giovedì 23 giugno 2016

Classe 2 Parte 7b S

LA RINASCITA DEL SACRO ROMANO IMPERO
919 – 1122

Con la deposizione di Carlo III il Grosso nell’886 (avvenuta, come si ricorderà, su iniziativa delle grandi famiglie dell’aristocrazia feudale, che rimproveravano a Carlo di avere trattato con i Normanni, in occasione del loro assedio di Parigi, una contropartita economico-territoriale in cambio della resa, invece di combattere) assistiamo a un nuovo sfaldamento dell’Impero Carolingio.
Il Regno dei Franchi Occidentali, dopo il regno del conte di Parigi Oddone, dei Robertingi, avo dei Capetingi, passa a Carlo il Semplice e  tornerà fino al 987 ai Carolingi. Nel 987 viene eletto dalla nobiltà feudale Ugo Capeto (987-996) capostipite della dinastia Capetingia, poi seguito da Roberto il Pio (996-1031), Enrico I (1031-1060) e Filippo I (1060-1108): il potere della corona, va ricordato, è solo nominale, poiché di fatto sono i grandi feudatari, conti e marchesi, a detenere il potere; tutto questo fino al regno di Luigi VI il Grosso (1108-1137) che riesce a reprimere i disordini dei grandi vassalli.
In Italia invece, dopo un periodo di contese dinastiche, la corona va a Berengario del Friuli, poi deposto da Guido di Spoleto; quindi il pontefice Formoso rivolge le proprie simpatie politiche ad Arnolfo di Carinzia, e, al ritorno di Arnolfo in Germania, il regno torna a Berengario che lo terrà fino al 922. Nel 922 Berengario viene nuovamente deposto, stavolta per mano di Rodolfo di Borgogna. Poco tempo dopo Rodolfo stesso viene spodestato dai conti di Tuscolo, il potente senatore romano Teofilatto e la figlia Marozia, che riesce a far elevare il figlio sul soglio pontificio col nome di Giovanni XI, impadronendosi così anche dello stato della Chiesa. La feudalità romana, evidentemente preoccupata per l’ingerenza dei conti tuscolani, chiama in Italia Ugo di Provenza, che sposa Marozia e cinge la corona nel 926 assumendo il controllo dei territori pontifici. La lotta tra i feudatari viene però esarcebata, e Alberico di Toscana, altro figlio di Marozia, dopo aver peovocato una rivolta della nobiltà romana contro Ugo, cacciato da Roma nel 932, fa prigionieri la madre e il fratellastro papa, governando lo stato della Chiesa fino al 954 col titolo di senator et princeps Romanorum. Dopo Ugo di Provenza regneranno suo figlio Lotario (946) e il suo successore Berengario II d’Ivrea (950): nel 951 si chiude l’indipendenza della corona d’Italia con la discesa di Ottone I che obbliga Berengario a dichiararsi vassallo dell’imperatore sassone.
Il Regno dei Franchi Orientali, dopo lo sfortunato regno di Arnolfo di Carinzia e Ludovico il Fanciullo, gravato dalle pressioni autonomistiche di alcuni nuclei etnico-territoriali, passa a Corrado I di Franconia (911-918) e poi a Enrico di Sassonia, che regna dal 919 al 936, lasciando il trono al figlio Ottone I.
Ottone I (936-973) era succeduto al padre Enrico I, avviando subito un ambizioso disegno di espansione territoriale, che racchiudeva il duplice scopo della colonizzazione e della cristianizzazione. Nel 962 Ottone torna in Italia per farsi incoronare dal papa Giovanni XII imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. Atto veramente singolare dell’investitura imperiale conferita a Ottone erano il beneficio del privilegium Othonis, ossia la facoltà di scelta nell’elezione pontificia, facoltà di cui Ottone si serve subito, l’anno dopo, con la deposizione di Giovanni XII e l’elezione del nuovo papa, su nomina imperiale, Leone VIII. Durante una successiva discesa in Italia, Ottone si impadronisce dei ducati di Capua e Benevento, e combina il matrimonio del suo primogenito Ottone II con la principessa bizantina Teofano, facendosi riconoscere imperatore anche da Costantinopoli nel 972. Ottone muore lo stesso anno, e nel 973 sale al trono il figlio Ottone II, che regnerà dieci anni. Proseguita la campagna espansionistica del padre, Ottone II riesce a conquistare Taranto ma viene bloccato a Stilo nel 982. Muore l’anno seguente: il suo erede, Ottone III, ha solo tredici anni, ed è affidato alla reggenza di sua madre Teofano e di sua nonna Adelaide di Borgogna, fino al 984, quando ottone, diventato maggiorenne, può salire al trono. Con la benedizione di papa Silvestro II, il neoimperatore fissa la sede del regno a Roma e promuove la Renovatio Imperii Romanorum, un grandioso disegno di restaurazione politica e amministrativa della Roma cesariana e dell’impero cristiano di Costantino.
Ottone III morì senza eredi, e dopo di lui la nobiltà feudale elegge re di Germania Enrico II (1002-1024), cugino di Ottone, mentre in Italia la corona passa ad Arduino d’Ivrea, sconfitto da Enrico nel 1004; durante l’assenza di Enrico, tornato in Germania per difendere i confini polacchi, Arduino riprende il potere appoggiato dai grandi feudatari. I vescovi-conti lombardi riescono a tenere testa ad Arduino fino al rientro di Enrico, che nel 1014 si fa incoronare imperatore. Ma si tratta, come detto più volte, di un potere fittizio e condizionato dalle pretese dei potentati feudali locali. Nel 1024 Enrico II muore, estinguendo il ramo di Sassonia, e la corona passa a Corrado II di Franconia, detto il Salico (1024-1039). Annessa la Borgogna nel 1033, Corrado si trova come i suoi predecessori ad affrontare le contese della feudalità minore della Penisola, ed è costretto a chiedere aiuto alla feudalità ecclesiastica, in particolare al vescovo Ariberto d’Intimiano, l’arcivescovo di Milano; la feudalità ecclesiastica era però, come i grandi feudatari laici, nemica della feudalità minore, strettasi in una strategica alleanza denominatasi La Motta, mentre Corrado approfitta di questo malcontento per sposare la causa dei valvassori ribelli concedendo l’ereditarietà dei feudi minori con la Constitutio de Feudis del 1037. Alla morte di Corrado sale al trono Enrico III (1039-1056) che annette la Boemia (1041) e l’Ungheria (1044) quali feudi imperiali e, sceso in Italia, impone al concilio di Sutri nel 1046 (dove si dibatte la famosa questione dei tre papi, appoggiati da tre potenti fazioni nobiliari romane) la volontà imperiale col Principatus in electione papae, con cui si arroga il diritto di essere il primo (princeps) a scegliere il nuovo pontefice, deponendo i tre pontefici contendenti, e assumendo al trono pontificio un vescovo riformatore tedesco di sua fiducia, Clemente II. Il Principatus consacrava ufficialmente quel processo di feudalizzazione a cui la Chiesa aveva già iniziato a volgersi con l’istituzione dei vescovi-conti: i tre pontefici che seguiranno Clemente II saranno infatti tutti di designazione imperiale, e non è improprio a questo punto parlare di un rapporto di vassallaggio esistente tra questi e la corona imperiale. La degenerazione dei costumi toccherà tutte le strutture della Chiesa al punto che si parla di età ferrea del Papato.
Dopo la morte di Enrico III sale al trono il figlio, ancora minorenne, Enrico IV (1056-1106), mentre al soglio pontificio sale nel 1059 il vescovo cluniacense Niccolò II: Niccolò promuove subito il concilio Lateranense, lo stesso anno della sua incoronazione, con cui respinge il vecchio Privilegium Othonis, restituendo la nomina papale al collegio cardinalizio e sottraendo di fatto la Chiesa al controllo imperiale. Questo processo di defeudalizzazione della Chiesa viene ulteriormente promosso da Gregorio VII, il vescovo Ildebrando di Soana, che, salito sul soglio pontificio nel 1073, promuove nel 1075 il Dictatus Papae, ossia l’assoluta superiorità del pontefice su ogni istituzione terrena, quindi conferisce all’istituzione pontificia la facoltà di deporre i sovrani sciogliendo i sudditi dal vincolo dell’obbedienza. La cosa non viene però accettata da Enrico IV che col Sinodo di Worms del 1076 dichiara decaduto Gregorio VII: il pontefice risponde scomunicando Enrico. Il provvedimento papale aveva un peso politico non da poco, poiché la scomunica liberava di fatto i sudditi dal vincolo di obbedienza all’imperatore. Temendo una rivolta generale Enrico era costretto a fare marcia indietro, e nel 1077 si reca come penitente presso la villa della contessa Matilde di Toscana a Canossa, dove il pontefice aveva trovato protezione. La leggenda parla di un Enrico vestito di umile tela di sacco e a piedi scalzi, che sotto la neve avrebbe implorato per tre giorni l’assoluzione dal papa Gregorio VII. Ottenuta l’assoluzione pontificia, Enrico riprende la politica antipapale, che sfocia in una seconda scomunica nel 1080: a questo punto Enrico IV prende in mano le armi e fa prigioniero il papa, poi liberato dall’esercito normanno di Roberto il Guiscardo. Dopo la morte di Gregorio e di Enrico la contesa non si placa, ma continua con i rispettivi successori, Urbano II ed Enrico V (1106-1125): proprio durante il regno di Enrico V il Concordato di Worms (1122) chiude la contesa attribuendo al papa Callisto II la potestà di concedere l’investitura episcopale che precedeva quella feudale, mentre all’imperatore tedesco è data la possibilità di concedere l’investitura feudale che precedeva quella episcopale.

Come si è visto il grande problema feudale era il frazionamento del potere: la concessione di feudi in beneficio aveva fortemente limitato il potere centrale a vantaggio dei grandi feudatari. In Francia la situazione era peggiorata dalla presenza di feudi troppo piccoli che alimentavano l’indipendenza di gruppuscoli autonomistici: grazie all’opera di  Luigi VI i feudi vengono raggruppati in estensioni più ampie e controllate direttamente dal sovrano con la concessione a vassalli a lui fedeli; in tal modo il potere della corona si rafforza di molto rispetto ai primi re Capetingi. La situazione italiana era invece gravissima poiché la corona era soggetta agli appetiti dinastici delle numerose famiglie dell’aristocrazia feudale, divise in fazioni, insofferenti dell’autorità imperiale e di quella pontificia. La svolta politica dell’Impero si attua sotto la dinastia di Sassonia e soprattutto con Ottone I. Il potere imperiale aveva innanzitutto un conferimento quasi sacrale, l’imperatore ha ampia giurisdizione, è eletto dai grandi feudatari del regno; può designare un erede, ma nello stesso tempo questo erede deve essere scelto tra  i familiari diretti del sovrano; il potere imperiale poggia anche su una effettiva predominanza economica e non solo politica, e a questo proposito la politica ottoniana tende all’incameramento dei beni della Chiesa, sia con la presenza di vescovi feudalizzati alla corona imperiale sia con l’esproprio o con il controllo delle proprietà degli abati delle campagne. Ottone riconosce la figura pontificia, ma questo ruolo rappresenta un pericolo per la solidità del suo impero: in quel periodo lo Stato della Chiesa rappresentava una guida spirituale e temporale, e il Privilegium che Ottone promuove era una garanzia molto importante. I papi tedeschi che Ottone sceglie sono papi fedeli all’autorità imperiale e non slegati da essa, e questo liberava Ottone dal timore di possibili rivolte popolari fomentate da pontefici a lui avversi. Nel 1059 il Concilio del Laterano di Niccolò II e nel 1075 il Dictatus Papae di Gregorio VII rompono questo equilibrio, svincolando la nomina dei vescovi dal placet imperiale, e creando una dannosa frattura nel complesso sistema feudale, ormai compromesso dalla Constitutio de Feudis del 1037. Il concordato di Worms del 1122 segna infine la conclusione della tendenza cesaropapista della politica ottoniana, con la definitiva separazione dell’autorità imperiale da quella pontificia.
La società feudale era divisa in tre classi volute, a quanto pare, da Dio: coloro che pregano, coloro che combattono, e coloro che lavorano.
Il clero era diviso in chierici, inquadrati nell’episcopato, e in monaci, inquadrati in ordini e confraternite; ogni chierico o monaco era un uomo libero, che occupava un determinato ruolo nella propria comunità religiosa a seconda della dote che recava con sé per contribuire al mantenimento della comunità ecclesiastica o dell’ordine religioso che aveva scelto. Esisteva un clero benestante, composto dai figli cadetti delle grandi famiglie della nobiltà feudale, e un clero povero e rurale.
I militari erano essenzialmente i cavalieri, una classe sociale molto ricca, perché alti erano i costi del mantenimento delle armature e dei corredi militari; in origine non vi erano delle regole particolari che disciplinavano l’accesso a questa ristretta élite, ma dopo l’accesso fu ristretto ai soli figli cadetti delle famiglie nobili, anche di quelle decadute, escludendo i cosiddetti parvenus, avventurieri o contadini arricchiti.
Infine i lavoratori erano, come le altre due classi sociali, divisi per condizione economica: vi erano contadini poveri e ricchi, artigiani e liberi professionisti, e mendicanti nullatenenti. Tutti erano soggetti all’autorità imperiale e quindi alla convocazione del banno, e il punto di riferimento erano le associazioni di categoria come le comunità di villaggio per i contadini e i gremi e le associazioni di mestiere per gli atigiani, associazioni che spesso usavano come centro di aggregazione le parrocchie.
Dal punto di vista economico la politica imperiale ottoniana inaugura un periodo di stabilità, e un conseguente aumento della produttività: il benessere della classe feudale determina una progressiva diminuzione delle corvées, e l’eccedenza produttiva favorisce il sorgere di una classe sociale minoritaria di contadini agiati, una parte dei quali finisce per cambiare attività, inurbandosi e diventando artigiani.
Il problema religioso della feudalizzazione della Chiesa evidenzia la crisi del clero, spesso simoniaco e  concubino, clero che non rinuncia ai privilegi della condizione di vassallaggio all’imperatore, generando quel fenomeno di corsa ai benefici feudali noto come lotta per le investiture. L’istituzione dei vescovi-conti assume un ruolo ancora più determinante, poiché ora che il potere della corona è stato nuovamente centralizzato il clero preferisce sottoporsi al controllo temporale dell’imperatore per non perdere i privilegi feudali. Questa crisi è nota come età ferrea del papato, ed è ulteriormente incancrenita dal Privilegium di Ottone I e dal Principatus in electione papae pronunciato da Corrado il Salico: l’autorità temporale e spirituale del pontefice romano viene posta su piani secondari rispetto a quella imperiale e la stessa elezione papale non è più affidata a un collegio cardinalizio ma è prerogativa dell’imperatore. Il movimento riformatore parte dai monasteri, con Cluny in testa, da quelli benedettini di Montecassino, Farfa, Reichenau, a quello camaldolese di San Romualdo fino a quello vallombrosano di San Giovanni Gualberto. La rivolta cluniacense, che si estende alle altre abbazie fino alla formazione di una lega antimperiale, quasi una milizia monastica, chiede il ritorno del controllo del clero monastico nelle mani pontificie e la dismissione del ruolo di controllo esercitato dalla corona. Il movimento arriva nelle città: a Milano prende piede il movimento dei Patari (= straccioni), un gruppo laico che si richiamava al cristianesimo delle origini e pretendeva l’allontanamento del clero corrotto, principalmente i vescovi-conti feudalizzati dalla corona imperiale. Il culmine della lotta riformista si attua con due pontefici, prima con Niccolò II, che col Concilio Lateranense svincola la nomina papale dall’autorità imperiale e poi con Gregorio VII che col Dictatus Papae impone l’assoluta autorità pontificia su ogni istituzione terrena, ivi compresa la corona imperiale, con il diritto di deporre l’imperatore attraverso lo scioglimento del voto di obbedienza dei sudditi, che avrebbero riconosciuto la primalità pontificia. La riforma gregoriana consacra il potere temporale dello Stato della Chiesa: il concordato di Worms separerà definitivamente i termini della contesa, anche se la frattura tra le due istituzioni tornerà a farsi sentire sotto il pontificato di Bonifacio VIII. Tra le espressioni più felici del rinnovamento spirituale cristiano vanno citati due concili, quello di Charroux nel 989 e quello di Puy nel 990, in cui viene limitato l’uso delle armi nei giorni consacrati al Signore.