lunedì 13 giugno 2016

Classe 4 Modulo 3 S

CLASSE QUARTA - MODULO 3 - STORIA
Le grandi rivoluzioni atlantiche 

LA RIVOLUZIONE AMERICANA

La ribellione delle tredici colonie inglesi del Nord America verso l’eccessiva pressione fiscale della madrepatria e verso la servitù commerciale degenerò in una rivoluzione a carattere secessionista che trovò il suo documento nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. La borghesia americana non era spinta soltanto dalle esigenze economiche, ma anche dalle idee illuministe che avevano portato nelle colonie nordamericane l’interesse verso i concetti di sovranità del popolo e libertà del cittadino. La rivoluzione americana ebbe il carattere di una vera e propria guerra di indipendenza, guerra a cui parteciparono gli stessi stati europei. Dal conflitto sorse una confederazione di stati, gli Stati Uniti d’America, che si dette una costituzione in grado di garantire l’unitarietà amministrativa e contemporaneamente di tutelare le rispettive libertà degli stati membri.

1 - LE TREDICI COLONIE E I RAPPORTI CON LA MADREPATRIA

Le tredici colonie (circa 1.650.000 abitanti) erano sorte in tempi diversi, con modalità diverse e soprattutto si costituivano di diversa popolazione, il che ne accentuava le differenze in ambito demografico, sociale ed economico. Le colonie meridionali si fondavano prevalentemente su un’economia agricola, basta sulle grandi piantagioni, dove era stridente il contrasto tra i grandi proprietari terrieri e i bianchi più poveri; le colonie del centro-nord erano invece soggette a un’economia differenziata, con diverse strutture produttive che andavano dall’agricoltura all’industria manifatturiera, e qui erano presenti i piccoli proprietari, gelosi della loro libertà.

Nord – Le colonie del nord costituivano quello che ancora oggi viene chiamato New England e la loro struttura economica era come già detto articolata in diverse tipologie produttive. Tra le più note vi erano l’officina navale, l’agricoltura fondata sulla piccola proprietà e i commerci con l’estero. La società era essenzialmente inglese e costituita dai discendenti dei Puritani, dalla morale rigidamente ascetica e nemici della chiesa Anglicana, oltre che intolleranti verso i cattolici. La città più importante dal punto di vista commerciale era Boston.

Centro – Le colonie del centro vantavano le città e i porti più importanti, come New York, Filadelfia e Baltimora; qui l’economia comincia a diversificarsi ed è presente anche l’attività di contrabbando. La popolazione non è totalmente inglese, ma composta anche da svedesi, olandesi (primi colonizzatori), e tedeschi e irlandesi di recente immigrazione. Si trattava di un amalgama culturale che favoriva una maggiore tolleranza religiosa e soprattutto una maggiore spinta colonizzatrice verso ovest.

Sud – Domina qui l’economia di piantagione e lo schiavismo; la società è fondata su una divisione tra ricchi proprietari, generalmente inglesi e anglicani, e bianchi poveri. Mancano vere e proprie città, e qui è molto forte la dipendenza economica dall’Inghilterra, specie per i manufatti.

Il rapporto con la madrepatria - Le tredici colonie erano accomunate solo dal rapporto con l’Inghilterra. Erano sostanzialmente autonome e in esse era presente lo stesso tipo di libertà costituzionale presente nella madrepatria. Erano governate da un governatore di nomina regia, mentre il potere legislativo era gestito da una assemblea locale eletta a suffragio censitario. Ma la popolazione delle colonie era priva di rappresentanti al Parlamento di Londra. In più erano vincolate a mantenere una politica mercantilistica esclusiva con la sola Inghilterra, solo su navi inglesi, ed era fatto loro divieto di produrre ciò che l’Inghilterra vendeva loro. In pratica si trattava di una pesante subordinazione che l’economia americana subiva da quella inglese. La situazione fu in principio tollerata, anche perché il meccanismo di esazione fiscale era certamente meno oppressivo e poi il contrabbando con le zone caraibiche consentiva alle colonie di allentare la pressione commerciale inglese.
La situazione divenne insostenibile dopo la Guerra dei Sette Anni, quando, per rifarsi dei costi, l’Inghilterra fu costretta a gravare le colonie con una maggiore pressione fiscale; la nuova politica fiscale non fu gradita, esasperando quindi l’intolleranza verso la servitù commerciale inglese. L’accordo dell’Inghilterra con le tribù indiane, che impegnava i contraenti a non varcare la linea dei monti Allegheny, precluse poi l’espansione dei coloni verso l’ovest, creando un clima di tensione in quegli strati della popolazione coloniale desiderosi di espandersi territorialmente. La crisi si aprì per questioni fiscali.

2 - IL MOVIMENTO INDIPENDENTISTA

Era ormai diventata questione di principio, ma anche di interesse economico, che il Parlamento londinese dovesse regolare i commerci coloniali con l’imposizione di forti dazi doganali, a cui i coloni inglesi risposero con il boicottaggio delle merci della madrepatria e con il contrabbando. Prima fu lo Sugar Act, che imponeva ai coloni di acquistare lo zucchero nei Caraibi inglesi, e non in quelli francesi dove costava meno; poi toccò allo Stamp Act, che imponeva una marca da bollo su tutti i documenti pubblici, compresi i giornali. Le due imposte furono ritirate sotto i boicottaggi e anche la solidarietà di parte dell’opinione pubblica inglese, ma la situazione tornò ad aggravarsi con il Townshend Act, con cui si imponeva una tassa su tutti i prodotti importati nelle colonie. La crisi secessionista si mise in moto, con la nascita di movimenti separatisti quali i Figli della Libertà e i Comitati di Corrispondenza Intercoloniali.
Motto della rivolta era “no taxation without representation” che ineriva chiaramente alla necessità di una rappresentanza parlamentare per le colonie a Londra. Boicottaggi e proteste portarono ancora al ritiro della nuova tassa, ma restava in vigore la Tea Tax, la tassa sul tè, che colpiva soprattutto Boston. Quando il 5 marzo 1770 vengono massacrati cinque coloni in una guerriglia con l’esercito inglese, la situazione precipita.

Il 16 dicembre 1773 un gruppo di Figli della Libertà travestito da indiani getta a mare il carico di tè di una nave della East Indian Company alla fonda nel porto di Boston. Dopo l’episodio, ricordato come Boston Tea Party, il porto viene chiuso e la città posta sotto vigilanza militare.

Il I Congresso di Filadelfia nel 1774 vide  i coloni decisi nel boicottare le merci inglesi, come atto di disobbedienza civile. A quel tempo non si era costituito un vero e proprio esercito, ma esisteva solo un corpo di volontari, i cosiddetti minute-men, che derivavano il nome dalla possibilità di lasciare in un minuto il lavoro per vestire la divisa da soldati. Nel II Congresso di Filadelfia, nel 1775, fu costituito un esercito di ventimila uomini, posto sotto il comando di George Washington.
Il congresso era diviso tra tre fazioni, quella dei radicali, che volevano la rottura con Londra, quella dei moderati, che speravano in una situazione di compromesso, e quella dei lealisti, che erano invece fedeli alla monarchia. In un estremo tentativo di mediazione, pur essendo già cominciati i primi scontri armati, il Congresso mandò al re Giorgio III la cosiddetta Petizione del ramo d’Olivo, invitandolo a limitare l’ingerenza del Parlamento (era però un atto inutile, perché il Parlamento inglese era indipendente dal potere monarchico). Il governo inglese decide però l’embargo verso le colonie, causando l’inevitabile rottura e l’inizio della guerra.

3 - LA GUERRA DI INDIPENDENZA

Le assemblee locali delle tredici colonie si danno nel 1776 costituzioni autonome, tra cui spiccava il Bill of Rights della Virginia che poneva la sovranità popolare a fondamento del potere politico. Nello stesso anno lo scrittore politico inglese Thomas Paine pubblica il Common Sense, un opuscolo dove si giustificava la necessità della lotta per l’indipendenza. Ma il vero atto di secessione è quello che viene firmato a Filadelfia il 4 luglio 1776, cioè la Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie, stilata dall’avvocato virginiano Thomas Jefferson. La Dichiarazione sanciva il distacco delle colonie dalla madrepatria e la nascita di una federazione di stati che si chiamò Stati Uniti d’America. Era fondata su idee illuministe e promuoveva in sostanza tre principi:
il diritto naturale e inalienabile alla libertà, alla felicità e alla vita;
il dovere dei governi di garantire questi diritti e di fondare la propria azione politica sul consenso del popolo;
il diritto di ribellione contro un governo che non garantisse questi diritti. 
Si trattava di principi dall’enorme portata storica e politica, ancorchè basati sui temi più avanzati dell’Illuminismo moderno di Montesquieu e di Rousseau.

La Dichiarazione di Indipendenza costituiva anche una dichiarazione di guerra all’Inghilterra. Il conflitto fu lungo e aspro, e condotto da persone inesperte e inferiori numericamente. A garantire il successo delle operazioni contribuirono non poco l’entusiasmo dei patrioti americani, la loro migliore conoscenza del territorio, la forte personalità di Washington, e anche l’appoggio dell’opinione pubblica europea di parte illuminista, che inviò dei volontari a combattere nella campagna rivoluzionaria.
A dare una svolta decisiva alle operazioni militari fu la vittoria sugli Inglesi a Saratoga, il 17 ottobre 1777: dopo la vittoria infatti la Francia decise di appoggiare i ribelli con un accordo di cui si fa portavoce lo scienziato Benjamin Franklin, stimatissimo negli ambienti scientifici europei e soprattutto parigini. La Francia entra dunque in guerra contro l’Inghilterra, seguita da Olanda e Spagna. Furono proprio le flotte delle tre potenze a isolare le armate inglesi dalla madrepatria, permettendo all’esercito americano di respingere il tentativo di invasione nelle colonie meridionali. La decisiva vittoria di Yorktown, nel 1781, costringe di fatto l’Inghilterra alla resa.
Il 5 settembre 1783 viene conclusa la pace di Versailles, con cui l’Inghilterra riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, e la sovranità di questi sul territorio compreso tra l’Atlantico, il Mississippi e la zona dei Grandi Laghi; la Francia ottiene Tobago e Senegambia e la Spagna Minorca e Florida.

IL DOPOGUERRA

Mentre la guerra era ancora in pieno svolgimento le tredici colonie iniziarono a discutere sul ruolo politico e costituzionale da svolgere in seno all’Unione. Tutte le colonie adottarono inizialmente gli Articoli Confederali con cui:
le Assemblee dei singoli stati mantenevano la loro autonomia;
ogni stato avrebbe avuto un voto al Congresso dell’Unione e le decisioni di questo andavano prese all’unanimità;
il Congresso si sarebbe occupato limitatamente di politica estera e di conflitti internazionali e interstatali.
Il dopoguerra vede però emergere delle forti tensioni sociali e politiche, dovute alle differenze tra gli stati. A causare le tensioni erano soprattutto:
l’inflazione e i debiti dovuti al conflitto;
le agitazioni dei contadini poveri;
la fame di terre;
il dibattito politico e istituzionale tra coloro che volevano un potere centrale forte, cioè le colonie del nord, e coloro che lottavano per l’autonomia dei singoli stati;
le speculazioni finanziarie.
Questo stato di cose degenerò nel 1786 in una rivolta di contadini e veterani di guerra, guidati da Daniel Shays, domata dall’esercito americano dopo due anni di lotta. Dalla guerriglia venne fuori un terzo schieramento tra autonomisti e centralisti, i cosiddetti federalisti, che ricompattarono i due schieramenti.
Per risolvere il problema dei territori del nord ovest il Congresso col Proclama del Nord Ovest decise di porre queste terre sotto controllo federale, sottraendole così agli interessi dei vari stati, e ponendo le basi per la nascita di nuovi stati, che sarebbero diventati membri dell’Unione quando avessero raggiunto i sessantamila abitanti.
Nel settembre 1787 una commissione di 55 saggi guidata da Washington stila la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Erano organi centrali del governo federale:

il Congresso, che deteneva il potere legislativo, e si componeva di una Camera dei Rappresentanti e di un Senato;
il Presidente, che deteneva il potere esecutivo, eletto a cadenza quadriennale da un collegio di elettori designati dagli stati, col compito di guidare lo stato e il governo, nominare i ministri e i membri della Corte Suprema;
la Corte Suprema, che deteneva il controllo del potere giudiziario, composta da nove membri nominati a vita.
La carta costituzionale viene approvata nel 1788 da 11 stati su 13 (North Carolina e Rhode Island l’approveranno più tardi)e l’anno successivo George Washington viene eletto primo presidente degli Stati Uniti. La Costituzione viene arricchita nel 1791 dai Dieci Emendamenti, che rappresentavano un contrasto stridente con la realtà sociale: proponevano infatti un modello egualitario e libertario, fondato su dettami di chiara matrice illuminista, malgrado il paese tollerasse ancora la schiavitù e il potere fosse accentrato sulle mani delle classi dominanti.
Proprio durante la presidenza di Washington si riaccende il conflitto tra gli autonomisti, guidati da Jefferson (che nel 1800 succederà a Washington), e i centralisti, guidati da Hamilton. Lo scontro culmina con la fondazione del Partito Repubblicano Democratico, nel 1792, guidato da Jefferson e Madison. 

LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Sul finire del secolo XVIII il contrasto tra l’Ancien Régime (rappresentato dall’assolutismo monarchico e dai privilegi di nobiltà e clero) e il Terzo Stato (ossia la quasi totalità dei sudditi) comportò l’accensione di uno dei più importanti focolai rivoluzionari di ogni epoca. Il movimento fu guidato dalla borghesia, che rivendicava la partecipazione diretta e democratica dei sudditi alla vita politica, e si estrinsecò attraverso diversi momenti salienti, lungo un periodo storico di dieci anni. Queste le sei fasi principali della rivoluzione:

la rivoluzione del 1789, tra maggio e ottobre, culminata con l’episodio della presa della Bastiglia, che rovesciò l’Ancien Règime e insediò una Assemblea Nazionale costituita dai membri del Terzo Stato, e nella cui occasione fu proclamata la Dichiarazione dei Diritti, contenente i principi di libertà, uguaglianza e sovranità del popolo;
’opera dell’Assemblea Costituente, tra il 1789 e il 1791, che trasformò la Francia in monarchia costituzionale, e che improntò la costituzione del 1791 a principi liberali, facendo gli interessi della borghesia proprietaria;
la radicalizzazione della rivoluzione borghese, tra il 1791 e il 1793, che, sotto la spinta della Gironda, decretò la fine della monarchia francese e l’istituzione della repubblica;
la dittatura giacobina, tra il 1793 e il 1794, che salvò il paese dall’invasione degli eserciti degli stati europei filoassolutisti, promuovendo un esercito rivoluzionario e una nuova costituzione democratica nel 1793;
la reazione termidoriana, tra il 1794 e il 1795, che restituì il controllo della rivoluzione alla borghesia attraverso una nuova costituzione nel 1795;
il governo del Direttorio, tra il 1795 e il 1799, che rilanciò le velleità espansionistiche della Francia, ma che minò la stabilità politica del paese fino a favorire l’avvento del Consolato, dominato dal Bonaparte.

1 - LA CRISI DELL’ANCIEN REGIME

Dopo un settantennio di straordinaria espansione demografica, sociale e produttiva, la Francia attraversò tra il 1773 e il 1789, un grave periodo di crisi economica e finanziaria. Potrebbe sembrare paradossale che una economia florida come quella francese cadesse in rovina, ma così non sembra se si analizza il tessuto sociale della Francia di allora. Al vertice dello stato c’era il re, che esercitava un potere assoluto e basato sul diritto divino, tanto da considerare lo stato di sua proprietà.
Veniva poi la nobiltà, divisa in tre ordini:

la nobiltà di spada, che viveva a corte e che quindi doveva sostenere pesanti spese di rappresentanza;
la nobiltà di provincia, spesso povera ma comunque detenente antichi privilegi feudali;
la nobiltà di toga, cioè gli alti magistrati di nomina regia, di origini borghesi ma ormai assestati nel rango nobiliare.

La nobiltà vantava ampie proprietà terriere e antichi privilegi di stampo feudale, come banalità e corvées; inoltre era esentata dal pagamento delle tasse e godeva di una sorta di immunità da parte dei tribunali ordinari. Sullo stesso piano sociale della nobiltà c’era il clero, che viveva sia dei proventi delle proprietà terriere, sia delle decime pagate dai contadini. Si divideva in clero regolare (cioè i religiosi che vivevano nei conventi e nei monasteri) e clero secolare, quest’ultimo distinto in alto clero e basso clero. Il clero divideva con la nobiltà gli stessi privilegi fiscali e giuridici.
Un gradino più sotto veniva il cosiddetto Terzo Stato, cioè la classe più eterogenea e numerosa (costituiva infatti il 98 % della popolazione) e ovviamente priva di diritti civili. Il Terzo Stato era composto:
dalla grande borghesia della finanza e dell’imprenditoria;
dalla media borghesia delle professioni;
dalla piccola borghesia degli artigiani;
dai contadini;
dai poveri nullatenenti.
Il malcontento del Terzo Stato si manifestava in una profonda avversione per l’istituto monarchico che privava i semplici sudditi dei propri diritti civili, ma soprattutto nell’odio verso le classi agiate, che da un lato vessavano i contadini nelle campagne attraverso la sopravvivenza delle antiche consuetudini feudali, e dall’altro ostacolavano lo sviluppo economico del paese con la stagnazione delle dinamiche produttive, vetuste e legate ancora ai suddetti privilegi. Come si può notare il panorama sociale presentava una  nazione squilibrata nelle sue componenti e percorsa da tensioni di natura politica e sociale.
Con l’avvento sul trono di Luigi XVI nel 1774 emerge in tutta la sua gravità la disastrosa situazione del debito pubblico. Ministro delle Finanze era Turgot, di scuola fisiocratica illuminista, che nel suo biennio politico varò un articolato programma di riforme liberali. La carestia del 1775 fece però precipitare la situazione, e il rialzo dei prezzi e l’opposizione conservatrice della nobiltà (che si vedeva privare di alcuni diritti secolari) obbligarono Luigi XVI a licenziare Turgot e a nominare al suo posto Necker. Fu l’inizio di una serie di ministri, comprendente anche Calonne e Lomenie de Brienne, che si avvicendarono nel giro di quattordici anni, manifestando impotenza nel colmare la voragine sempre più profonda dell’economia francese. A rendere difficoltosa la mediazione era una imposta fondiaria, originariamente ideata dal Calonne, che avrebbe dovuto sanare la situazione deficitaria, peggiorata dall’intervento nella guerra di indipendenza americana: le frange conservatrici si opposero  tenacemente, obbligando il re a imporre al Parlamento francese la registrazione forzata (lit de justice) della tassa. Era il 1787: la reazione del paese fu durissima e culminò con la convocazione degli Stati Generali, ormai non più riuniti dal 1614. Il paese era scosso da tumulti popolari, e il re fu costretto a ritirare la tassa e a riaffidare il controllo delle finanze al Necker. Gli Stati Generali furono convocati per il maggio del 1789.

L’affermarsi della volontà aristocratica e la debolezza del sovrano confermavano i timori di Voltaire. Il filosofo aveva giustamente valutato pericolosa una ripartizione dei poteri, perché era ben cosciente del potenziale politico della nobiltà francese: e così avvenne, la  decisiva reazione aristocratica apriva la strada alla trasformazione del paese, e fu proprio la stessa nobiltà a innescare la scintilla rivoluzionaria.

2 - LA RIVOLUZIONE DEL 1789

Grazie al rinnovato sistema consultivo, che prevedeva delle primarie in ogni villaggio, il Terzo Stato riuscì comunque a scongiurare il pericolo di una ripresa dell’autonomismo aristocratico, affermando la propria volontà mediante i cahiers de doléance che denunciavano gli abusi e i soprusi signorili, soprattutto nelle campagne. Il Terzo Stato animò parecchi club patriottici, in cui si ponevano le basi per la riforma costituzionale del paese, e si moltiplicavano i pamphlet che denunciavano la totale assenza di libertà e diritti.
La convocazione degli Stati Generali, nel maggio 1789, fu paralizzata per circa un mese dalla questione della modalità di voto: il Terzo Stato, che col suo 98 % rappresentava la schiacciante maggioranza della nazione, premeva per il voto per testa, mentre nobiltà e clero propendevano per il voto per ordine. La convinzione del Terzo Stato spinse la borghesia, con l’appoggio del basso clero e di alcuni nobili, a proclamarsi Assemblea Nazionale (17 giugno 1789), e quindi pronunciano il famoso giuramento della Pallacorda (20 giugno 1789): l’episodio fu causato dalla chiusura della sala riunioni su ordine regio, che fece spostare i deputati del Terzo Stato nella sala della Pallacorda, dove giurarono di non separarsi mai finchè non fossero riusciti a dare al paese una costituzione. Si trattava di una vera mossa rivoluzionaria, perché di fatto escludeva dalla lotta rivoluzionaria clero e nobiltà, impedendo così che le classi agiate prendessero il sopravvento; il re fu costretto a cedere e a chiedere ai rappresentanti di clero e nobiltà di unirsi all’Assemblea Nazionale, preparando però un atto di forza che ripristinasse gli equilibri iniziali. In un primo tempo Luigi XVI adotta un atteggiamento conciliante e promette l’abolizione di alcune imposte e censure; ordina agli Stati Generali di riunirsi in separate sedi, ma il netto rifiuto del Terzo Stato lo fa retrocedere dal proposito. Basso clero e parte della nobiltà si uniscono al Terzo Stato. La situazione precipita col dilagare del carovita: a Parigi si forma una Municipalità provvisoria a forte presenza popolare e una Guardia Nazionale armata. Il re, temendo il peggio, fa preparare ventimila uomini e licenzia il Necker. L’Assemblea diventa Costituente. Il popolo inalbera la coccarda tricolore, bianca come lo sfondo dello stemma borbonico, e rossa e blu come il colore della Municipalità parigina.
Il 14 luglio 1789 una folla di artigiani, operai e borghesi, dopo aver prelevato le armi all’Hotel des Invalides, assalta e conquista la fortezza parigina della Bastiglia, costringendo il re a un immediato dietro front. Costretto dagli eventi Luigi XVI richiama Necker, riconosce la Municipalità parigina e adotta la coccarda tricolore. Il clima tormentato degenera però in una pericolosa rivolta contadina, che alla fine dello stesso luglio scatena una sanguinosa jacquerie contro nobili e clero. Per riassestare la pace, l’Assemblea Costituente decide di intervenire votando il Decreto di Abolizione, con cui venivano definitivamente abrogati i privilegi feudali e nobiliari, aprendo la strada a una dimensione egualitaria della società. Il 26 agosto dello stesso anno viene varata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in 17 articoli, che esprimeva, come quella americana, i diritti naturali degli uomini, la loro eguaglianza e la residenza della sovranità nella nazione. Occorre sottolineare che l’Assemblea Nazionale non intendeva rompere col sovrano, ma portare avanti dei diritti.
La reazione di Luigi XVI fu di netta opposizione: il popolo però minaccia nuovi moti, obbligando il re a ratificare i decreti di agosto. Dopo aver marciato fino a Versailles, i rivoluzionari obbligano il re e la corte a trasferirsi al palazzo delle Tuileries, dichiarando il re prigioniero dell’Assemblea Nazionale.

3 - LA COSTITUENTE

Caduti i privilegi e fondato il discorso politico su una base democratica, toccava ora all’Assemblea Nazionale Costituente tenere unite delle forze eterogenee e divise da interessi politici ed economici, per quanto unite nella comune lotta contro l’Ancien Régime. I lavori iniziano nel mese di ottobre nella sala del Maneggio del palazzo delle Tuileries: a destra i conservatori, fautori di un potere monarchico forte e gli anglomani, fautori di un modello politico all’inglese, con la nomina regia di una Camera Alta con diritto di veto, a sinistra i progressisti, i patrioti e i moderati, e un’ala più radicale.
Al di fuori dell’Assemblea il dibattito politico era ancora più vivace, animato da club politici rivoluzionari, come Giacobini e Cordiglieri, e dai giornali. Argomento delle sessioni assembleari e di quelle dei club politici era l’estensione dei poteri del sovrano. L’Assemblea mise mano a un articolato disegno di riforme:

il paese fu diviso in 83 dipartimenti e vennero aboliti i dazi doganali interni, smantellando così il tradizionale centralismo della monarchia francese;
vengono istituiti tribunali civili comunali e distrettuali, e tribunali penali distrettuali, e viene modificato l’accesso ai ruoli delle cariche in magistratura in forma elettiva;
i beni del clero furono confiscati e messi a disposizione della nazione mediante l’emissione degli assegnati, sorta di buoni del tesoro dell’epoca; la successiva trasformazione degli assegnati in carta moneta, e la sua crescente produzione, finì però con il deprezzarli, causando l’inflazione;
viene varata la Costituzione Civile del Clero, il 12 luglio 1790, con cui la chiesa francese viene statalizzata e riorganizzata, istituendo una diocesi in ogni dipartimento ed eliminando quelle superflue, rendendo elettive e retribuite dallo stato le cariche ecclesiastiche e sopprimendo monasteri e conventi. La Costituzione viene condannata dal papa e spacca il clero in due fazioni, costituzionali e refrattari.

Nel frattempo inizia la fuga degli aristocratici ostili alla causa rivoluzionaria. Le connivenze della regina Maria Antonietta con i controrivoluzionari austriaci favoriscono la preparazione del piano di fuga di Luigi XVI: ma nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1790 il tentativo di fuga del re è intercettato a Varennes, al confine con i Paesi Bassi austriaci; il re, tratto prigioniero, viene ricondotto a Parigi. La fuga sciolse ogni dubbio politico e il sovrano fu privato delle sue funzioni.
Il tentativo di fuga e i successivi provvedimenti radicalizzarono però anche la divisione tra i due schieramenti politici, con una fazione moderata che avrebbe voluto restituire Luigi XVI sul trono e la fazione più estremista di Cordiglieri e sanculotti che volevano la repubblica. Il conflitto politico si inasprisce tra gli stessi Giacobini, che si dividono in una minoranza radicale, guidata da Maximilien Robespierre, e una moderata detta dei Foglianti. La maggioranza moderata della Costituente dichiara il potere sovrano inviolabile e, con un atto di forza, ristabilisce Luigi XVI nelle sue funzioni regali, il 15 luglio 1791: la reazione della sinistra repubblicana fu violentissima e si concluse con il drammatico eccidio del Campo di Marte, dove 40 sanculotti rimasero uccisi; i dimostranti furono dispersi dalla Guardia Nazionale del Lafayette.
Il 3 settembre 1791 viene finalmente varata la Costituzione, che trasformava la Francia in monarchia costituzionale.

Il potere legislativo era esercitato dall’Assemblea Nazionale (745 deputati eletti ogni due anni con sistema censitario).

Il potere esecutivo era affidato al sovrano, che poteva esercitare il diritto di veto sospensivo sulle leggi.
Il potere giudiziario era affidato a una magistratura autonoma eletta dai cittadini.

L’approvazione della nuova Costituzione segnava la vittoria della borghesia proprietaria, che era riuscita a escludere dal gioco politico i ceti meno abbienti con l’introduzione del sistema elettivo censitario, e nel contempo a escludere le prerogative tardo feudali dell’aristocrazia attraverso la promozione di una politica di mercato liberale e priva di vincoli monopolistici.

Concluso l’operato della Costituente, la nuova Assemblea si disse Legislativa e nella sua composizione sedevano ora uomini nuovi, poiché fu vietato ai costituenti di ricandidarsi.
Questi erano gli schieramenti dell’Assemblea:
a destra i conservatori, circa 250, principalmente Foglianti  e lafayettisti, che ritenevano concluso il processo rivoluzionario con la Costituzione del 1791;
al centro gli indipendenti, circa 350, detti ironicamente la Palude per il loro atteggiamento oscillante tra destra e sinistra;
a sinistra i radicali Giacobini, 136, con una piccola presenza di Cordiglieri e con il sottogruppo dei Brissottini (dal nome del loro capogruppo, Brissot), poi detti Girondini poiché provenienti in buona parte dal dipartimento della Gironda.
La tensione sociale era salita e i Giacobini si erano alleati con i sanculotti, per rovesciare il potere e istituire il regime repubblicano. Sul fronte internazionale intanto si preparava un possibile attacco di Austria, Prussia e Russia ai danni della Francia, soprattutto per evitare che i germi della rivoluzione si propagassero in Europa.

3 - LA PRIMA REPUBBLICA

La maggioranza dei Foglianti si dimostrò ben presto incapace di gestire il proprio ministero: sia nell’arginare le continue tensioni sociali fomentate dai Giacobini, sia nel risolvere la pericolosa frattura internazionale che aveva condotto alla formazione del fronte antirivoluzionario europeo. Un buon numero di fuoriusciti si appella intanto all’imperatore austriaco Leopoldo II affinchè dichiari guerra alla Francia, e nella stessa Francia si forma un sempre più consistente partito interventista, formato dai Girondini borghesi, che avrebbero tratto indubitabili vantaggi economici e politici dalla guerra, dal re che avrebbe rilanciato la monarchia in caso di vittoria, e dai lafayettisti che speravano di rafforzare le posizioni conservatrici. Voce fuori dal coro era quella dei Giacobini più intransigenti, guidati da Robespierre, che non si fidavano giustamente del facile consenso di Luigi XVI al conflitto. La svolta decisiva nel dibattito si ebbe nel 1792 con l’ascesa al trono d’Austria di Francesco II, favorevole alla guerra, e, quasi in contemporanea, con l’avvento al potere dei Brissottini della Gironda, da sempre teorici dell’intervento armato. Il 20 aprile dello stesso anno l’Assemblea Nazionale votava a larghissima maggioranza la Dichiarazione di Guerra all’Austria, poi estesa anche alla Prussia.
Le operazioni volsero subito al peggio, sia per la defezione di molti nobili ufficiali francesi passati al nemico, sia per la disorganizzazione e la debolezza dell’esercito rivoluzionario. Le prime sconfitte radicalizzarono la situazione sociale e politica, già di per sé estrema: i moderati accusavano i Girondini di essere i responsabili del fallimento della guerra a causa delle agitazioni sociali, i democratici invece accusavano i nobili di connivenza col nemico. Il re fu obbligato a richiamare all’ordine i preti refrattari alla Costituzione Civile del Clero e ad approntare ventimila federati in mobilitazione nell’eventualità dell’imminente invasione. Fu proprio il timore dell’invasione a rinsaldare la sinistra, anche se furono probabilmente i sanculotti i veri protagonisti degli eventi che seguirono.
Il duca di Brunswick, alla testa del fronte controrivoluzionario, minaccia di distruggere Parigi se il re e la sua famiglia fossero stati oltraggiati: poco dopo, mentre i Giacobini instauravano la Comune Insurrezionale, il 10 agosto i sanculotti assaltano il palazzo delle Tuileries. L’Assemblea fu costretta così a sospendere di nuovo Luigi XVI dalle sue funzioni e a imprigionarlo nella Torre del Tempio; inoltre furono indette nuove elezioni a suffragio universale per istituire una Convenzione Nazionale al posto dell’Assemblea, mentre i compiti di governo venivano affidati a un esecutivo provvisorio di sei membri, di cui faceva parte Danton. Il colpo di stato sanculotto segnava la fine della monarchia, e soprattutto la sconfitta dei moderati borghesi che fino a quel momento avevano deciso le sorti della rivoluzione. La Comune era diventata il centro del potere. Nel frattempo però cadevano i presidi vicini alla capitale e la folla dei sanculotti, esasperata dal pericolo, reagiva in maniera violenta, come nel caso dell’assalto al carcere, dove vennero massacrati nobili, preti refrattari e persino comuni carcerati.
Il 20 settembre 1792 si insediava la Convenzione Nazionale: ne erano esclusi nobili e moderati, tutti sospettati di connivenza con il nemico. Nello stesso giorno l’esercito francese fermava vittoriosamente il fronte controrivoluzionario a Valmy. Il giorno dopo la Convenzione Nazionale dichiarava abolita la monarchia e proclamava la Repubblica.

4 - LA DITTATURA GIACOBINA

Il biennio seguente, tra il 1792 e il 1794, rappresenta la fase più convulsa della Rivoluzione e comprende:

la guerra tra Girondini e Montagnardi;
la dittatura giacobin
la reazione termidoriana e la fine della dittatura.

Innanzitutto gli schieramenti interni alla Convenzione erano certamente mutati dai tempi dell’Assemblea Nazionale. A destra c’erano ora i Girondini, borghesi e repubblicani sinceri, moderati nelle loro rivendicazioni politiche; al centro sedevano ancora i deputati della Palude, detti ora anche Pianura; a sinistra sedevano gli intransigenti Giacobini detti Montagnardi, poiché occupavano gli scranni più alti.
L’esercito francese del generale Dumoriez continuava intanto a mietere successi e ad aprirsi utili varchi verso il Belgio. Il 10 dicembre 1792 iniziava il processo a Luigi XVI: invano i Girondini cercarono di salvare il re dalla ghigliottina. Nella votazione decisiva prevalsero le tesi della Montagna, che rimproverava al sovrano una assoluta inadempienza al ruolo di sovrano costituzionale, e, con l’appoggio della Palude, Luigi XVI fu condannato a morte. La sentenza venne eseguita il 21 gennaio dell’anno seguente, 1793.
Forte dei successi ottenuti, l’impegno espansionistico della Francia si rafforza, con le dichiarazioni di guerra a Olanda e Inghilterra, e con l’istituzione di una leva obbligatoria, che porta nelle file dell’esercito francese trecentomila coscritti. I deputati della Montagna chiedono alla Convenzione l’istituzione di uno speciale Tribunale Rivoluzionario contro i sospetti di connivenza col nemico: il clima di terrore disordinato coinvolge tutte le istituzioni. Ad animare la révanche non era solo un interesse economico e politico, ma anche una precisa missione di liberazione di cui i Giacobini si sentivano investiti. Le potenze europee, guidate dall’Inghilterra, si uniscono nella Prima coalizione antifrancese; nel frattempo l’esercito rivoluzionario è in difficoltà, perché il generale Dumoriez reagisce all’istituzione del Tribunale Rivoluzionario contro i sospetti passando al nemico. La stessa opinione internazionale guarda con sfavore alla causa rivoluzionaria dopo l’esecuzione di Luigi XVI.
Nel marzo 1793 si ribella la Vandea, con un folto gruppo di dissidenti formato da preti refrattari, nobili e contadini. Mentre la situazione economica si riaggravava, e le sorti della guerra, dopo la defezione del Dumoriez, iniziavano a decadere, il malcontento, iniziato in Vandea si diffondeva. I Montagnardi istituiscono il Comitato di Salute Pubblica, al fine di esercitare un controllo più preciso sulla leva di massa: i Girondini però si rendevano conto che la Montagna voleva istituire una dittatura e promuovono una campagna antigiacobina che culmina con l’insurrezione contro i Girondini di Parigi il 31 maggio 1793. Il 2 giugno i sanculotti assaltano i locali della Convenzione e fanno arrestare 29 deputati Girondini. La Montagna prende definitivamente in mano il potere. Mentre i Girondini superstiti animavano una propaganda antigiacobina nel dipartimenti, la Convenzione si metteva al lavoro per consegnare una nuova carta costituzionale, e dando vita a un articolato programma di riforme democratiche.
Il 24 giugno del 1793 la Convenzione varava la nuova Costituzione democratica. Era un documento che non si discostava molto dai dettami del 1789, ma fortemente orientata in senso egualitario e democratico. Tutti i cittadini erano uguali e tutti degni di partecipare alla gestione dello stato indicendo il suffragio universale maschile; inoltre, pur senza toccare la proprietà privata, la nuova Costituzione cercava di mediare il problema della disuguaglianza economica tra i cittadini con una nuova Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. Pochi giorni dopo il leader Marat veniva assassinato dalla giovane realista normanna Charlotte Corday.
Nel luglio del 1793 il Comitato di Salute Pubblica, con Robespierre e Saint Just in prima linea, assume ufficialmente il controllo dell’esecutivo e impone la coscrizione obbligatoria mobilitando 570 mila francesi contro il nemico. L’emergenza della situazione, interna ed esterna, imponeva al Comitato la rinuncia alla separazione dei poteri, che dovevano essere affidati nelle mani di un solo ente per arginare il precipitare degli eventi politici, sociali e militari. Sotto la pressione sanculotta, il Comitato di Salute Pubblica, coadiuvato dalla polizia politica del Comitato di Sicurezza Generale, inizia a governare col metodo del Terrore, una feroce repressione che nel giro di poco tempo porta sul patibolo 17 mila sospettati di simpatie rivoluzionarie, tra cui la deposta regina Maria Antonietta.
Il 29 settembre viene approvata la legge sul maximum dei prezzi, per calmierare i costi dei beni di prima necessità nell’imminente recrudescenza del conflitto e al fine di scongiurare le speculazioni. Si procede alla laicizzazione dello stato con la soppressione della domenica religiosa, e viene promossa la cultura repubblicana con l’adozione di un nuovo calendario rivoluzionario che calcolava i giorni dal 22 settembre 1792, cioè il primo giorno della repubblica, e dava ai mesi il nome di eventi legati al mondo contadino (Vendemmiaio, Brumaio, Frimaio, Nevoso, Piovoso, Ventoso, Germinale, Fiorile, Pratile, Messidoro, Termidoro, Fruttidoro); inoltre inizia la campagna di scristianizzazione promossa dal gruppo estremista degli Arrabbiati, guidati da Jacques Hébert, volta alla soppressione del culto e del clero cattolici, sostituiti dal culto dei Martiri della Rivoluzione (come Marat) e della dea Ragione.
Nonostante i successi sui due fronti, quello interno e quello esterno, la dittatura giacobina poggiava su un terreno precario, soprattutto per la lotta politica tra gli estremisti sanculotti degli Arrabbiati e i moderati Indulgenti guidati da Danton che chiedevano la soppressione del regime del Terrore. Robespierre si alleò dapprima con gli Indulgenti, mandando a morte molti sanculotti di cui non condivideva le posizioni ateistiche, essendo lui un convinto deista, e poi non esitò a far condannare i capi degli stessi indulgenti a cui rimproverava atti di speculazione e corruzione. Robespierre arrivò dunque a una dittatura personale. Per definizione incorruttibile, Robespierre si ispirava alle teorie democratiche di Rousseau e intendeva istituire una società di eguali, senza ricchi o poveri. Dal punto di vista religioso introdusse il culto dell’Essere Supremo, con tanto di decreto e di festa comandata, e dell’immortalità dell’anima. Questa mossa non fu gradita dai sanculotti atei, che si unirono ai contadini nella lotta antigiacobina.
Il precario equilibrio della dittatura giacobina culminava col Grande Terrore: una legge sui sospetti dava facoltà al Comitato di Salute Pubblica di condannare i sospettati senza processo. Era una mossa inutile perché giungeva proprio nel periodo in cui la Francia poteva vantare nuovi successi nelle campagne militari e mentre la situazione interna era ormai stata domata. La reazione al regime fu durissima. Coadiuvati dalla Pianura, i deputati della Convenzione, unitamente ai fuoriusciti, preparano una congiura per rovesciare Robespierre. Questi cerca di affidarsi alla Convenzione, ma il 27 luglio (9 termidoro) 1794 la congiura antigiacobina fa arrestare come tiranni Robespierre, Saint Just e altri venti capi giacobini, che vengono ghigliottinati il 28 luglio, senza processo, e di fronte al popolo in muto silenzio.

Il nuovo schieramento al potere era costituito dai Girondini superstiti, reintegrati nella Convenzione, e dai deputati della Pianura. La Convenzione Nazionale riprese i suoi poteri, affiancata da quattordici nuovi Comitati (in sostanza dei dicasteri) e inizia  il processo di smantellamento del regime del Terrore instaurato da Robespierre e dai Giacobini oltranzisti. Ma la degiacobinizzazione del paese attraversa una fase ancora molto cruenta, detta Terrore bianco – per distinguerla dal Terrore rosso di matrice giacobina – in cui protagoniste furono le bande della jeunesse dorée parigina, ossia i rampolli della buona borghesia, che davano la caccia ai comunisti e ai sanculotti rimasti. Tutti i vecchi club patriottici sono chiusi, ovviamente compresi quelli giacobini, e sono aboliti tutti i tribunali e le istituzioni del precedente regime. Il ripristino della libera iniziativa economica è l’atto che riconsegna di fatto la causa rivoluzionaria nelle mani della borghesia. L’unica istituzione che resta in piedi  è l’esercito, anche se la guerra contro la Coalizione conobbe in questo periodo un attimo di stasi, favorendo l’invasione francese del Belgio e della Repubblica Batava (ex Olanda).

5 - LA REPUBBLICA TERMIDORIANA

Questo ritorno alla normalità non fu però tranquillo, perché i termidoriani dovevano fare i conti con una tenace opposizione da destra e da sinistra: da sinistra perché la Convenzione aveva, come primo atto formale, abolito il calmiere sui prezzi, provocando la temuta speculazione e l’inevitabile inflazione, da destra perché ancora sopravvivevano sentimenti filomonarchici, accentrati ancora una volta in Vandea.
Erano soprattutto le masse a insorgere, al grido di “pane e costituzione” ma l’insurrezione popolare di Parigi del  maggio 1795 fu duramente repressa (e fu anche l’ultima) e i capifazione giacobini e sanculotti furono messi a morte. Sul fronte internazionale vengono firmati trattati di pace con le potenze della Coalizione, solo l’Austria e l’Inghilterra restano in guerra. Nel frattempo si riaccende il focolaio rivoluzionario in Vandea, dove i realisti tentano l’ennesima restaurazione della monarchia. A reprimere l’insurrezione viene inviato l’esercito comandato da un giovanissimo Napoleone Bonaparte.
Il 22 agosto 1795 viene varata la nuova Costituzione, che si disse “dell’anno III” poiché cadeva nel terzo anno della repubblica. Il potere venne nuovamente ripartito:
quello legislativo fu affidato a due camere, un Consiglio dei Cinquecento e un Consiglio degli Anziani, eletti a suffragio censitario ogni tre anni;
il potere esecutivo viene affidato a un Direttorio di cinque membri, eletti dalle camere, col compito di nominare i ministri e i capi dell’esercito.
La stessa Dichiarazione dei Diritti fu nuovamente corretta, col ripristino della libera iniziativa economica, e furono vietate le associazioni popolari: si trattava dunque di misure di cautela  con cui la nuova maggioranza voleva impedire ogni tentativo insurrezionale e soprattutto ogni possibilità di rovesciamento politico; lo stesso ripristino del sistema censitario garantiva a tutti eguali diritti ma tornava a limitare l’accesso alla vita politica attiva alle frange più incontrollabili del giacobinismo estremo. Compiuta la transizione e assicuratasi la  maggioranza alle camere, la Convenzione si sciolse il 26 ottobre.