martedì 12 luglio 2016

Dialettici e Antidialettici

DIALETTICI E ANTIDIALETTICI

Il secolo XII vede maturare la tendenza dell’allontanamento della schola dal monastero per avvicinarsi alla città. In questo periodo prendono forma le Università, istituite con approvazione papale o imperiale, e al ruolo dello scholasticus va sostituendosi quello di magister o dottore, conferito dall’Università, che permetteva a chi ne veniva insignito di insegnare; le prime Università si chiamarono studi, o studi generali. Proprio nelle Università prende forma il metodo scolastico per eccellenza, diviso tra lectio e quaestio. La lectio è la lettura degli antichi classici, già introdotta con l’enciclopedismo culturale in Boezio, lettura che può assumere il carattere di completezza, di parafrasi o di glossa, a seconda dei casi; la disputatio è la discussione di un problema, la quaestio, si divide in diversi articoli e si conclude con la solutio o determinatio. La caratteristica più interessante del metodo è data dal quodlibet (qualunque cosa) cioè la disponibilità del magister ad affrontare qualsiasi argomento.
L’opera sistematica di Boezio prosegue in questo secolo con la raccolta delle cosiddette sententiae, ossia i pensieri dei Padri latini e greci, di cui va ricordata soprattutto l’opera di Pietro Lombardo, e con le summae, ossia la trattazione integrale di tutti i problemi di un ambito disciplinare disposti secondo un sistema organico e razionale come la Summa Theologica di san Tommaso d’Aquino. Due sono infine le prospettive speculative che si incrociano nel periodo, quella razionalista o dialettica e quella mistica o antidialettica. Tra i dialettici spicca il nome di Pietro Abelardo, tra gli antidialettici quello di Bernardo di Chiaravalle. Il problema più disputato è sempre la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affrontato ora in una doppia versione, dialettica e mistica, ma accanto a questo argomento il rinnovato interesse verso l’aristotelismo porta il problema degli universali, iniziato da Roscellino di Compiègne e Guglielmo di Champeaux, entrambi maestri di Abelardo. Il problema degli universali, già affrontato in forma platonica da Anselmo d’Aosta nasce con la rilettura delle opere aristoteliche e in particolare dell’Organon, curato da Severino Boezio. Il concetto di universale, generi e specie, è contrapposto al concetto di particolare e designa il predicato generale di una cosa (ciò che Scoto Eriugena chiamava “causa primordiale”): albero, uomo, animale, in luogo di questo albero, questo uomo, questo animale. La disputa cerca di chiarire sia il valore dell’universale, sia il suo rapporto con la realtà oggettiva. Quattro sono le risposte che la ricerca dà al problema:

 realismo trascendente, ossia gli universali  sono essenze reali e oggettive a cui le cose partecipano, ma sono anche preesistenti, ante rem nella mente di Dio (secondo l’influsso platonico-agostiniano);

 realismo immanente, ossia gli universali esistono come essenze reali ed oggettive, ma in re, presenti come forme o sostanze nelle cose ( secondo l’influsso aristotelico);

 concettualismo, ossia gli universali hanno solo valore mentale, sono astrazioni e non essenze reali, hanno quindi un valore puramente logico (secondo l’influsso socratico);

 nominalismo, ossia gli universali non esistono se non come semplici nomi che l’uomo usa per questioni di praticità, e senza poterne conoscere l’essenza ( secondo l’influsso scettico e stoico).

La posizione nominalista emerge soprattutto con Roscellino di Compiègne, per il quale gli universali erano semplicemente flatus vocis, soffio di voce, assolutamente privi di realtà oggettiva, in quanto solo gli individui, derivanti  dalle esperienze sensibili e perciò particolari, sono conoscibili dall’uomo. 

PIETRO ABELARDO

L’atteggiamento dialettico di Abelardo emerge nella polemica sugli universali. La soluzione tipicamente realista e platonica (vedi Scoto Eriugena) e sostenuta da Guglielmo di Champeaux, è messa in dubbio da Abelardo che, disputando con il suo maestro Guglielmo, insiste sul carattere di predicato attribuito agli universali quali predicati a più soggetti individuali reali. Per Abelardo l’universale non è una res, una cosa, ma una vox, ossia una parola. Nel caso dell’uomo, il termine universale di uomo si predica a individui diversi ma accomunati da alcune caratteristiche; esso predica a diversi uomini la categoria di uomo nel senso di “stato di cosa”, poiché l’intelletto attribuisce questa qualità riconoscendo uno stato d’essere. Quello abelardiano è un realismo moderato, diverso dal realismo estremo di Anselmo e Guglielmo; alcuni storici invece lo hanno inteso come concettualismo, con preciso riferimento socratico. Malgrado ciò non si può certo definire Abelardo un razionalista, o, peggio, un empirista: la fede e la verità rivelata restano nella filosofia abelardiana ancora un saldo criterio di verità. Questo carattere si evince proprio nella teologia, dove la Trinità e l’Unità di Dio sono trattati problematicamente: la teologia di Abelardo cerca di offrire una prospettiva razionalista al problema della Trinità divina, anche se ciò gli costò l’accusa di eresia. Abelardo cercava infatti di spiegare che l’uomo ha una visione limitata e umana del mistero trinitario, e per questo la terminologia impiegata per designare le tre Persone della Trinità non sarà mai perfetta. I detrattori accusarono Abelardo di modalismo, l’eresia di Sabellio che toglieva realtà alle tre persone della Trinità per farne dei semplici modi di essere di Dio. Per Abelardo il male è peccato e dunque offesa a Dio, infrazione alla Legge Divina. La teologia abelardiana è dunque strettamente legata all’etica, così come l’uomo è legato a Dio. L’elemento di novità che introduce l’etica di Abelardo è il consenso, ossia non è peccato tanto l’azione in sé ma la disponibilità dell’uomo ad acconsentire a un’azione illecita o a un’omissione. Il consenso al male è un gesto di disprezzo verso  Dio.

BERNARDO DI CLAIRVAUX

Sul fronte antidialettico la mistica della Scolastica annovera due scuole molto importanti, quella di san Bernardo e quella dei Vittorini.
Bernardo di Clairvaux (Chiaravalle) era monaco cistercense e Clairvaux, nella Champagne, fu sede di una scuola monastica molto produttiva. Tratto fondamentale della mistica, e quindi anche della scuola bernardiana, era la ricerca del congiungimento con Dio attraverso un processo ascensivo, basato su un progressivo e graduale perfezionamento di sé. A differenza del dialettico, che ricerca il congiungimento con l’Assoluto per vie razionali, il mistico rifugge dalla ragione e dalle sue pretese e si affida all’amore e alla ricerca interiore. Il precetto mistico è chiaro, amare Dio e il prossimo; ma l’uomo decaduto col peccato originale non può comprendere subito questo precetto, se non iniziando dalla sua stessa natura, amando prima se stesso per se stesso, poi amando il prossimo per Dio, e quindi amando se stesso per amore di Dio. Si tratta di una strada attraverso cui l’uomo si libera dagli egoismi e impara ad amare gli altri, arrivando ad amare se stesso e gli altri come creature di Dio. Questo fine rappresenta il vero ricongiungimento a Dio, nell’anima e non nella sostanza, mantenendo perciò inalterata la differenziazione tra Dio e le Sue creature. Tra i discepoli di Bernardo si ricordano soprattutto Isacco di Stella e Guglielmo di Saint Thierry.

I VITTORINI

Quella di Bernardo è una mistica dell’amore, quella della scuola di san Vittore è una mistica della contemplazione, a cui appartengono tra i maggiori sistematici Ugo e Riccardo. La speculazione dei Vittorini si particolareggia nell’esercizio della virtù attraverso tre azioni, cogitare, meditare e contemplare. Il cogitare è una riflessione intorno alla nozione di una cosa, il meditare è l’approfondimento in relazione al cogitare , disvelando i punti più oscuri, il contemplare è infine un atto libero e indeterminato, esplicato in due forme: una elementare, per i principianti, che riguarda le cose naturali, e una avanzata, che riguarda le cose perfette. Questo tipo di misticismo si richiama al neoplatonismo dello Pseudo Dionigi l’Aeropagita.

LA SCUOLA DI CHARTRES

Con la scuola episcopale di Chartres la teologia assume quale appoggio non più  la dialettica, arte  del trivio, ma le scienze della natura del quadrivio. La natura è la base della teologia chartrense proprio in quanto creata da Dio: essa è appunto il luogo della creazione e come tale è il modo migliore per arrivare alla comprensione dell’Assoluto. Testi base della scuola di Chartres sono il Timeo platonico nella traduzione di Calcidio e l’opera di Severino Boezio. Tra i maestri ricordiamo principalmente  Gilberto de la Porrèe, Bernardo e Teodorico di Chartres, Guglielmo di Conches.
Malgrado la struttura speculativa di Chartres sia platonica, la terminologia, essendo boeziana, è praticamente aristotelica: i maestri di Chartres parlano di materia e forma, di essenza (id quo est, ciò per cui una cosa è) e di sostanza  (id quod est, ciò che una cosa è). La materia, detta sylva, è il substrato da cui nascono e si sviluppano tutte le forme, dette appunto forme native; le forme costituiscono l’essenza della materia, il “ciò per cui la materia è” (id quo est) mentre gli alberi e i vari elementi sono le sostanze, il “ciò che la materia è” (id quod est); perché ciò possa essere sono necessarie le forme primordiali, affini alle idee platoniche, che sono nella mente di Dio. Dio è nella teologia di Chartres un principio unificatore e Forma Egli Stesso, forma essendi, appunto, forma dell’essere di tutte le cose.
Tutte e tre le persone della Santissima Trinità sono, secondo Teodorico di Chartres, impegnate nella creazione: il Padre che rappresenta l’Unità, il Figlio che rappresenta l’Uguaglianza, perché è uguale al Padre,  e lo Spirito Santo che rappresenta la Connessione, cioè l’unione del Padre e del Figlio.