martedì 16 agosto 2016

Filosofia e politica

FILOSOFIA E POLITICA
Storicismo e Giusnaturalismo

La speculazione umanistica, sul problema uomo, rappresenta l’esigenza di rinnovamento politico espressa dalla filosofia rinascimentale. Il rinnovamento dell’uomo non riguarda infatti solo l’uomo come individuo, ma anche l’uomo come animale sociale: ecco perché i filosofi politici del Rinascimento iniziano la loro indagine mirando al recupero dell’identità dell’uomo nella storia, intesa come storia delle civiltà umane, e perciò indirizzano la loro ricerca analizzando la condizione delle società e dei meccanismi attraverso cui si sono evolute.
Due sono le tendenze che si incrociano nella filosofia politica rinascimentale, quella storicista, che ricerca la società delle origini nel nome di un ritorno al principio, e quella giusnaturalista, che mira alla rifondazione della società sulla base dell’elemento originario, ossia la natura. Le due tendenze si riferiscono rispettivamente alle filosofie neoplatonica e stoica: per i Neoplatonici la ricerca dell’uomo culminava nella riduzione a un principio, l’Uno, da cui tutto emanava e a cui tutto inevitabilmente sarebbe tornato; per gli Stoici l’ordine naturale dell’universo costituiva un principio inevitabile e inesorabile, su cui necessariamente ogni elemento si fondava. Per lo Stoicismo medioevale, questa necessità dell’ordine naturale si accompagnava da un lato a Dio, dall’altro alla ragione. E proprio su questo punto che si inserisce la speculazione rinascimentale.
La prospettiva storicista trova tra i suoi maggiori esponenti Machiavelli, mentre la prospettiva giusnaturalista è rappresentata da Altusio, Grozio e Bodin.

LO STORICISMO
Machiavelli, Guicciardini e Botero

MACHIAVELLI

Niccolò Machiavelli è considerato l’iniziatore dell’indirizzo storicistico. La sua vita speculativa fu dominata dal desiderio di creare una comunità politica italiana, e a tal fine Machiavelli indirizzò i suoi studi verso la ricerca delle origini della storia italiana. Due opere fondamentali riassumono gli intendimenti dell’uomo Machiavelli: il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Proprio nella terza parte dei Discorsi ritroviamo quella necessità di ridurre tutto ai principi, che è una caratteristica della filosofia del Rinascimento. Non c’è dubbio sul fatto che Machiavelli fu uomo del suo tempo: la strada che il filosofo indica alle società che vogliono salvarsi dalla decadenza e dalla rovina è il ritorno alle proprie origini, perché le origini hanno sempre qualcosa di buono che vale la pena recuperare. Machiavelli spiega che le comunità antiche sentirono spesso la necessità di richiamarsi ai propri principi; Roma, per esempio, dopo ogni sconfitta faceva in modo che i propri cittadini si riconoscessero nelle proprie vestigia, e molte istituzioni romane venivano mantenute e tramandate proprio al fine di richiamare il cittadino alla sua origine politica. Ma non furono solo le comunità politiche ad avvertire la necessità di un ritorno al principio, le stesse comunità religiose si salvano con un ritorno alle origini: è il caso delle tendenze religiose “in pauperitate et humilitate” che San Francesco e San Domenico promossero nel medioevo scolastico, riportando l’attenzione dei fedeli al Cristianesimo delle origini. Il ritorno ai principi invocato da Machiavelli esige però due condizioni:

l’oggettività storica, ossia che i principi a cui ci si rivolge siano chiaramente tali e rettamente intesi;
il realismo politico, ossia che siano riconosciute nella verità effettuale le condizioni entro cui si debba compiere tale ritorno.
Sono queste due condizioni a costituire lo sforzo di Machiavelli, che cerca innanzitutto di valutare globalmente la storia cercando in essa quel substrato fondamentale e immutabile costituito dalla natura umana, e secondariamente di rivolgersi alla realtà politica circostante e reale, stando ben attento ad allontanarsi da tutti i modelli di stato la cui effettiva realizzazione assumesse un carattere utopistico o irraggiungibile. Sul fronte dell’oggettività Machiavelli non ha dubbi nell’indicare quale modello di repubblica quella di Roma antica: Machiavelli è però fortemente realista e avverte dell’impossibilità di eguagliare un simile assetto, se non rifondando la concezione di stato assommando tutto il potere nelle mani di una sola persona, che egli delinea nel Principe. Il filosofo non offre alternative e indica chiaramente agli stati che desiderano riscattarsi la strada verso la loro transizione a principati, tenendo conto del rischio del prodursi di una tirannide. Ma Machiavelli ammonisce che chi conosce davvero la storia conosce anche il rischio dell’esercizio di un potere oppressivo e fine a se stesso, e si tiene lontano da una strada facile e viziosa, preferendo quella difficile e sicura della virtù e del buon governo. Purtuttavia, il politico che ha intrapreso la strada non può tornare indietro, e avrà a che fare con una pluralità di uomini e di volontà. L’uomo, dice Machiavelli, non è naturalmente buono o cattivo, ma può diventare l’uno o l’altro. Il politico intelligente non può fidarsi della bontà dei suoi sudditi, ma deve agire pensando che tutti gli uomini siano cattivi. Certo ci sono anche espedienti crudeli, e contrari alla stessa morale cristiana: Machiavelli si rende conto dell’impossibilità di evitarli e suggerisce in tal caso al principe di restare privato cittadino per non esercitare siffatte efferatezze. E se proprio si deve agire, il filosofo indica crudamente al principe la strada peggiore e senza mezze misure che non servono a nulla.
Il motivo di una scelta tanto azzardata deriva dal fatto che il compito politico trova la sua giustificazione e la sua norma in se stesso e non all’esterno. Il limite dell’agire politico si segnala laddove l’ordine costituito non può essere più mantenuto con mezzi estremi ed efferati, perché tali mezzi finiscono col ritorcersi contro chi li adopera, rendendo il mantenimento dello stato impossibile e precario.
Il compito del politico implica la libertà dell’uomo e la problematicità della storia. Machiavelli, tentato dall’affermare che la sorte umana è governata da Dio e dalla fortuna, è costretto a rigettare questa ipotesi perché renderebbe vana ogni libertà e costringerebbe l’uomo a lasciarsi governare dalla sorte. L’uomo in realtà è libero per metà dall’azione della fortuna, e le sue capacità di gestione di questa metà derivano dal modo in cui egli si rapporta con la propria storia. Richiamandosi al passato l’uomo eviterà di incorrere nelle stesse situazioni che lo hanno condotto a scelte sbagliate e dannose. E qui Machiavelli avverte della problematicità dell’incedere storico: l’uomo non sa dove la storia lo porta, ma deve sapere quale sia il suo posto, il suo ruolo, la sua identità nel cammino storico. Questo riconoscersi nella storia implica uno stato di attività. Machiavelli ammonisce gli uomini a non lasciarsi andare, a non abbandonarsi al corso passivo degli eventi, e li esorta a partecipare e a impegnarsi nella storia.

GUICCIARDINI

Francesco Guicciardini è l’autore dei Ricordi Politici e Civili, in cui emerge chiaramente la tendenza realista. Guicciardini invita l’uomo a non occuparsi dei problemi di natura soprannaturale, e a curare invece ciò che lo circonda. Per questo egli rigetta tutto ciò che non è fisico, e in particolare l’astrologia, in quanto per l’uomo è impossibile conoscere il proprio futuro.  L’interesse di Guicciardini è per l’uomo, soprattutto per l’uomo politico. L’uomo non va giudicato per come è o per il grado che riveste in società, ma per il modo in cui svolge il proprio compito: non si può giudicare un uomo in base alla sua sorte, perché è evidente che è casuale il ruolo che a noi ci viene attribuito; ma si deve giudicare l’uomo in relazione al modo in cui, di fronte alla propria sorte, svolge il proprio ruolo nella società. Strumenti fondamentali della condotta retta dell’uomo sono la riflessione e l’esperienza. Come Machiavelli, Guicciardini ammonisce l’uomo a non lasciarsi passivamente trasportare dagli eventi, ma lo invita a partecipare e ad agire, vivendo il proprio ruolo con consapevolezza. Egli apprezza l’uomo che ha fede, perché chi ha fede crede e lotta per le sue convinzioni: chi ha fede, dice Guicciardini, conduce cose grandi. Tuttavia la fede da sola non basta. Dio ha creato il mondo basandosi su un ordine provvidenziale, che all’uomo è reso impenetrabile e perciò all’uomo non è dato sapere perché certi fatti accadono.
Anche Guicciardini, relativamente alla natura umana, osserva che l’uomo non è propriamente cattivo, però ammette che è fragile e perciò è facile deviare dalla retta via, poiché le occasioni di sbagliare sono infinite- Dunque è buona norma per il politico non fidarsi troppo e governare pensando a tenere gli occhi aperti. Un buon governo si fonda più sulla severità che sulla remissione, e il governante deve fidarsi solo di pochi e conosciuti uomini, e possibilmente evitare di mostrarsi diffidente.
Il divario tra Machiavelli e Guicciardini si fonda sul giudizio di natura storica, assente nel pensiero di Guicciardini, che preferisce incanalarsi verso un giudizio di tipo politico.

BOTERO

Giovanni Botero raccoglie l’eredità della filosofia di Machiavelli dando corpo alla sua opera fondamentale in dieci libri, Della Ragion di Stato. Il concetto di ragione di stato è appunto una eredità del pensiero machiavelliano. Cosa è la ragione di stato? Si tratta dello strumento per fondare, conservare e ampliare un dominio. Come si ricorderà la speculazione politica di Machiavelli era giunta proprio a ritenere che il compito politico trovasse la giustificazione e la sua norma al proprio interno. Ma Botero va oltre, e include fra le esigenze della ragione di stato le esigenze della morale. Per questo motivo egli ritiene che il principe debba essere figura elevata e virtuosa e garante dei rapporti tra i sudditi e tra essi e il principe stesso. Egli non dovrà mai agire per amicizia ma per interesse, e dovrà mostrarsi cauto per conservare il potere. Botero, preoccupato dal mantenimento dello stato, invita il principe alla prudenza, e lo esorta a rinunciare a progetti grandiosi e inconcludenti. Egli preferisce la prudenza all’astuzia, poiché la prudenza cerca l’onesto rispetto all’utile, mentre l’astuzia calcola solo l’interesse. L’astuzia ha un rischio: è un meccanismo fragile e complesso, che potrebbe guastarsi. Botero infine consiglia al principe di circondarsi di teologi, al fine di conformare le scelte alla morale cristiana.

IL GIUSNATURALISMO
More e Bodin

Il giusnaturalismo è la seconda delle due correnti entro cui si canalizza la filosofia politica del Rinascimento. Quella storicista è una preoccupazione particolare e storica, che impone all’uomo una partecipazione diretta e individuale all’incedere del cammino delle società, quella giusnaturalista è invece una preoccupazione di carattere universale e filosofica, volta a ritrovare lo stato originale in generale, con la ricerca del suo substrato fondamentale. La caratteristica dell’indagine giusnaturalista riguarda perciò la natura dello stato e l’individuazione di quella sostanza che ad ogni stato dà forza e valore. I giusnaturalisti ricercano appunto la possibilità di ricondurre lo stato alla sua forma ideale, e pertanto non è difficile indicare il precursore di questa tendenza nell’opera di Thomas More, Utopia.

Thomas More - More fu come Machiavelli figlio del suo tempo. Morì decapitato, pagando cara la sua opposizione alla decisione di Enrico VIII, che, divorziato da Caterina d’Aragona, contro la volontà pontificia sposò Anna Bolena e designò alla successione il figlio avuto da quest’ultima. More descrive criticamente le condizioni dell’Inghilterra dello scisma, dando vita a un’isola fantastica, una comunità ideale, Utopia, scoperta durante una spedizione di Amerigo Vespucci, la cui descrizione è affidata a un protagonista filosofo, Raffaele.
Come si ricorderà, l’Inghilterra dei Tudor viveva intense trasformazioni sociali. L’economia, tipicamente rurale, passava alla pratica dell’allevamento ovino, che avrebbe poi consentito alla manifattura laniera inglese di compiere il salto di qualità; i contadini vivevano però momenti drammatici e si dedicavano all’accattonaggio e alle ruberie, essendo stati privati del lavoro della terra. La critica sociale di More nelle pagine di Utopia si scaglia contro la proprietà privata. A Utopia la proprietà privata è abolita, i suoi abitanti coltivano la terra a turno e i materiali preziosi sono destinati a confezionare gli utensili più umili. I cittadini, controllati dai sifogranti, devono dedicarsi ai propri mestieri, solo per sei ore lavorative, di modo da potersi dedicare alla cultura, alla filosofia e alle lettere. Ma gli Utopi ben sanno che la ragione da sola non basta e coltivano anche la religione, credono nell’immortalità dell’anima, nel premio e nel castigo, conciliando queste verità con gli assiomi della ragione. Inoltre il fine della comunità è il piacere e lo stare bene e per questo si rafforza la solidarietà umana, fondata non sull’egoismo ma sul bene comune.
Il tratto caratteristico di Utopia è sicuramente la tolleranza religiosa, che riassume la lotta morale di Thomas More. Pur ritenendo Dio creatore e artefice del mondo, a Utopia ognuno è libero di intendere questo principio come meglio crede, e ognuno è libero di praticare le sue convinzioni, e anche di fare proselitismo, ma in maniera assolutamente pacifica. A Utopia il cristianesimo convive con le altre religioni: l’unica forma di religione non ammessa è quella che predica la mortalità dell’anima e che nega la provvidenza di Dio, ma chi la pratica non è punito, è solo inibito dal diffondere questa tesi. Uno stato secondo ragione dunque, fondato sulla libertà e sulla tolleranza.

Jean Bodin - Se Thomas More idealizza nello stato di Utopia la struttura di uno stato conforme a ragione, Jean Bodin preferisce collocarsi su un piano realista e dello stato conforme a ragione analizza i principi giuridici.
L’opera bodiniana più importante sono i Six livres de la Republique, in cui Bodin mette in evidenza la struttura del suo pensiero politico. Questa è la sua definizione di repubblica:

un retto governo di più famiglie
e di ciò che ad esse è comune
con potenza sovrana

Bodin concepisce una sovranità senza limiti, superata solo dalla potenza divina. In base al vecchio principio, non est potestas nisi a Deo, i fautori dell’assolutismo monarchico del periodo ritengono il potere sovrano sacro e inviolabile, poiché dato da Dio. Il sovrano ha un potere assoluto e perciò indipendente dal potere stesso, con la possibilità di fare e disfare le leggi. Come diceva Machiavelli, il potere dello stato trova norma e giustificazione nel proprio fine interno, ossia la giustizia. Bodin non assume il potere sovrano come potere arbitrario, ma come potere positivo, ritenendo necessario per un sovrano essere al di sopra di tutto per poter fare ciò che è utile al bene comune.
Bodin è sostenitore della monarchia francese. Il sovrano non è un tiranno, perché il potere gli è dato secondo natura e secondo la legge di Dio. Il potere non può essere diviso ma deve essere mantenuto nelle mani di uno solo. Pur ritenendo il potere monarchico la migliore forma di governo, Bodin non esclude le altre due tendenze politiche, quella aristocratica perché fondata sulla meritocrazia e quella democratica perché fondata sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte al potere sovrano. Queste due tendenze temperano il potere monarchico. Platonicamente Bodin paragona la repubblica ben ordinata all’uomo in cui convivono le tre facoltà dell’intelletto, ma dove solo la parte razionale dà unità al tutto. Così uno stato ben organizzato ma privo di una guida unica e salda è come un uomo che non si cura della sua vita intellettuale.
Anche Bodin sposa come More la causa della tolleranza religiosa, e lo fa con il Colloquium Heptaplomeres, un dialogo tra sette appartenenti a sette diverse confessioni religiose. Il dialogo si immaginava svolto a Venezia, bandiera della tolleranza grazie all’episodio di Paolo Sarpi. Uno dei personaggi più significativi del dialogo è Toralba, fautore della religione naturale, che predica il ritorno al principio naturale, substrato di tutte le religioni, per rendere possibile la comprensione fra i vari indirizzi teologici. Toralba non esclude però il ruolo delle religioni positive, poiché ritiene che i riti e le cerimonie abbiano maggiore presa sul volgo incolto rispetto ai meccanismi della ragione. La pace invocata da Bodin è simile all’ordine naturale ricercato dal Cusano, ma Bodin, che scrive durante le tensioni tra Ugonotti e Cattolici, pone l’ordine religioso come condizione per il mantenimento dell’ordine politico.

IL GIUSNATURALISMO MODERNO
Gentile, Altusio e Grozio

Con il pensiero di More e Bodin si apre ufficialmente la tendenza giusnaturalista, che impone il ritorno delle organizzazioni politiche alla propria sostanza razionale. Questo ritorno viene ulteriormente precisato dai sostenitori del giusnaturalismo moderno mediante la considerazione dello stato di guerra. Durante lo stato di guerra, pur venendo meno gli accordi e le convenzioni tra stati, non deve venire meno il substrato fondamentale di tutti gli esseri umani, quelle norme che non perdono la loro efficacia durante lo stato di guerra.

Alberico Gentile - Nell’opera De jure belli, Gentile si domanda se lo stato di guerra sia conforme al diritto naturale. La risposta di Gentile è negativa, poiché tutti gli uomini sono legati tra loro da un vincolo di reciproco amore. Essi fanno parte di un unico corpo, che è il mondo, e su questa unità si fonda appunto il diritto naturale.  In natura nessun uomo è nemico dell’altro uomo, e per questo secondo Gentile lo stato di guerra è uno stato contro natura.  Gentile ammette come giusta solo la guerra di difesa, perché il diritto alla difesa è innegabile; mentre ritiene ingiuste le guerre di offesa, e soprattutto le guerre di religione, perché la natura della religione è tale da impedirle di essere praticata su imposizione e coercizione. Pur nella sua innaturalità, la guerra fa parte secondo Gentile del mondo dell’uomo e non può perciò prescindere dalle caratteristiche della natura umana. Gentile si richiama dunque  al rispetto che anche nello stato di guerra va considerato per i deboli e gli indifesi, per i bambini e le donne, e vieta l’uso di armi subdole.

Giovanni Altusio – Nella sua Politica Methodice Digesta Altusio riprende da Bodin la dottrina della sovranità, come potere al di sopra di tutto e della legge stessa. Questa sovranità unica e indivisibile per Altusio risiede nel popolo. La comunità umana o consociatio si riunisce tramite un contratto in un corpus symbioticum, un organismo vivente; questo contratto si fonda su delle leges fondamentali che sono indispensabili alla vita della comunità (leges consociationis) e sono divise in leges comunicationis, cioè le leggi che predispongono i contatti tra i sudditi, e le leges directionis et gubernationis, che predispongono i rapporti tra i membri della comunità e il governo.
La teoria politica di Altusio prevede che la sovranità sia esercitata, in quanto jus maiestatis, dal popolo stesso, cioè dai membri della comunità, mentre il potere del principe è equivalente a quello di un magistrato, e si tratta di un’autorità che gli deriva dalla sottoscrizione del contratto. Al principe si affiancano gli efori che esercitano sul principe i diritti del popolo. Tutto ruota intorno al valore del contratto: se è il popolo a romperlo, il principe è considerato libero da ogni obbligo, se è il principe stesso a rompere il contratto spetterà al popolo deporre il principe e nominarne un altro o darsi una nuova costituzione. Questi capisaldi costituiranno le basi per la dottrina politica di Rousseau.
Riguardo la libertà religiosa, Altusio è una voce fuori dal coro, perché egli, calvinista intrasigente, nega fortemente ogni tipo di libertà, e concepisce uno stato che punisce atei e miscredenti.

Ugo Grozio – Come Altusio anche Grozio è una bandiera della filosofia giuridica dell’età della Riforma. Sue le due opere fondamentali del periodo, il De veritate religionis christianae, a carattere teologico, e il De jure belli ac pacis, a carattere più strettamente politico. Da epigono di Bodin, anche Grozio persegue l’ideale della pace e della tolleranza religiosa, fondata su un Dio unico e provvidente. La ragione è per Grozio la natura vera dell’uomo, e per questo è naturale ciò che è razionale. Le norme della ragione naturale sono valide, per Grozio, anche se Dio non ci fosse: questa tesi, scandalosa all’epoca, mette in evidenza proprio la struttura del pensiero di Grozio, basato sulla convinta asserzione che la ragione deve essere libera da ogni implicazione teologica. L’esigenza giuridica di Grozio è evidente, ossia l’universalizzazione del diritto; e la madre del diritto naturale è per Grozio la stessa natura umana, che condurrebbe gli uomini a ricercare naturalmente la mutua società. Quindi il diritto che si fonda sulla natura umana esisterebbe anche se Dio non vi fosse e non si occupasse delle vicende umane. Grozio distingue il diritto naturale dallo jus gentium, dal diritto dei popoli, che non deriva direttamente dalla natura ma dal consenso di tutti i popoli. Il diritto naturale è proprio dell’uomo. Esso è assoluto e stabile e neanche Dio, volendo, potrebbe cambiarlo, poiché si fonda sulla caratteristica razionale e sociale dell’uomo. La sua prova di forza è necessariamente a priori perché a priori si dimostra l’accordo di un fatto o di un’azione umana con la natura razionale e sociale; la prova a posteriori invece si raccoglie presso le genti e si fonda sulla presunzione che un effetto universale debba avere una causa universale. Dal diritto naturale si distingue il diritto volontario, che può essere umano o divino, ma solo il diritto naturale garantisce la perfetta giustezza, poiché permette di valutare la conformità alla natura razionale e sociale. 
Grozio a differenza di Gentile ritiene che la guerra sia uno stato naturale e mirato alla conservazione della vita del popolo, e distingue tre tipologie di guerra, una pubblica, fatta da chi ha il governo, una privata, fatta da chi è privo di potere giurisdizionale, e una mista, composta da entrambe le parti. Pur ammettendo come Altusio la tesi contrattualistica, Grozio si distacca dal filosofo tedesco rilevando che la sovranità non appartiene tutta al popolo, anzi, proprio in virtù del contratto è il popolo stesso a trasferire la summa potestas civilis al principe. Questo trasferimento può essere condizionato da particolari cause e può anche verificarsi secondo determinate circostanze, che non derivano dal diritto naturale o divino, ma a cui il principe deve attenersi. Grozio ritiene impossibile che un popolo possa avere la facoltà di deporre un sovrano se non in casi particolarissimi, come una clausola a cui il principe stesso contravvenga.
Grozio lega al diritto naturale il concetto di religione naturale, fondata anch’essa sulla ragione. Egli fonda la vera religione naturale su quattro enunciati:

Dio esiste ed è uno;
Dio non è nessuna delle cose visibili ma è molto superiore ad esse;
Dio cura le cose umane e le giudica con perfetta equità;
Dio è l’artefice di tutte le cose esterne.

Si tratta di principi assoluti, il cui dubbio merita per Grozio una severa punizione. Grozio non condanna però le opinioni che si discostano, poiché oscurate, dalla religione naturale, e ammette che la stessa religione cristiana può essere creduta solo mediante l’affidamento a Dio, prescindendo da argomenti naturali.