martedì 10 maggio 2016

9 - Marx

MARX - LEZIONE 9
La critica dell’economia politica

9.1 - La critica dell’economia politica è la definizione usata dallo stesso Marx per dichiarare la distanza della sua analisi dell’economia capitalistica rispetto a quelle formulate da altri economisti, tra cui Adam Smith. Nella sua critica a Hegel Marx mette in evidenza che all’uguaglianza giuridica tra i cittadini non corrisponde una vera uguaglianza sul piano sociale; inoltre, nella sua critica a Feuerbach, rivendica un diverso concetto di alienazione religiosa, basato non già sull’autotrascendimento dell’uomo ma sulle condizioni di vita del lavoratore salariato, costretto a guarire la sua frustrazione con la religione. Di qui la necessità di operare una vera e propria analisi dell’economia borghese: nella pars destruens della sua critica Marx intende decostruire le categorie proprie dell’economia del capitale, e nella pars construens intende sviluppare un’analisi critica delle condizioni economiche e politiche che condurranno al suo superamento. Questo lavoro critico, iniziato col MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA, ha il suo coronamento nel CAPITALE.
Nonostante il rifiuto della prospettiva idealista Marx utilizza delle categorie mutuate dal pensiero hegeliano per asserire il carattere naturalistico e non dialettico dell’economia politica, L’economia, dice infatti Marx, ha come base la proprietà privata, ma non sa come spiegarlo: non riflette infatti sulle reali condizioni da cui essa deriva, assimilando le leggi del capitalismo alle leggi della natura. Marx ritiene invece che la proprietà privata rappresenta l’esito di un preciso processo storico, e per comprenderne il significato occorre procedere a un’analisi del lavoro umano, che ne è parte. Il lavoro, per Marx, è uno strumento di oggettivazione delle capacità e della creatività dell’uomo, ma nella società capitalistica l’oggettivazione si trasforma in una alienazione  dal lavoro poiché il lavoratore salariato è ridotto ad essere solo una MERCE. Marx elenca quattro forme di alienazione dell’operaio dal proprio lavoro:
alienazione dal prodotto del lavoro
alienazione dall’attività lavorativa
alienazione da sé stesso
alienazione dal genere umano
La condizione forzatamente costrittiva del rapporto di lavoro tra il padrone e il salariato costituisce inequivocabilmente un danno per gli uomini, privandoli della consapevolezza di sé stessi, in quanto il lavoro mercificato toglie al lavoratore la possibilità di trasformare in modo creativo e autonomo la natura.  Il lavoratore salariato non conosce infatti il progetto lavorativo a cui sta prendendo parte, e sopratutto non ha alcuna conoscenza dell’intera filiera produttiva; inoltre non ha alcuna possibilità di manifestare la propria creatività limitandosi a ubbidire agli ordini del padrone. Per questo il rapporto diretto col padrone spersonalizza l’operaio, deprimendo gli stessi rapporti con l’intero genere umano, ridotti a una mercificazione delle competenze individuali.

9.2 - Marx prende le distanze dunque dall’economia classica, colpevole di aver incarcerato le sue concezioni in una visione fenomenica e naturalistica dei rapporti sociali e produttivi, e si rivolge a una prospettiva di tipo dialettico, derivata direttamente da Hegel: Marx non si ferma dunque al fenomeno come apparenza ma va direttamente a ricercare l’essenza interna, la connessione fondamentale delle forme economiche. Scopo di Marx è quello di mettere in evidenza l’esistenza di queste connessioni, vedendo la vita economica nella sua totalità, le cui parti svolgono hegelianamente un’intensa azione dialettica. Infatti, i quattro momenti fondamentali che fanno parte del ciclo economico (la produzione, la distribuzione, lo scambio, il consumo) esercitano un’azione reciproca continua. Ma Marx non ammette nel suo pensiero il concetto di idea che Hegel esprime quale inizio e fine dell’intero processo, sostituendo all’idealità la realtà della prassi: per questo motivo la filosofia marxiana non si limita ad analizzare le condizioni dell’economia capitalistica, ma i presupposti per il suo dissolvimento. La critica di Marx si concentra dunque sul cosiddetto capitale, ossia l’insieme dei beni e degli acquisti in un processo produttivo, nei suoi diversi aspetti e articolazioni. Alla base del processo produttivo c’è la MERCE, che è la cellula fondamentale del processo: a prima vista si direbbe un oggetto semplice, ma rivela al suo interno una fitta rete di articolazioni e di contraddizioni che si riflettono nella società. Gli esseri umani hanno trasformato la merce in una divinità, un feticcio, fino a farsi dominare da essa; in realtà occorre smascherare la vera identità della merce, e chiarire che essa è semplicemente un prodotto sociale in quanto prodotto del lavoro degli uomini e serve solo a soddisfare i loro bisogni. La merce ha un doppio valore: un VALORE D’USO, di tipo qualitativo, basato sul bisogno, e un VALORE DI SCAMBIO, di tipo quantitativo, basato sull’interesse. Questo valore è un’astrazione, poiché non ha direttamente a che vedere col valore d’uso della merce, e viene rappresentato dal DENARO, con cui viene stabilito in maniera quantitativa un confronto tra le merci. Rifacendosi all’economista inglese David RICARDO, Marx attribuisce il valore di una merce alla quantità di lavoro necessario alla sua produzione e in particolar modo alla quantità di lavoro socialmente necessario. Qui entrano in gioco diverse variabili, legate per esempio all’età del lavoratore, al sesso, alla sua forza, alla sua efficienza fisica, alle sue capacità e competenze: per poter valutare una merce occorre quindi innanzitutto capire in quale società essa viene prodotta, da chi, in quali condizioni e in quanto tempo: solo così possiamo confrontare realisticamente analoghi tipi di merce. Diversi economisti oppongono a questa concezione di valore quella basata sulle leggi del MERCATO, basate sulla DOMANDA  e sull’OFFERTA: Marx ritiene però che il valore di scambio di una merce dipende da fattori contingenti, come per esempio i gusti degli acquirenti, le tendenze, la scarsità o l’abbondanza di certe merci. Il modo di produzione capitalistico si basa sulla valorizzazione del capitale: infatti la produzione delle merci non è finalizzata al consumo immediato ma allo sviluppo del capitale. La formula del ciclo dell’economia pre-capitalista (M-D-M) si trasforma nella formula (D-M-D’) in cui:
1) nel primo caso la merce M viene venduta in cambio di denaro D per acquistare nuova merce M (M-D-M);
2) nel secondo caso il denaro D viene investito nell’acquisto di una merce M per ottenere una somma di denaro maggiore di quella iniziale D‘ (D-M-D’). 
La somma di denaro che si ottiene nel secondo caso ha quindi un valore superiore a quella iniziale e pertanto si chiama PLUSVALORE. Il plusvalore non nasce però dal denaro o dallo scambio ma viene ricercato da Marx in una merce particolare che il padrone acquista per guadagnare di più, ossia la capacità di produrre, ossia il lavoro dell’operaio. Si tratta della cosiddetta FORZA LAVORO, ossia la merce umana comprata dal capitalista per produrre e guadagnare: il padrone compra il lavoro come una qualsiasi merce, pagando il tempo socialmente necessario all’operaio  salariato per riprodurre la forza lavoro. Questo valore corrisponde al valore dei mezzi necessari al lavoratore per vivere, per far vivere la sua famiglia, per educare i figli. Nel mondo capitalistico questo rapporto si traduce però nello SFRUTTAMENTO del lavoratore, costretto a lavorare, oltre alle ore di lavoro necessarie a produrre la merce con cui sostenere le proprie condizioni di vita, altre ore di lavoro supplementare che Marx chiama PLUSLAVORO: è questa fonte di lavoro non pagato a generare il plusvalore. Il plusvalore pur derivando dal profitto, non si identifica con esso. Marx opera una distinzione tra CAPITALE VARIABILE (cioè il denaro onvestito nella forza lavoro, quindi il salario) e il CAPITALE COSTANTE (cioè il denaro investito nell'acquisto delle macchine e di quanto necessita alla fabbrica per prdourre). Il plusvalore nasce proprio dal salario, copè dal capitale variabile ed è legato quindi al pluslavoro.  Marx chiama SAGGIO DEL PLUSVALORE il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile e SAGGIO lpDEL PROFITTO il rapporto tra il plusvalore e la somma tra capitale costante e capitale variabile.  È evidente che le due formule non coincidono e che il saggio del plusvalore è sempre superiore al saggio del profitto. La principale conseguenza dell'economia capitalista è l'aumento del capitale costante, e la conseguente tendenza del padrone ad aumentare la produzione. Questo è secondo Marx la causa del collasso dell'economia capitalista, a causa della diminuzione del plusvalore e quindi del profitto (legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). Marx individua diverse cause antagoniste che si oppongono a questa legge:
lo sfruttamento della forza lavoro;
la riduzione dei salari;
la creazione di un esercito industriale di riserva a causa della disoccupazione, conseguente alle innovazioni tecnologiche;
l'abbassamento dei costi:8 produzione;
il calo dei prezzi per l'allargamento dei mercato.
Tuttavia, avvisa Marx, anche queste cause non sono rimedi veri e propri ma aggiustamenti, destinati a rivelare ben presto le contraddizioni del capitalismo, prima fra tutti la ciclicità delle CRISI DI SOVRAPPRODUZIONE cioè l'eccesso di produzione che non viene assorbita dalla domanda dei mercati.queste contraddizioni sono per Marx il segnale del tramonto dell'economia del capitale e l'avvento di una nuova società senza classi e senza stato, in cui non esiste più lo sfruttamento.