venerdì 12 agosto 2016

Bruno

GIORDANO BRUNO

La filosofia di Giordano Bruno è una filosofia della natura, e la religione di Bruno è una religione dell’infinito. Quella bruniana è una speculazione che porta avanti una testimonianza di vita interiore, testimonianza che si eterna nella condanna a morte subita dal filosofo. Bruno nasce nel 1548 a Nola e giovanissimo entra a far parte dell’ordine dei Domenicani. Diciottenne ebbe i primi dubbi di carattere teologico e speculativo e, entrato in conflitto con i suoi superiori, fu costretto a lasciare l’abito e a riparare per un breve periodo di tempo a Ginevra, poi a Tolosa, e quindi a Parigi, dove incontrò molti esponenti dell’ambiente riformista. Fu quindi a Oxford, dove venne a contatto con la corte elisabettiana, e di nuovo a Parigi, che lasciò subito perché inviso agli aristotelici locali; indi riparò in  Germania.
Fu mentre Bruno era in Germania che il patrizio veneziano Giovanni Mocenigo invitò il filosofo di Nola presso la sua corte, affinchè lo istruisse sull’arte magica. Bruno accolse l’invito, poiché riteneva Venezia un luogo liberale e sicuro: ma si sbagliava. Mocenigo gli aveva infatti teso una perfida trappola, e, giunto in territorio veneziano, Bruno fu arrestato e consegnato ai giudici dell’Inquisizione.
In un primo tempo Bruno si sottomise e riuscì a dimostrare la fondatezza delle sue teorie; ma fu dunque condotto a Roma, dove restò in carcere per sette anni, e dove subì il secondo fatale processo. Il filosofo non ritrattò, anzi, guardò con coerente disprezzo i giudici che lo interrogavano. Fu quindi condannato a morte come eretico. Salì sul rogo, nella piazza romana di Campo dei Fiori, il 17 febbraio 1600, a cinquantadue anni.
Di Bruno restano molte opere, tra cui:

una commedia del 1582, Il Candelaio;
alcuni scritti lulliani; 
altri scritti mnemotecnici;
scritti didattici, dove viene esposto il pensiero di altri autori;
scritti magici;
scritti di filosofia naturale;
scritti morali.

Tra gli scritti di filosofia naturale citiamo: De la causa, principio et uno; De l’infinito, universo et mondi; De minimo; De monade. Come si vede Bruno coltivò moltissimi interessi, ma va detto che la sua grandezza consiste principalmente nella lotta per svincolare la sapienza dalle superstizioni e dai dogmatismi che venivano imposti dall’ambiente teologico. Bruno è il filosofo della libertà della natura e non stupisce che a un certo punto egli avesse sentito il chiostro come una prigione angusta. Abbagnano descrive di Bruno l’amore per la vita nella sua potenza dionisiaca, nella sua inevitabile espansione. Detestava i pedanti, i creduloni, gli accademici, un po’ come Socrate detestava i sophistés e lodava i veri sòphoi, i veri sapienti. Nel Candelaio egli descrive la città che lo vide giovinetto, con gli imbroglioni e i pedanti, che poi ritrova nella vita di tutti i giorni. Bruno fu un vero filosofo della natura, ma la sua arte non si placò nel morbido naturalismo di Telesio, anzi, fu impeto lirico e religioso, che ispirò a Bruno anche versi poetici. La natura di Bruno era una natura viva e animata da forze che potevano e dovevano essere conosciute e ammaestrate dall’uomo. Così si spiega facilmente l’interesse per la magia e per la filosofia occulta e l’abbandono della semplice ricerca naturalistica proposta da Telesio. Probabilmente la filosofia bruniana segna anche una battuta d’arresto nel naturalismo scientifico rinascimentale, perché la ricerca del filosofo di Nola è ben lontana dalla corretta ricerca naturale e dal rigore delle scienze matematiche: ma Bruno fu veramente filosofo della natura, perché il suo trasporto verso la natura è un trasporto mistico in cui il filosofo si fa egli stesso natura. Possiamo definire l’amore bruniano per la natura un raptus mentis, una contractio mentis, un furore eroico, in cui il termine eroico vuole proprio derivare dall’eros greco, assimilando nel suo etimo quel coinvolgimento che Bruno esprime nella sua speculazione.
L’accostamento bruniano alla religione potrebbe ricordare la dottrina averroista della doppia verità: ma così non è. Quantunque Bruno ricalchi molto da vicino la separazione averroista di fede e ragione, il suo interesse verso le religioni positive è nullo, perché ritenute coacervo di inutili superstizioni e false credenze. A Bruno interessa una sola religione, quella della natura; la religione positiva la lascia volentieri “ai rozzi popoli che debbon esser governati” così come Toralba nel bodiniano Colloquium Heptaplomeres. Gli strali del filosofo nolano non si limitano, come si potrebbe pensare, al solo cattolicesimo, ma investono lo stesso cristianesimo riformato che Bruno conobbe molto bene nelle sue peregrinazioni esistenziali in tutta Europa: a Ginevra fu addirittura impressionato dall’assoluta mancanza di libertà del calvinismo, tanto da fargli meditare un ritorno al cattolicesimo.
La religiosità bruniana è, come quella disegnata da Pico della Mirandola, una religione dell’Unità. Bruno crede nel tramandarsi di una sapienza antica, le cui origini affondano fino a Mosè, che accorda il pensiero greco, orientale e cristiano; una religione non immune da correzioni, perché ora l’uomo è più vecchio e quindi più esperto, ma semplicemente basilare e fondata sulla natura e su un principio unitario. Bruno pone dunque nella natura il termine ultimo della sua speculazione, richiamando come l’amore per i classici antichi sia un rigermogliare di quelle correnti filosofiche che già in passato si rivolgevano alla natura stessa.

LA RELIGIONE DELLA NATURA

Nella sua indagine del mondo naturale, che costituisce l’essenza del suo pensiero, Bruno rivendica un’assoluta indipendenza da cause di natura teologica. Come Telesio studiava la natura juxta propria principia, anche Bruno opera in modo da allontanare la sua speculazione da ogni connivenza esterna: egli ubbidisce al principio neoplatonico che l’Assoluto è inconoscibile all’uomo e a lui celato e irraggiungibile. Dio non si può conoscere dai suoi effetti come Apelle dalle sue statue; il principio divino è fuori dal raggio d’azione della conoscenza umana, al di sopra della nostra intelligenza, e, per questo, al filosofo non è utile cercare Dio fuori dalla natura. Dio deve essere visto come principio immanente nella natura, ossia identificato con la natura stessa. A noi comuni mortali non è dato conoscere Dio, se non relativamente a ciò che Dio non è, poiché le sue attribuzioni sono lontane dal comprendere umano; all’uomo è però dato vedere la manifestazione divina nella natura da Lui creata, e solo la natura rivela all’uomo la grandezza del Principio Creatore, che è per l’uomo natura stessa. Ed ecco che Dio diventa causa e principio: causa perché ha originato le cose del mondo, pur restando da esse distinto; principio perché costituisce delle cose create l’essere stesso. In ogni caso Dio non trascende la natura: la natura o è Dio stesso o è la manifestazione delle virtù divine, scrive Bruno.
Dio è l’artefice interno della natura, intelletto universale, causa intrinseca ed estrinseca. Questo ruolo porta Bruno a concepire la natura come un Tutto animato, quasi un gigantesco animale, che Dio crea, forma e dirige. Una è la forma e una è la materia. Nel suo pampsichismo, Bruno estremizza la speculazione di Avicebron: la forma è una e viene da Dio, ma anche la materia è una, ed è l’oggetto della materia, ma anche principio attivo, che si crea e si trasforma. Materia e forma sono identità nell’azione di Dio, che plasma e forma la materia, ma al tempo stesso tra da essa la materia per creare. Forma e materia, potenza e atto, causa ed effetto, coincidono in Dio, natura naturante e alò tempo stesso naturata. E questa unificazione ha un nome che dice tutto: Universo (vertere in Uno). Così come Parmenide Bruno riconosce nell’universo un Tutto immobile.
I concetti di materia e forma intervengono così nella speculazione bruniana per definire il carattere di quella identità che si esprime nell’Uno. Posto ciò inizia il compito teologico vero e proprio della filosofia bruniana, ma questo compito, che si richiama al pensiero di Cusano, poggia su una base inderogabile, ossia la negazione della conoscenza di Dio nella Sua trascendenza. Bruno è dunque obbligato ora a seguire il disegno cosmologico parmenideo, sottraendogli però la finitezza del Tutto, e sostituendola con l’infinità che desume dalla speculazione di Cusano. E con Cusano Bruno si ritrova a delineare il ruolo divino come coincidentia oppositorum. Nell’universo coincidono il massimo e il minimo, ed è caratteristica del pensiero bruniano l’ammissione che ogni parte di questo universo è in realtà al tempo stesso la parte e il tutto, poiché ogni sua parte è Dio che si rivela. Ma ciò che Bruno porta avanti è la sua lotta per l’infinità del mondo, che contrappone al rigido schema aristotelico.
Bruno difende Copernico e lo fa con cognizione di causa, perché il sistema copernicano, eliocentrico, si dimostra fruibile alla spiegazione bruniana dell’infinità del mondo; ma Bruno non insiste troppo sul vantaggio scientifico della teoria, anzi, qualcuno ritiene che non l’avesse davvero capita, piuttosto a Bruno preme dimostrare come l’astronomia aristotelica imponesse l’infinità come incompiutezza, tesi rigettata da Bruno che ritiene invece ordinato e preciso l’infinito. Il centro del mondo è ovunque, dice Bruno, e la circonferenza in nessun luogo; ma si potrebbe anche dire che il centro è in nessun luogo e che la circonferenza è ovunque. Perfetto non è ciò che è chiuso e determinato, ma ciò che comprende infiniti mondi, infiniti generi, infinite specie, in poche parole tutto. E Bruno osserva una infinità doppia, perché parla di infinità divina, che è in tutte le cose e in ogni loro parte, e infinità dell’universo che è solo tutto in tutto; ma osserva anche una doppia perfezione, in essenza, poiché Dio è natura naturans, e in immagine, poiché Dio è natura naturata.  Questa duplice perfezione si accentua nell’anima principio del mondo, che offre infinita vita e infinita potenza in Dio.

IL MINIMO E LA MONADE

La concezione di Bruno è rigidamente monistica, e tutto si riduce a un Dio-Natura. Ma la domanda sorge subitanea: come conciliare l’infinità del tutto con la molteplicità delle cose? Nel De la causa Bruno dice che uno è l’essere, altri sono i modi d’essere, e che ogni singola cosa è rappresentata dal tutto dell’universo, che comprende sia l’essere sia i suoi modi, mentre ogni cosa singola non ha tutti i modi di essere. Se però l’essere è uno e immutabile come si spiegano tanti modi di essere? A questo interrogativo rispondono due opere, il De triplici minimo et mensura, e il De monade numero et figura. Il primo si avvale di un metodo matematico, il secondo si avvale di un metodo teologico. In pratica il primo studia il rapporto tra uno e molti dal punto di vista umano, il secondo lo analizza dal punto di vista divino.
Il De minimo parte da un presupposto animistico e magico, ed è lontano dalla matematica propriamente intesa. Il minimo bruniano non è semplicemente la più piccola parte della natura ma anche il suo principio attivo, dove tutti i generi e le specie sono rappresentati. Non esiste per Bruno un solo minimo nella natura, ma tanti minimi quanti sono gli aspetti della natura stessa. Se il punto è il minimo della superficie, l’atomo è il minimo del corpo, come il sole è il minimo per il sistema planetario: ogni minimo si unisce e si separa dagli altri e con gli altri interagisce. Tutte le cose hanno un minimo, una unità a cui esse tendono inevitabilmente nella conservazione del proprio essere. Il minimo mostra dunque l’unità delle cose nella molteplicità e la molteplicità delle cose nella loro unità. La via del minimo è una via falsamente matematica, ed è una via tipicamente umana per intendere il rapporto tra il tutto e le sue parti.
Il processo divino attraverso cui tale rapporto si costituisce viene estrinsecato del De monade. Fedele alla tradizione neopitagorica Bruno acconsente alla derivazione geometrica del mondo naturale dalla decade, a sua volta derivante dalla monade. Uno per Bruno, come per i Neoplatonici e i Neopitagorici, è l’infinito, una l’essenza, una la causa prima, uno il minimo indivisibile; uno è il sole nel macrocosmo e uno è il cuore nel microcosmo. E l’uno è rappresentato dal circolo. Dall’uno emana la diade, dalla diade la triade e così via, fino alla decade. La monade è il punto, la decade la linea, la triade il triangolo, e così via. La diade rappresenta le due anime dell’uomo, intellettiva e sensibile; la triade rappresenta i tre principi dell’unità, della verità e della bontà. Procedendo su questa strada Bruno riduce tutto l’universo alla sua essenziale unità, rappresentata dalla perfezione della monade, da cui tutto numericamente deriva.

L’INFINITO E L’UOMO

Questa derivazione di Bruno ha un carattere poetico e fantastico. Bruno vive da protagonista il rapporto tra uomo e natura e la sua gnoseologia risulta pervasa da quell’amore assoluto per la vita che lo porta a odiare i limiti e le catene, per liberare quella forza dionisiaca che è la forza della stessa natura in continua espansione. Ai gradini mistici di Plotino, compiuti nella risoluzione ascetica, Bruno ne aggiunge due, la trasformazione dell’uomo nella natura e la trasformazione della natura nell’uomo. Grado ultimo della mistica bruniana non è dunque l’identificazione con Dio ma con la res, con la realtà, cioè con la natura. Compito finale dell’uomo è l’identità con la sostanziale unità della natura. Questo compito viene raffigurato dal mito di Atteone. Il cacciatore Atteone, punito dalla dea Artemide perché colpevole di averla vista nuda, è l’uomo stesso che contempla la natura e ne resta catturato, come Atteone che, trasformato in cervo da Artemide, viene cacciato dai cani della stessa dea, trasformandosi da cacciatore in cacciato: così l’uomo, da contemplatore della natura, diventa egli stesso natura, fondendosi nella sua sostanziale unità. E il furore di Atteone è eroico e dominato dalla passione, come pure eroico deve essere l’appetito umano verso la natura. Questo non è solo il compimento della vita teoretica, ma anche di quella pratica. Nell’azione divina necessità e libertà coincidono; anche l’uomo è libero, ma la sua libertà è imperfetta, e non coincide con la necessità. La libertà umana deve quindi identificarsi con la necessità della natura, ossia il fato, che è ineluttabile: e compito dell’uomo è l’accettazione dell’inesorabilità della necessità della natura. Bruno ritiene che la libertà dell’uomo di scegliere di conformarsi all’ordine naturale, è solo il risultato dell’imperfezione che lo caratterizza.
In realtà il filosofo di Nola non intende qualificare gli elementi che allontanano l’uomo da Dio ma quelli che invece lo avvicinano. Bruno depreca l’età dell’oro, dove l’uomo viveva in ozio, e invece si rivela fautore delle miserie umane che hanno acuito la fabrilità e l’industriosità. Solo facendo l’uomo si conserva Dio della natura. E, in quanto tale, l’uomo in preda all’eroico furore si libera della materialità terrena per rivolgersi al Dio-natura.