domenica 10 luglio 2016

Razionalisti medioevali

RAZIONALISTI MEDIOEVALI

La filosofia scolastica del sec. XII è caratterizzata dalla polemica tra filosofi dialettici e antidialettici. Queste due tendenze raggruppano rispettivamente i filosofi che ricercano una soluzione razionalista per spiegare i misteri della fede cristiana e i filosofi che si affidano invece a una soluzione di tipo mistico. La dialettica è la logica, filosofia intesa aristotelicamente e arte del trivio, vero banco di prova per le disputationes sulle quaestiones tipiche scolastiche, La dialettica medioevale offre tre aree tematiche principali: la dimostrazione dell’esistenza di Dio, la polemica sugli universali e ovviamente il rapporto tra fede e ragione. La figura più rilevante nella  prospettiva razionalista è quella di Abelardo, ma non si possono non citare i contributi della scuola episcopale di Chartres, oltre ai due iniziatori della disputa sugli universali, Roscellino di Compiègne e Guglielmo di Champeaux.
Un esempio tipico, anche se poco noto, della dialettica medioevale e del suo metodo, è la  polemica condotta da Berengario di Tours, poi maestro a Chartres. La tesi di Berengario è  improntata agostinianamente, per cui la dialettica è la scienza delle scienze e non sopporta altra autorità se non quella della ragione. La polemica più spinosa di Berengario riguarda l’Ultima Cena e il dogma della trasformazione del pane e del vino nel  sacrificio dell’Eucarestia.  Nel suo De sacra coena adversus Lanfrancum Berengario ribadisce il principio aristotelico secondo cui gli accidenti o qualità di una cosa non possono sussistere in assenza della sostanza della cosa stessa:  dunque nell’Eucarestia il pane e il vino non si trasformano nel corpo di Cristo, ma rimangono tali anche dopo la consacrazione, poiché è evidente che se gli accidenti o qualità del pane e del vino permangono, la sostanza  non può andare distrutta. Come facilmente immaginabile questa tesi, che andava a impugnare il dogma eucaristico, fu condannata duramente dalla Chiesa.
Avversario di Berengario in questa disputa era Lanfranco di Pavia, avversario della dialettica ma allo stesso tempo dialettico egli stesso, assertore dell’utilità del metodo dialettico a patto che la fede non venga mai  messa in secondo piano.  Tra i maggiori allievi di Lanfranco ci fu Anselmo d’Aosta, che fu influenzato dal metodo del Maestro.

LA DISPUTA SUGLI UNIVERSALI
Roscellino di Compiègne e Guglielmo di Champeaux

Il problema degli universali nasce da un passo delle Isagoge alle categorie aristoteliche di Porfirio, il filosofo neoplatonico allievo di Plotino:

“Intorno ai generi e alle specie, non dirò qui se essi sussistano o se siano posti soltanto nell’ intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni”

Di queste alternative indicate da Porfirio, solo una non trova alcuno spunto nella disputa, quella secondo cui gli universali sarebbero realtà corporee; due sono gli indirizzi sostanziali, il realismo, secondo cui gli universali sussisterebbero al di fuori dell’intelletto, e il nominalismo, che nega realtà agli universali. Si possono schematizzare quattro risposte alla disputa:

realismo trascendente – gli universali esistono come essenze reali, entità oggettive, a cui le cose partecipano; essi sono preesistenti alle altre cose e ante rem nella mente di Dio, che poi ha creato le cose in base a queste essenze (soluzione platonico-agostiniana);

realismo immanente – gli universali sono presenti, in re, nelle cose stesse, operanti in esse e perciò dotati di realtà oggettiva (soluzione aristotelica);

concettualismo – gli universali hanno solo una realtà mentale, esistono come valori di  tipo logico, semplici astrazioni, e quindi assolutamente privi di realtà oggettiva, pur mantenendo la caratteristica universale (soluzione socratica);

nominalismo – gli universali non esistono, essi sono dei semplici nomi di cui ci serviamo per indicare le cose particolari; in quanto alla realtà noi non potremmo mai conoscerla in sé ( soluzione scettica e stoica).

La via nominalistica rappresenta un’alternativa importante nella polemica, la via moderna, contro la via antica del realismo di stampo platonico; in realtà la via moderna desume i suoi contenuti dalla prospettiva ellenistica mutuata da Boezio e Cicerone. Espressione di questa disputa sono due capiscuola: per l’indirizzo nominalistico Roscellino di Compiègne, per l’indirizzo realistico Guglielmo di Champeaux.
Roscellino è la prima singolare figura della disputa, sia perché porta il nominalismo a forme estreme, sia perché di lui abbiamo solo uno scritto, una lettera diretta ad Abelardo sulla questione della Trinità. Non sappiamo se egli scrisse altro e in effetti nessuna altra opera è citata dai suoi maggiori avversari, come Anselmo d’Aosta e Abelardo, ed è proprio in base a quanto si legge nelle loro opere che si riesce a dare un’identità alla speculazione nominalista di Roscellino. Caratteristica di Roscellino, come dei suoi contemporanei dialettici, è la tendenza a considerare l’universale niente più che un soffio di voce, flatus vocis e a improntare la ricerca secondo schemi rigidamente sensibili, da cui la ragione non riesce a liberarsi. Questa posizione conduce Roscellino all’eresia trinitaria che verrà condannata dal concilio di Soissons: identificando persona con sostanza, Roscellino ritiene che le tre persone della Trinità siano Una, accomunate dall’uguaglianza e dalla somiglianza, ma non una sola sostanza, bensì tre sostanze differenti. 
Guglielmo rappresenta il fronte opposto, realista, rispetto al nominalismo di Roscellino. La principale fonte relativa alla disputa sugli universali è ancora una volta la polemica con Abelardo. Guglielmo sosteneva la realtà sostanziale degli universali e affermava che questa realtà si trova in tutti gli individui, per esempio l’universale uomo accomuna i diversi uomini (Socrate, Platone, Aristotele…) aventi elementi qualitativi e accidentali comuni. Abelardo sostiene di essere riuscito a far correggere a Guglielmo di Champeaux, di cui fu scolaro, il realismo trascendente in realismo immanente, affermando che gli universali sono presenti nelle cose in maniera individuale e non essenziale, seguendo cioè la caratteristica “moltiplicativa” degli elementi materiali. In realtà però questa correzione non mutava l’assetto fondamentale della speculazione realista di Guglielmo, in quanto gli universali erano comunque presenti nelle cose e reali, anche se in re, incorporati nella cosa singola.
Nella disputa sugli universali non può però essere dimenticati un trattato, il De Generibus et Speciebus, originariamente attribuito ad Abelardo e poi più esattamente a Joscellino (Gausleno) di Soissons. Nel trattato si definisce la specie come l’intera collezione di individui aventi la stessa natura: questa collezione è dunque detta una sola specie, un solo universale, una sola natura. Per l’individuo la specie è la materia, l’individualità la forma, per esempio Socrate è composto dalla materia uomo e dalla forma Socrate, mentre Platone è composto da una materia simile, uomo, ma da una forma diversa, Platone: questa materia socratica umana, questa “socratitas” non può esistere al di fuori della forma Socrate, così come la materia o essenza uomo non avrebbe valore se slegata da Socrate. Posto dunque che la specie è la materia che accomuna qualitativamente tutti i possessori di certi requisiti, e posto che la forma è l’individualizzazione o essenza che diversifica gli individui, si può osservare l’impossibilità di spiegare il concetto di genere e di specie al di fuori della cosa a cui si sta attribuendo, predicando, l’universale in questione e, proprio a questo concetto si avvicina la speculazione di Abelardo.

PIETRO ABELARDO

Abelardo è la più grande figura del razionalismo medioevale del secolo XII, e la sua dottrina e il suo metodo si possono già vedere in una delle sue prime opere, il Sic et Non, una raccolta di sententiae dei Padri della Chiesa, disposte come risposte ad altrettanti problemi in senso affermativo o negativo, donde il titolo. Quest’opera  commisura già di per sé il metodo abelardiano, ovviamente aspramente denunciato e bollato dalla Chiesa, poiché ne accusava i malintesi, anche se il vero scopo del Sic et Non era quello di mostrare i problemi e perciò la necessità di risolverli.  Se il Vecchio e il Nuovo Testamento vanno letti con l’obbligo di credere, i testi patristici vanno letti con libertà di giudizio, infatti gli eventuali errori dei primi possono essere stati causati da una interpretazione o da una traduzione non corretta, mentre i secondi riportano delle opinioni, e tutte le opinioni sono suscettibili di libertà di giudizio. Per questo Abelardo è in un certo qual modo considerato l’innovatore del metodo della quaestio scolastica.
Per Abelardo, come per tutti i razionalisti medioevali, la ragione non sopporta altra autorità e la sua ricerca deve essere condotta liberamente. Bisogna affidarsi all’autorità finchè la ragione resta nascosta, dum ratio latet, poi diventa inutile, anche se Abelardo ammette che la ragione umana è limitata nel cogliere le cose divine. Questo limite ovviamente non impedisce alla ragione di essere utilizzata per capire e difendere la fede, in quanto non si crede a una cosa perché Dio l’ha detta ma perché ci si è convinti razionalmente che questa cosa è vera.
Sul problema degli universali Abelardo parte da Aristotele, definendo l’universale “ciò che può essere predicato di più cose”. Per Abelardo l’universale non è però una cosa, una res, ma una parola, una vox, non nel senso fisico di parola, che sennò sarebbe una res, ma nel senso di significato o di discorso (sermo). La domanda che Abelardo si pone è infatti “perché usiamo questi nomi? perché l’intelletto associa immediatamente certi nomi a certe realtà?”; infatti l’universale si attribuisce, secondo definizione, a più cose, accomunate da diverse caratteristiche. Ma c’è di più, poiché l’intelletto che predica un universale a più cose sta riconoscendo lo stato d’essere delle cose stesse, stato d’essere che ha valore reale soltanto in relazione alle cose a cui è stato attribuito.
Questa posizione non impedisce assolutamente ad Abelardo di riconoscere la fede e la rivelazione come supremo criterio di verità, anche se l’uso del metodo razionalistico lo porta a essere accusato di eresia a proposito della sua spiegazione del mistero della Trinità. Come si ricorderà Abelardo denuncia la limitazione della ragione umana nella conoscenza del mistero della fede, e per mostrare questo egli interpreta il dogma trinitario differenziando le Persone nella Loro Sostanza: ciò gli valse l’accusa di modalismo, l’eresia di Sabellio che aveva tolto realtà alle tre persone della Trinità assumendole come modi di essere del Padre.
La prospettiva razionalista influenza anche l’etica di Abelardo, e soprattutto riguardo il problema del male. Per Abelardo il male è un peccato, quale offesa a Dio, ma il male non si esplica nell’atto del peccare quanto nel consenso, ossia nella disponibilità che l’uomo accorda al compimento di un’azione impropria o a un’omissione.

LA SCUOLA DI CHARTRES

La speculazione scolastica del sec. XII non assume solo il tipico risvolto dialettico portato avanti da Abelardo, Roscellino e Guglielmo, ma assume anche una prospettiva naturalistica con la scuola episcopale di Chartres, fondata da Fulberto. La prima grande figura della scuola di Chartres è quella di Bernardo, grammatico e letterato, seguace dell’enciclopedismo culturale introdotto da Boezio; ma di lui sappiamo poco, e per via indiretta (attraverso la testimonianza del Metalogicus di Giovanni di Salisbury) poiché non ci è pervenuto nessun suo scritto.  Le tematiche della scuola di Chartres sono portate avanti soprattutto dalla figura di Gilberto de la Porrèe o Porretano, la più grande figura della scuola, e sono essenzialmente di ispirazione platonica, ma nello stesso tempo vengono utilizzati concetti aristotelici, evidentemente mutuati da Boezio: essi parlano infatti di materia e di forma, di sussistenza o essenza (id quo est, ciò per cui una cosa è) e di sostanza (id quod est, ciò che una cosa è).  La natura o sylva è il sostrato fondamentale di tutte le forme, dette appunto forme native poiché nascono e si sviluppano da essa. La forma o essenza è ciò per cui una cosa è: per esempio un albero è ciò per cui la natura è, in quanto l’albero è una delle forme della materia. Il singolo albero in sé è invece un ente individuale e rappresenta la sostanza, ciò che la natura è. Perché ciò sia possibile occorre che accanto alle forme native ci siano le forme primordiali, affini alle idee platoniche, idee eterne delle cose che permettono che le forme native si riproducano nella materia. Lo stesso Dio è forma: infatti tutte le idee primordiali, le forme eterne, sono unificate nella mente di Dio, tanto che Dio può essere considerato la Forma, per eccellenza, dell’essere, forma essendi.
Il fratello minore di Bernardo di Chartres, Teodorico, è autore a differenza del fratello di un’opera didattica, l’Heptateucon o manuale delle sette arti liberali, di cui si servì per il proprio insegnamento, ma anche di un commento al De Trinitate di Boezio. Nella speculazione di Teodorico è presente una forte influenza del pensiero di Scoto Eriugena, principalmente riguardo il problema del dogma trinitario. Nel creazionismo tipico dei maestri di Chartres il lavoro della creazione vede impegnate tutte e tre  le persone della Trinità divina. In Teodorico, il Padre rappresenta l’unità, il Figlio, poiché è stato creato dal Padre a Sua immagine e somiglianza, rappresenta l’uguaglianza, mentre lo Spirito Santo rappresenta la connessione, poiché unisce il Padre e il Figlio. Il Padre è il creatore della materia, il Figlio è il creatore della forma, lo Spirito Santo è il creatore della connessione di materia e forma, da cui sorgono tutti gli individui del mondo. Tra gli allievi di Bernardo vi fu Guglielmo di Conches autore delle Glosse al Timeo, in cui identifica, con qualche incertezza, lo Spirito Santo con l’Anima del Mondo di cui Platone appunto parla nel suo dialogo.
L’esponente più famoso della scuola di Chartres è senza dubbio Gilberto Porretano, allievo di Bernardo. In Gilberto la fede rappresenta la percezione della verità di una cosa. La fede precede indubbiamente la ragione ma solo nel dominio teologico, mentre la segue nel dominio filosofico. Gilberto esclude la necessità dalle cose create, che sono appunto mutevoli, mentre la considera per le cose divine: qui la fede precede doverosamente la ragione. In esse non crediamo poiché sappiamo, ma sappiamo in quanto crediamo (non cognoscentes credimus sed credentes cognoscimus).