenza geniale: essa è disinteressata e non utilitaristica. Qui l’intelletto non è asservito alla volontà come nella conoscenza empirica: nel genio la conoscenza è spropositata rispetto a ciò che serve alla volontà. Il genio conosce le cose indipendentemente dal principio di ragion sufficiente. L’intuizione geniale non si rivolge alle cose, agli oggetti della realtà empirica, ma alle loro forme, ossia alle idee: essa è contemplazione, non conoscenza, e in quanto tale essa trascende il principium individuationis. Il soggetto qui diventa puro soggetto del conoscere, l’intelletto si libera del suo asservimento alla volontà ed è libero di cogliere il significato metafisico della realtà. Dunque il soggetto si rivolge all’essenza delle cose, a “ciò che le cose sono”.
Schopenhauer elabora una gerarchia delle arti, procedendo dall’architettura alla pittura figurativa, dalla scultura alla poesia, dal dramma alla tragedia, fino  ad arrivare alla musica. La tragedia è la più importante dei generi poetici dato che mette in scena il lato negativo della vita, l’essenza dell’umanità, ma è la musica la forma d’arte più elevata. Essa è infatti un’espressione diretta della volontà: il linguaggio universale della musica consente di cogliere l’essenza della realtà, non questo o quel dolore, non questa o quella gioia, ma la gioia e il dolore in sé stessi. Perciò la musica costituisce l’equivalente della filosofia, che esprime invece il linguaggio dei concetti astratti.

3.3 - L’arte come via di liberazione ha un carattere fugace e momentaneo, ma essa prefigura il passaggio al grado successivo, che ha carattere etico e non più estetico, quello della negazione della volontà e del suo abbandono in via definitiva e duratura. Il primo passo è quello dell’azione morale. La moralità è come in Kant un’azione disinteressata, volta a superare gli atteggiamenti egoistici degli uomini nei confronti della realtà, ma Schopenhauer non pone l’imperativo categorico come principio: egli fonda la moralità sulla pietà, cioè l’altruismo disinteressato, per cui il bene degli altri è il nostro bene, e sulla compassione, per cui il dolore degli altri è il nostro dolore. Ma la pietà e la compassione non nascono dalla conoscenza del dolore ma dall’esperienza del dolore degli altri. Poiché la volontà è libera, la morale di Schopenhauer non è una morale del dovere ma un atto di volontà. A differenza del piano fenomenico, dove sussiste una ragion sufficiente per ogni azione, sul piano noumenico l’azione è libera, e proprio per questo l’etica non può imporre qualcosa basato su un principio trascendente ma deve procedere in modo immanente. Schopenhauer afferma che il suo compito non è tanto quello di portare l’uomo dall’egoismo individuale a una moralità più elevata, quanto di renderlo consapevole della vera essenza della realtà. La volontà giunta a uno stadio di consapevolezza nell’essere umano deve scegliere tra continuare a volere (MOTIVO) o rinunciare alla volontà di vivere (QUIETIVO). Se sceglie la seconda strada l’uomo inizia un percorso di liberazione dal condizionamento del volere, che passa attraverso tre gradi: la GIUSTIZIA, ossia il rispetto per gli altri e il rifiuto di fargli male; la carità o AGAPE, ossia l’amore universale, non egoistico e disinteressato, che si traduce nella compassione universale; e infine l’ASCESI, ossia una radicale negazione della volontà di vivere. In qunato tale l’ascesi è diversa dal suicidio, poiché il suicidio è per contro un’affermazione della volontà di vivere, essendo un atto della volontà che esprime una insoddisfazione e un bisogno non colmato. L’ascesi è uno stato inattivo, una contemplazione estatica del nulla, come le vite dei santi e porta l’uomo oltre il principio di individuazione in uno stato di serenità e di quiete, di pace dell’anima, calma, imperturbabilità. Schopenhauer conobbe una certa fortuna negli ultimi anni della sua vita anche in Italia, esercitando una discreta influenza su diversi intellettuali e artisti, sopratutto per merito di alcuni scritti pubblicati nel 1851 col titolo PARERGA E PARALIPOMENA, la cui redazione non contrasta,con la sua principale opera sistematica, ma ne rappresenta, come dice lo stesso Schopenhauer nella Premessa, un’integrazione in senso organico.

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KIERKEGAARD - LEZIONE 5
La realtà esistenziale dell’uomo

5.1 - La filosofia hegeliana aveva l’obiettivo di mostrare la realtà del pensiero, dissolvendo la singolarità nell’universalità della storia dello spirito. La filosofia di Kierkegaard riparte proprio dalla singolarità, dall’uomo visto nei suoi aspetti concreti e possibili. Kierkegaard contrappone al sistema filosofico hegeliano l’esistenza del singolo: ma egli non si considera un vero filosofo quanto uno scrittore di cose religiose, poiché solo la religione riesce a soddisfare i bisogni dell’uomo. Dalla sua posizione duplice di filosofo e di uomo religioso Kierkegaard è con Marx e Nietzsche uno dei critici più radicali della moderna società borghese e uno dei pensatori cristiani più innovatori. La caratteristica più evidente del suo pensiero è la SCRITTURA, non solo per la vocazione di scrittore ma anche per la forte accezione autobiografica della sua riflessione - come testimoniano le pagine del suo DIARIO, che accompagneranno il suo pensiero per oltre un ventennio - influenzata dal rapporto col padre, con la chiesa luterana danese e con la compagna Regine Olsen. Questi aspetti mettono in luce che la dimensione diaristica e autobiografica tipica dell’opera di Kierkegaard è una scelta coerente e voluta proprio per rafforzare la teoria che il pensiero è l’espressione di una esistenza singola, reale, concreta e non vuoto astrattismo. Proprio l’affermazione del primato dell’esistenza singolare e individuale, porta Kierkegaard a una dura critica al conformismo borghese del suo tempo, all’appiattimento dei singoli nella massa, dovuto anche alle dottrine egualitarie contro cui il filosofo si scaglia, nella difesa della monarchia e dell’ordine pubblico. Kierkegaard condannerà i moti insurrezionali del 1848, in quanto la massificazione dei singoli non era garanzia di libertà. Partendo da una prospettiva religiosa arriverà perfino a teorizzare un governo costituito da sacerdoti cristiani. Tuttavia la critica investe anche la stessa chiesa luterana danese, accusata di ateismo cristiano per aver allontanato il singolo da Dio in nome di una religione di stato, e la teologia razionalista, in quanto il cristianesimo non è dottrina ma pratica, basata sull’ascolto della parola di Dio: Kierkegaard infatti è interessato sopratutto all’itinerario esistenziale che porta a diventare cristiani. La dimensione soggettiva della coscienza, coi suoi dubbi, con le sue possibilità, deve essere salvaguardata: perciò Kierkegaard condanna il sistema hegeliano, per aver risolto nel concetto le finalità esterna e interna, pregiudicando così l’integrità dell’agire etico. 
Nella POSTILLA CONCLUSIVA alle BRICIOLE DI FILOSOFIA (1846) emerge tutto il carattere soggettivo del pensare, con la differenza tra il PENSATORE ASTRATTO, calato in una dimensione teoretica e non interessato ai bisogni dell’esistenza, e il PENSATORE ESISTENTE, coinvolto nell’esistenza, e per questo soggettivo, che rappresenta la forma di filosofia che si accorge delle esigenze dell’esistere, esigenze a cui il pensatore astratto, alla ricerca di una impossibile oggettività, invece si sottrae. Kierkegaard contrappone alla verità oggettiva, che prescinde dall’esistenza del soggetto conoscente, una verità soggettiva, indissolubilmente legata all’esistenza del soggetto, attenta non a ciò che si dice bensì al modo in cui qualcosa si dice: se il pensiero oggettivo si rivolge all’esteriorità, quello soggettivo fa i conti con l’interiorità e quindi con la coscienza esistente. Il concetto di verità soggettiva, in aperta opposizione alla filosofia hegeliana, costituisce l’autentico senso del cristianesimo: essa non va intesa come autosufficienza del soggetto ma come individuazione del soggetto quale soggetto dell’esperienza dell’assoluto. Questa affermazione allontana definitivamente Kierkegaard da Hegel, che per il suo tentativo di mediazione tra religione e filosofia e di giustificazione razionale dei contenuti religiosi viene accusato di essere un falsificatore del cristianesimo. La critica a Hegel mette bene in evidenza la distanza tra i due filosofi: se Hegel aveva considerato la figura di Gesù come conciliatrice tra l’uomo e Dio, Kierkegaard parte dal presupposto che tra uomo e Dio esiste una distanza abissale.
La riflessione di Kierkegaard deve tuttavia molto all’hegelismo, sopratutto nel concetto della DIALETTICA DELL’ESISTENZA. A differenza della dialettica di Hegel si deve notare la totale assenza di conciliazione e la presenza della contraddizione, come nei tre stadi dell’esistenza. 

5.2 - Il termine ESISTENZA può avere due significati: il primo ha il senso di “derivato” ossia “essere da” o “proveniente da” di un ente “dato dal di fuori” e cioè creato da Dio; il secondo rimanda alla distinzione aristotelica di potenza e atto e indica la fatticità e l’effettività, l’attualità dell’esserci contrapposta all’essenza in quanto possibilità. Questo duplice significato di esistenza la pone da un lato come CONTINGENZA e dall’altro come REALTA’ IN ATTO. Accanto a questi due caratteri di esistenza, Kierkegaard considera anche un terzo, l’INDEDUCIBILITA’ DELL’ESISTENZA DAL CONCETTO, nella stessa accezione già usata da Kant, nelle prove dell’esistenza di Dio, in cui Kant considera l’esistenza come posizione assoluta, non deducibile  logicamente dall’essenza. L’esistenza non è un concetto e non è deducibile dal concetto: è passione infinita e interesse. Mentre per il concetto non è essenziale che esista, per il singolo l’esistenza è fondamentale. L’esistenza, poiché si svolge nel tempo, è finita e contingente, ma tende alla trascendenza in quanto l’uomo è singolo poiché creato a immagine e somiglianza da Dio. 
La categoria che descrive meglio di tutte l’esistenza è la POSSIBILITA’ perché l’uomo, a differenza di altri animali, “è ciò che sceglie”: questo aspetto mette in evidenza tutta la problematicità e la complessità del modo di essere dell’uomo che esiste nel tempo. Essendo soggetta al divenire l’esistenza è estranea alla necessità: essa è possibilità e scelta, quindi libera. Questa libertà non va intesa in senso positivo, infatti la vita pone l’uomo di fronte a continue decisioni, scelte e alternative, inconciliabili, che mettono in gioco la stessa esistenza, poiché l’uomo è ciò che sceglie. Non è detto che nella scelta una possibilità si debba per forza realizzare, essa potrebbe diventare nulla. Il singolo che si trova a fronteggiare questa sorta di onnipotenza della possibilità sprofonda nell’ANGOSCIA, definita da Kierkegaard sentimento puro e angosciante possibilità di potere, da cui si guarisce solo affidandosi alla fede e al rapporto con Dio.

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MARX - LEZIONE 8
La realtà storica dell’uomo

8.1 - La filosofia di Marx è una speculazione dai molteplici orientamenti - diritto, economia, sociologia, storia - riconducibili all’analisi della realtà storica e sociale. Rispetto ad altri filosofi non si limita agli aspetti teorici ma cerca di individuare le dinamiche di sviluppo di quelle strutture che hanno reso possibile la trasformazione della società industriale e capitalistica del suo tempo. Teoria e scienza non sono per Marx due prospettive distinte ma due aspetti concomitanti alla prassi sociale. Karl Marx nasce a Treviri, in Renania, nel 1818, e a 17 anni inizia a Bonn gli studi di Legge, che tuttavia abbandona dopo un anno, iscrivendosi quindi alla facoltà di Filosofia dell’Università di Jena, dove consegue la laurea nel 1841: determinante fu l’incontro con i giovani hegeliani. A causa delle tendenze reazionarie del governo prussiano, Marx è costretto ad abbandonare il suo progetto di dedicarsi alla docenza universitaria, ripiegando sul giornalismo politico. La sua attività lo porta a trasferirsi a Parigi, dove incontra Proudhon e Bakunin ma sopratutto il suo amico Friedrich Engels, che condivide con Marx un sodalizio durato tutta la vita. In questo periodo vedono la luce due opere che segnano il passaggio di Marx dall’ideologia liberale al comunismo: i MANOSCRITTI ECONOMICO-FILOSOFICI e LA SACRA FAMIGLIA, quest’ultima scritto con Engels. Dopo Parigi si trasferisce a Bruxelles, dove scrive altre due opere, le TESI SU FEUERBACH e L’IDEOLOGIA TEDESCA, di nuovo con Engels, opera in cui appare per la prima volta la concezione materialistica della storia. Durante la cosiddetta primavera dei popoli, Marx, molto vicino ai movimenti rivoluzionari e comunisti, elabora con Engels il MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA. Dopo il Quarantotto si trasferisce definitivamente a Londra, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel 1883, conducendo una vita molto precaria. A Londra si dedica a studi sull’economia, pubblicando il primo libro de IL CAPITALE (gli altri due saranno pubblicati postumi a cura di Engels). 

8.2 - Lo sviluppo della concezione marxiana dell’uomo e della società nasce sicuramente dalla critica rivolta ai vari predecessori, sopratutto a Hegel e Feuerbach, oltre a diversi esponenti della sinistra hegeliana. Contro Hegel  scrive la CRITICA ALLA FILOSOFIA HEGELIANA DEL DIRITTO PUBBLICO, opera incompleta e pubblicata postuma, che è considerata importante per lo sviluppo della concezione dello stato. In quest’opera Marx inizia dalla critica al metodo usato da Hegel nella sua concezione del diritto e dello stato: il solo elemento di positività è la dialettica, che ha consentito a Hegel di focalizzare la distinzione tra stato e società civile, caratteristica del mondo moderno, mettendone in luce gli aspetti contraddittori. Ma gli aspetti positivi finiscono qui. L’errore di Hegel sarebbe stato quello di assegnare alla dialettica un carattere speculativo, facendo della famiglia, della società civile e dello stato, tre momenti dell’idea, attribuendo realtà al pensiero e viceversa assegnando al concreto un carattere astratto. Si tratta quindi dello stesso capovolgimento operato da Feuerbach. Si tratta dice Marx, di un MISTICISMO LOGICO, di una divinizzazione dell’idea che diventa il soggetto del processo di sviluppo storico, facendo derivare da essa tutti gli aspetti reali del processo stesso. Quello hegeliano, scrive Marx, è un empirismo inconsapevole, che vede il finito e il presente come un riflesso dell’assoluto, dando a questi elementi un carattere di eternità.
In un’altra opera, LA QUESTIONE EBRAICA, Marx esamina il rapporto tra stato e società civile con una critica alle idee di rappresentanza, libertà ed eguaglianza, proprie della concezione borghese di democrazia. Nella società borghese è presente la scissione tra il citoyen, il cittadino, membro partecipe della vita politica dello stato, e il bourgeois, il borghese che fa parte cioè della società, impegnato nella realizzazione delle proprie aspirazioni. Questa scissione era sconosciuta nella polis greca, in cui il cittadino era davvero parte della comunità - Marx parla di unità sostanziale con la comunità - e questa distinzione chiarisce il carattere illusorio dell’egalitè rivoluzionaria, che si è sempre propagandata come una conquista dei cittadini: come si sa invece il decennio rivoluzionario francese mostra una profonda divisione nella società civile. La tanto decantata uguaglianza dei diritti si scontrava infatti con una disuguaglianza dei rapporti all’interno della società civile francese del Settecento, profondamente stratificata, che riconduceva alla guerra di tutti contro tutti già teorizzata da Hobbes. La vera emancipazione è pertanto il superamento di questa scissione, riportando individuo, società e politica a questa unità sostanziale. Questo risultato si potrà ottenere solo con una  trasformazione decisiva di quelle strutture economiche e sociali fautrici della disuguaglianza.

8.3 - Marx si discosta ben presto dai giovani hegeliani e da Feuerbach, di cui condivide la concezione sensibile e naturale dell’uomo, ma a cui rimprovera il carattere estremamente passivo e ricettivo di questa concezione, oltre  all’assenza di qualsiasi storicità, quasi dimenticando la caratteristica di attività che contraddistingue l’essere umano: l’uomo non è infatti semplicemente un essere sensibile ma è anche prassi, attività spontanea, inserito nel processo storico; tutti gli uomini tendono a trasformare in meglio le loro condizioni di vita, senza accettare passivamente ciò che gli deriva dalla propria condizione materiale. Un altro punto di contrasto tra Marx e Feuerbach è la religione, e anche qui si nota la diversità di impostazione. Entrambi vedono la religione come un’alienazione e una forma di dipendenza, in realtà non è Dio ad aver creato l’uomo ma il contrario, è l’uomo a creare Dio a sua immagine e somiglianza. Ma l’errore feuerbachiano è aver imprigionato l’essere umano in una sorta di dimensione astratta, come se non avesse occasione di rimediare a questa proiezione inevitabile verso l’esterno: Marx ritiene invece che questa condizione abbia una determinazione storico-sociale ben precisa, ossia il processo di alienazione derivante dalla condizione di sfruttamento del lavoratore salariato nell’economia capitalistica.

8.4 - Lo scritto che conferma il distacco di Marx dai giovani hegeliani, sopratutto da Feuerbach, ma anche da Bauer e da Stirner, è L’IDEOLOGIA TEDESCA, opera scritta a quattro mani con l’amico Friedrich Engels, che non fu subito pubblicata in quanto serviva sopratutto come chiarimento della visione che Marx ed Engels avevano sviluppato circa il problema storico. 
L’opera segna il passaggio dalla concezione hegeliana della storia alla concezione materialistica della storia (MATERIALISMO STORICO). La storia viene considerata come un processo obiettivo, con leggi sue specifiche, radicato nei bisogni umani. In questa opera i due autori vanno alla ricerca di un metodo critico in grado di fondare una nuova concezione della storia, legata alla dimensione reale dell’umanità. Appare qui evidente il valore negativo dato all’IDEOLOGIA, inteso da Marx non come un insieme organico di idee ma come una specie di velo che mistifica la realtà, nascondendo le sue vere caratteristiche, la sua struttura, le sue forze motrici, e sostituendo ai rapporti reali un’immagine assolutamente deformata. Si tratta di una prospettiva ancora romantica e idealistica in cui il carattere spirituale e quello ideale sono considerati i motori propulsori e autonomi della realtà materiale che è alla loro base. La concezione marxiana della storia umana non può prescondere dalla PRASSI. Infatti la storia viene vista non come un processo estraneo agli uomini ma un processo che li coinvolge direttamente, ossia un divenire regolato dai bisogni a cui gli uomini cercano di far fronte attraverso il lavoro. La differenza tra uomini e animali è che gli uomini producono da sé stessi i propri mezzi di sussistenza. A questa fase ne segue una seconda, quella relle relazioni sociali, della cooperazione, della riproduzione: e solo dopo questo sviluppo possiamo veramente parlare di COSCIENZA. Per Marx non è la coscienza a creare la vita ma è la vita a creare la coscienza. Infatti gli uomini - dopo essersi assicurati i mezzi di sussistenza e dopo aver creato una rete di legami sociali - non solo modificano le loro condizioni ambientali ma anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Lo strumento ideale per comprendere la natura dello sviluppo di queste fasi è sicuramente l’economia, definita da Marx l’anatomia della società civile (nella prefazione a PER UNA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA). 
Usando una metafora architettonica Marx ed Engels chiamano STRUTTURA ECONOMICA l’ambito della vita umana, i rapporti di produzione e i mezzi produttivi che costituiscono la dimensione sociale ed economica in cui gli uomini vivono, lavorano, e si relazionano. Tutto quello che emerge da questo ambito, ossia il pensiero umano, le teorie, la cultura, le istituzioni politiche e religiose, viene invece definito SOVRASTRUTTURA. Per Marx la sovrastruttura è condizionata dalla struttura economica, per questo motivo tutti i prodotti del pensiero umano sono soggetti alle influenze dei rapporti produttivi e dalle relazioni che si sviluppano al loro interno.

8.5 - Lo sviluppo della concezione storico-materialista di Marx ed Engels ha una svolta applicativa nel MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA, opera ancora una volta scritta a quattro mani, in cui si chiarisce non solo il significato del processo storico nei termini di una LOTTA DI CLASSE ma anche il futuro ruolo egemone del proletariato e la conseguente necessità di una transizione dalla società borghese, capitalistica e classista a  una società COMUNISTA e senza classi sociali, nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarebbe stato condizione del libero sviluppo di tutti. L’aspetto dinamico del processo storico è rappresentato dal conflitto sorto nel contesto della società borghese, che ha come sua caratteristica quella di aver polarizzato i suoi membri in borghesia e proletariato, quest’ultima la parte più estesa e tendente all’impoverimento. Ma la società borghese non viene demonizzata, anzi, gli stessi autori nel confronto con le classi sociali di un tempo ritengono che la borghesia abbia un carattere rivoluzionario, con una continua modifica dei rapporti produttivi, dei mezzi di produzione e delle relazioni sociali da essi derivati. Proprio perché spinta dalla continua ricerca del profitto la borghesia è stata capace di migliorare le condizioni della società, defeudalizzandola e laicizzandola, abbandonando vecchie usanze e convenzioni decrepite, e creando poi la grande industria che ha generato la classe operaia. Ma questa grande borghesia mostra inevitabilmente i limiti e le contraddizioni al suo interno quando si analizzano le condizioni storiche dello sfruttamento del lavoratore salariato, ossia la proprietà dei mezzi di produzione che appartiene al padrone e il limitato compenso spettante all’operaio. 
Marx ed Engels rivolgono una critica al socialismo utopistico, individuando nell’ultima parte del Manifesto tre forme di socialismo che non si basano su una corretta analisi della realtà socio-economica, e per questo motivo distinte da Engels, in un altro scritto, dalle forme scientifiche: il SOCIALISMO REAZIONARIO, diviso nelle sue forme feudale, piccolo-borghese e tedesca, è un tipo di socialismo che propone un ritorno alle società del passato; il SOCIALISMO CONSERVATORE, a cui viene ascritto Proudhon, propone una correzione della dimensione socio-economica borghese e capitalistica senza abbandonare la sua base materiale, la proprietà privata; il SOCIALISMO UTOPISTICO di Saint Simon, Fournier e Owen propone invece modelli ideali di società che non poggiano su una concreta analisi sociale ed economica delle condizioni materiali dell’umanità. Il socialismo marxiano-engelsiano offre una prospettiva SCIENTIFICA, basata sull’analisi delle condizioni sociali ed economiche che hanno reso possibile lo sviluppo della società capitalistica borghese. Tale analisi conduce i due studiosi a ritenere necessaria una nuova rivoluzione storica e culturale, come quella che ha sancito il passaggio dalla vecchia economia feudale al capitalismo, ossia una rivoluzione che segna il passaggio dalla società borghese alla società comunista con l’abbandono della proprietà legata al capitale. Si tratta di un processo naturale, poiché è la stessa borghesia ad aver creato la classe sociale che la sostituirà nel ruolo egemone, favorendo, con la creazione del mercato mondiale e di un potere centralizzato, le condizioni per l’unificazione del proletariato e l’estensione del processo rivoluzionario. A queste condizioni oggettive vanno aggiunte quelle soggettive, ossia la maturazione di una COSCIENZA DI CLASSE da parte dei proletari. La rottura rivoluzionaria avverrà quindi secondo Marx mediando questi aspetti, quello storico e oggettivo legato all’economia e alla società, e quello soggettivo e umano legato alla coscienza individuale e collettiva.

MARX - LEZIONE 9
La critica dell’economia politica

9.1 - La critica dell’economia politica è la definizione usata dallo stesso Marx per dichiarare la distanza della sua analisi dell’economia capitalistica rispetto a quelle formulate da altri economisti, tra cui Adam Smith. Nella sua critica a Hegel Marx mette in evidenza che all’uguaglianza giuridica tra i cittadini non corrisponde una vera uguaglianza sul piano sociale; inoltre, nella sua critica a Feuerbach, rivendica un diverso concetto di alienazione religiosa, basato non già sull’autotrascendimento dell’uomo ma sulle condizioni di vita del lavoratore salariato, costretto a guarire la sua frustrazione con la religione. Di qui la necessità di operare una vera e propria analisi dell’economia borghese: nella pars destruens della sua critica Marx intende decostruire le categorie proprie dell’economia del capitale, e nella pars construens intende sviluppare un’analisi critica delle condizioni economiche e politiche che condurranno al suo superamento. Questo lavoro critico, iniziato col MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA, ha il suo coronamento nel CAPITALE.
Nonostante il rifiuto della prospettiva idealista Marx utilizza delle categorie mutuate dal pensiero hegeliano per asserire il carattere naturalistico e non dialettico dell’economia politica, L’economia, dice infatti Marx, ha come base la proprietà privata, ma non sa come spiegarlo: non riflette infatti sulle reali condizioni da cui essa deriva, assimilando le leggi del capitalismo alle leggi della natura. Marx ritiene invece che la proprietà privata rappresenta l’esito di un preciso processo storico, e per comprenderne il significato occorre procedere a un’analisi del lavoro umano, che ne è parte. Il lavoro, per Marx, è uno strumento di oggettivazione delle capacità e della creatività dell’uomo, ma nella società capitalistica l’oggettivazione si trasforma in una alienazione  dal lavoro poiché il lavoratore salariato è ridotto ad essere solo una MERCE. Marx elenca quattro forme di alienazione dell’operaio dal proprio lavoro:
alienazione dal prodotto del lavoro
alienazione dall’attività lavorativa
alienazione da sé stesso
alienazione dal genere umano
La condizione forzatamente costrittiva del rapporto di lavoro tra il padrone e il salariato costituisce inequivocabilmente un danno per gli uomini, privandoli della consapevolezza di sé stessi, in quanto il lavoro mercificato toglie al lavoratore la possibilità di trasformare in modo creativo e autonomo la natura.  Il lavoratore salariato non conosce infatti il progetto lavorativo a cui sta prendendo parte, e sopratutto non ha alcuna conoscenza dell’intera filiera produttiva; inoltre non ha alcuna possibilità di manifestare la propria creatività limitandosi a ubbidire agli ordini del padrone. Per questo il rapporto diretto col padrone spersonalizza l’operaio, deprimendo gli stessi rapporti con l’intero genere umano, ridotti a una mercificazione delle competenze individuali.

9.2 - Marx prende le distanze dunque dall’economia classica, colpevole di aver incarcerato le sue concezioni in una visione fenomenica e naturalistica dei rapporti sociali e produttivi, e si rivolge a una prospettiva di tipo dialettico, derivata direttamente da Hegel: Marx non si ferma dunque al fenomeno come apparenza ma va direttamente a ricercare l’essenza interna, la connessione fondamentale delle forme economiche. Scopo di Marx è quello di mettere in evidenza l’esistenza di queste connessioni, vedendo la vita economica nella sua totalità, le cui parti svolgono hegelianamente un’intensa azione dialettica. Infatti, i quattro momenti fondamentali che fanno parte del ciclo economico (la produzione, la distribuzione, lo scambio, il consumo) esercitano un’azione reciproca continua. Ma Marx non ammette nel suo pensiero il concetto di idea che Hegel esprime quale inizio e fine dell’intero processo, sostituendo all’idealità la realtà della prassi: per questo motivo la filosofia marxiana non si limita ad analizzare le condizioni dell’economia capitalistica, ma i presupposti per il suo dissolvimento. La critica di Marx si concentra dunque sul cosiddetto capitale, ossia l’insieme dei beni e degli acquisti in un processo produttivo, nei suoi diversi aspetti e articolazioni. Alla base del processo produttivo c’è la MERCE, che è la cellula fondamentale del processo: a prima vista si direbbe un oggetto semplice, ma rivela al suo interno una fitta rete di articolazioni e di contraddizioni che si riflettono nella società. Gli esseri umani hanno trasformato la merce in una divinità, un feticcio, fino a farsi dominare da essa; in realtà occorre smascherare la vera identità della merce, e chiarire che essa è semplicemente un prodotto sociale in quanto prodotto del lavoro degli uomini e serve solo a soddisfare i loro bisogni. La merce ha un doppio valore: un VALORE D’USO, di tipo qualitativo, basato sul bisogno, e un VALORE DI SCAMBIO, di tipo quantitativo, basato sull’interesse. Questo valore è un’astrazione, poiché non ha direttamente a che vedere col valore d’uso della merce, e viene rappresentato dal DENARO, con cui viene stabilito in maniera quantitativa un confronto tra le merci. Rifacendosi all’economista inglese David RICARDO, Marx attribuisce il valore di una merce alla quantità di lavoro necessario alla sua produzione e in particolar modo alla quantità di lavoro socialmente necessario. Qui entrano in gioco diverse variabili, legate per esempio all’età del lavoratore, al sesso, alla sua forza, alla sua efficienza fisica, alle sue capacità e competenze: per poter valutare una merce occorre quindi innanzitutto capire in quale società essa viene prodotta, da chi, in quali condizioni e in quanto tempo: solo così possiamo confrontare realisticamente analoghi tipi di merce. Diversi economisti oppongono a questa concezione di valore quella basata sulle leggi del MERCATO, basate sulla DOMANDA  e sull’OFFERTA: Marx ritiene però che il valore di scambio di una merce dipende da fattori contingenti, come per esempio i gusti degli acquirenti, le tendenze, la scarsità o l’abbondanza di certe merci. Il modo di produzione capitalistico si basa sulla valorizzazione del capitale: infatti la produzione delle merci non è finalizzata al consumo immediato ma allo sviluppo del capitale. La formula del ciclo dell’economia pre-capitalista (M-D-M) si trasforma nella formula (D-M-D’) in cui:
1) nel primo caso la merce M viene venduta in cambio di denaro D per acquistare nuova merce M (M-D-M);
2) nel secondo caso il denaro D viene investito nell’acquisto di una merce M per ottenere una somma di denaro maggiore di quella iniziale D‘ (D-M-D’). 
La somma di denaro che si ottiene nel secondo caso ha quindi un valore superiore a quella iniziale e pertanto si chiama PLUSVALORE. Il plusvalore non nasce però dal denaro o dallo scambio ma viene ricercato da Marx in una merce particolare che il padrone acquista per guadagnare di più, ossia la capacità di produrre, ossia il lavoro dell’operaio. Si tratta della cosiddetta FORZA LAVORO, ossia la merce umana comprata dal capitalista per produrre e guadagnare: il padrone compra il lavoro come una qualsiasi merce, pagando il tempo socialmente necessario all’operaio  salariato per riprodurre la forza lavoro. Questo valore corrisponde al valore dei mezzi necessari al lavoratore per vivere, per far vivere la sua famiglia, per educare i figli. Nel mondo capitalistico questo rapporto si traduce però nello SFRUTTAMENTO del lavoratore, costretto a lavorare, oltre alle ore di lavoro necessarie a produrre la merce con cui sostenere le proprie condizioni di vita, altre ore di lavoro supplementare che Marx chiama PLUSLAVORO: è questa fonte di lavoro non pagato a generare il plusvalore. Il plusvalore pur derivando dal profitto, non si identifica con esso. Marx opera una distinzione tra CAPITALE VARIABILE (cioè il denaro onvestito nella forza lavoro, quindi il salario) e il CAPITALE COSTANTE (cioè il denaro investito nell'acquisto delle macchine e di quanto necessita alla fabbrica per prdourre). Il plusvalore nasce proprio dal salario, copè dal capitale variabile ed è legato quindi al pluslavoro.  Marx chiama SAGGIO DEL PLUSVALORE il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile e SAGGIO lpDEL PROFITTO il rapporto tra il plusvalore e la somma tra capitale costante e capitale variabile.  È evidente che le due formule non coincidono e che il saggio del plusvalore è sempre superiore al saggio del profitto. La principale conseguenza dell'economia capitalista è l'aumento del capitale costante, e la conseguente tendenza del padrone ad aumentare la produzione. Questo è secondo Marx la causa del collasso dell'economia capitalista, a causa della diminuzione del plusvalore e quindi del profitto (legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). Marx individua diverse cause antagoniste che si oppongono a questa legge:
lo sfruttamento della forza lavoro;
la riduzione dei salari;
la creazione di un esercito industriale di riserva a causa della disoccupazione, conseguente alle innovazioni tecnologiche;
l'abbassamento dei costi:8 produzione;
il calo dei prezzi per l'allargamento dei mercato.
Tuttavia, avvisa Marx, anche queste cause non sono rimedi veri e propri ma aggiustamenti, destinati a rivelare ben presto le contraddizioni del capitalismo, prima fra tutti la ciclicità delle CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE cioè l'eccesso di produzione che non viene assorbita dalla domanda dei mercati.queste contraddizioni sono per Marx il segnale del tramonto dell'economia del capitale e l'avvento di una nuova società senza classi e senza stato, in cui non esiste più lo sfruttamento.