giovedì 16 giugno 2016

Classe 4 Storia

Classe 4 Storia
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CLASSE QUARTA - MODULO 1 - STORIA
L’età di Luigi XIV

INTRODUZIONE

La prima metà del XVII secolo si chiude di fatto con la pace di Westfalia del 1648, pace che chiude sia la Guerra dei Trent’Anni sia il disegno unificatore della dinastia asburgica. La seconda metà del secolo vede dunque la definitiva affermazione dell’egemonia francese sotto il regno assolutista di Luigi XIV (la cui politica era ben definita dalla sua leggendaria frase “Una sola fede, una sola legge, un solo re”) e il tramonto della Spagna e dell’impero degli Asburgo.

LA FRANCIA ASSOLUTISTA
LA MONARCHIA DI LUIGI XIV

Nel giro di pochi mesi, nel 1642, muoiono sia Richelieu sia il re Luigi XIII. Il delfino era il piccolo Luigi XIV, affidato poiché minorenne alla reggenza della madre Anna d’Austria. Primo ministro era un altro cardinale, l’italiano Giulio Mazarino, indicato dallo stesso Richelieu come suo successore. Le vittorie di Rocroi e di Lens dell’esercito francese guidato dal principe di Condè regalano alla Francia la vittoria nella Guerra dei Trent’Anni e la posizione egemone che conserverà per tutto il secolo, ma il severo regime di pressione fiscale intensificato da Mazarino per arginare le difficoltà finanziarie derivanti dall’intervento armato provocarono una nuova serie di malumori e di tensioni sociali.
Nel 1648 viene firmata la Pace di Westfalia ma la Spagna non intende cedere e continua la guerra con la Francia. Lo stesso anno, mentre Mazarino restaurava la paulette, scoppiava la Fronda parlamentare, rivolta aperta e dichiarata, che supportava un programma di riforme tese a ripristinare un potere meno oppressivo. Mazarino fece arrestare subito alcuni esponenti della Fronda: per reazione Parigi insorge e la rivolta si estende anche alle province, costringendo Mazarino a fuggire. Pochi mesi dopo la pace di Rueil chiude la controversia, ma scoppia subito un’altra Fronda, guidata dai nobili di spada con alla testa lo stesso principe di Condè. La Fronda principesca fu molto più estesa e pericolosa di quella parlamentare e mirava a cacciare Mazarino per riportare il potere regio sotto la propria influenza. La pericolosità era acuita soprattutto dalla partecipazione del popolo che si era sentito tradito dalla Fronda parlamentare dopo la firma della pace di Rueil ed era confluito tra i frondisti della nobiltà di spada.
Nel 1657 le mire espansionistiche del cardinale Mazarino portano la Francia a un’alleanza con l’Inghilterra a danno della Spagna. Così, mentre la flotta inglese intercetta i convogli spagnoli diretti nelle Fiandre, la Francia invade i Paesi Bassi e obbliga il re di Spagna Filippo IV alla resa. Nel 1659 viene firmata la Pace dei Pirenei, con cui la Francia sottrae alla Spagna il Roussillon e parte delle Fiandre, mentre il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta di Spagna Maria Teresa, figlia di Filippo IV, pone le basi per la definitiva subordinazione della Spagna alla corona francese. Proprio in virtù di questo matrimonio Luigi XIV attacca il nuovo sovrano spagnolo Carlo II in quella che viene chiamata Guerra di Devoluzione (il nome deriva dal fatto che Luigi XIV rivendicava i Paesi Bassi spagnoli, che dovevano essere appunto devoluti alla Francia per il suo matrimonio con Maria Teresa), guerra che si conclude col successo francese nel 1668.
Nel 1672 la Francia inizia la guerra di annessione contro l’Olanda, ma il piccolo stato protestante, geloso della sua libertà e della propria identità religiosa e autonomistica, tiene coraggiosamente testa alle armate di Luigi XIV, aprendo le dighe e allagando il territorio per fermare l’avanzata francese. Protagonista della guerra è il ventiduenne Guglielmo d’Orange, che riesce a isolare la Francia con una brillante azione diplomatica, riuscendo anche a portare dalla sua parte altri paesi tradizionalmente avversi a Luigi XIV. Dopo sei anni di ostilità, il conflitto, che ormai aveva assunto proporzioni internazionali, si interrompe per l’attacco turco in Ungheria, che vede unite le potenze europee cristiane contro l’avanzata islamica, e nel 1678 viene firmata la pace di Nimega, dove la Francia allarga ulteriormente il suo territorio ma lascia indenne l’Olanda.
Dopo la pace di Nimega Luigi XIV comincia una importante politica di annessione territoriale, che si basava su una interpretazione unilaterale degli accordi della pace di Westfalia e della pace appena firmata; l’accordo riguardava infatti anche le “dipendenze” dei territori assegnati alla Francia, e per questo Luigi XIV occupa militarmente vari centri come Metz e Strasburgo, e in Italia Casale Monferrato e Genova.
Sul fronte religioso si segnala la ripresa delle persecuzioni contro gli Ugonotti. Per affermare la chiesa nazionale francese, fedele alla monarchia, Luigi XIV revoca l’Editto di Nantes e costringe alla fuga i protestanti francesi.
Lo strapotere del Re Sole viene però osteggiato dalla Lega di Augusta, una potente coalizione antifrancese che raccoglie nel 1689 le principali potenze europee avverse alla Francia, che dichiarano guerra a Luigi XIV. Il conflitto si chiude nel 1697 con la capitolazione del Re Sole e con la firma della Pace di Rijswijk, che ridimensiona di molto il territorio francese e riassegna Casale e Pinerolo ai Savoia. La Francia riesce a conservare solo Strasburgo.
Il cardinale Giulio Mazarino è il vero artefice della politica espansionistica francese di questo periodo. Dopo la Guerra dei Trent’Anni il Mazarino fu costretto, come l’Olivares in Spagna, a una pesantissima riforma fiscale, che colpiva soprattutto i funzionari pubblici e che provocò la cosiddetta Fronda, dapprima del Parlamento e in seguito dei Principi. La Fronda viene debellata nel 1652, e, uscito di minorità, il nuovo re Luigi XIV approfitta della linea politica preparata dal Mazarino per mettere mano al suo piano assolutista. La chiesa è nazionalizzata e sottomessa alla corona francese con i quattro Articoli Gallicani e Gallicana si disse appunto la Chiesa di Stato. Ne nasce un inevitabile conflitto col papa Innocenzo XI, che dura dieci anni, al termine dei quali Luigi XIV ritira la Dichiarazione con cui istituiva gli Articoli, ma non rinuncia ad asservire la Chiesa alla Corona, poiché era un potere concesso da Dio. Roma è costretta ad accettare la nomina regia di quaranta vescovi. Ogni tentativo di dissidenza viene duramente represso, gli stessi ugonotti sono costretti a lasciare la Francia dopo che, nel 1685, l’Editto di Fontainebleau revoca l’Editto di Nantes. Ma, sempre in campo religioso, non si può non dimenticare la sorte toccata agli estremisti cattolici seguaci di Cornelius Jansen e perciò detti Giansenisti, la cui scuola di Port Royal viene considerata pericolosa e quindi chiusa nel 1710, mentre Antoine Arnauld, massimo esponente della scuola, viene esiliato nel 1677.
La nobiltà perde il suo ruolo politico e viene invece dirottata alla sfarzosa vita di Corte nella reggia di Versailles: scopo dell’allontanamento era evidentemente la repressione delle autonomie politiche di cui godeva l’alta aristocrazia parigina, che contrastavano col disegno assolutista di Luigi XIV. L’unica classe sociale a mantenere un po’ di autonomia è la borghesia cittadina e  la burocrazia dei cosiddetti officiers, che siedono nel Parlamento. Luigi XIV riesce, come altri sovrani assoluti europei, a controllare queste componenti sociali attraverso dei funzionari statali detti intendenti, di rigorosa nomina regia e per questo fiduciari del sovrano.
Tra gli uomini di fiducia del Re Sole vi era il controllore delle finanze Jean Baptiste Colbert, uomo chiave dell’economia mercantilistica francese, il quale appronta una politica protezionistica delle merci locali, gravando onerosamente le merci importate con pesanti dazi doganali. A rendere ulteriormente forte la politica economica del Colbert era ovviamente l’espansione coloniale, che aveva in quel periodo la Francia tra le protagoniste assolute.
Morto il cardinale Mazarino, Luigi XIV si circonda di uno staff di uomini nuovi, di provenienza borghese e di stretta fiducia del sovrano. Il progetto politico del Re Sole si riassumeva bene nella frase “Lo Stato sono io” con cui il re francese intendeva significare l’assoluta centralità e superiorità del potere della corona. Luigi XIV non si affida, dopo la morte di Mazarino, a un primo ministro ma governa personalmente l’amministrazione centrale avvalendosi di Consigli privati e di propria fiducia, e delegando l’amministrazione periferica ai già citati intendenti; inoltre ridimensiona drasticamente le prerogative del parlamento e deprime ogni attività politica della nobiltà di spada.

L’INGHILTERRA DEGLI STUART
LA GLORIOSA RIVOLUZIONE 

Tre erano le istituzioni che si fronteggiavano in Inghilterra durante la prima parte del Seicento: da un lato vi era la monarchia degli Stuart, decisa a promuovere un deciso assolutismo, dall’altro la Chiesa Anglicana, che voleva esercitare il controllo sulla corona, e il Parlamento, che era rappresentato dalla borghesia e dalla gentry. Nell’ultima parte della prima metà del   secolo, durante il regno di Carlo I Stuart, la tensione tra monarchia e Parlamento degenera nella Guerra Civile, che sotto la guida del Cromwell sconfigge il re e indice il regime repubblicano.
Come si ricorderà, dopo la segregazione e la condanna a morte della sfortunata regina di Scozia Maria Stuart, il di lei figlio Giacomo era stato preso in consegna dai protestanti per essere cresciuto nella religione riformata e, con il placet di Elisabetta, priva di discendenti diretti, era stato designato erede della corona unificata di Inghilterra e Scozia. Giacomo I era come sovrano espressione dell’assolutismo politico e della monarchia come diritto divino (non est potestas nisi a Deo, nessun potere se non dato da Dio)  e il suo primo atto da sovrano fu la pace con la Spagna nel 1604, sancita dal Trattato di Londra. Ma l’atmosfera era tutt’altro che pacifica: nello stesso anno infatti  i vescovi anglicani riuniti ad Hampton Court condannano il cattolicesimo e il puritanesimo - espressione della confessione anglicana più liberale e fautrice della separazione tra Chiesa e Stato – e l’anno successivo viene scoperta la Congiura delle Polveri, ordita dai cattolici reazionari per far saltare il Parlamento.   
La società inglese del periodo contava una ristretta oligarchia composta dalle famiglie dell’aristocrazia terriera, dai Lord o Pari e dai Vescovi della Chiesa Riformata. Era un periodo di intensa trasformazione economica, politica e sociale: nelle campagne erano molto attivi i membri della piccola nobiltà terriera della gentry, gli yeomen o contadini liberi e i liberi affittuari agricoli detti free-holders, mentre nelle città la borghesia e i mercanti iniziavano gradualmente la loro ascesa. La modernizzazione delle strutture sociali era stata infatti segnata dalle enclosures nelle campagne, ossia dalla recintazione dei vecchi open fields che assumevano un carattere ora non più feudale,  e dalla crescita delle aziende manifatturiere nelle città, che richiamavano spesso manodopera, favorendo l’inurbazione delle masse rurali.
Sul fronte religioso il terreno di scontro coinvolge la Chiesa Nazionale Anglicana e il suo impianto politico e spirituale e le comunità dei puritani che vorrebbero una chiesa più liberale e lontana da quelle forme esteriori che erano state condannate nel cattolicesimo. In realtà la contesa aveva un preciso carattere politico, in quanto la Chiesa Anglicana esercitava, con l’Atto di Supremazia, un effettivo controllo sugli affari di stato, mentre i puritani si battevano per una politica antiautoritaria e antiassolutista.
Nel 1625, alla morte di Giacomo I, sale al trono il figlio Carlo I, che entra subito in collisione col Parlamento quando, per far fronte alle spese di intervento militare, chiede l’emanazione di nuove e pesanti misure fiscali. La sua missione  protestante lo porta infatti sia nell’intervento a supporto dell’Olanda nella Guerra dei Trent’Anni, sia nell’aiuto dato agli ugonotti francesi assediati alla Rochelle. Le due camere convocate presentano tuttavia a Carlo la Petition of Right (dichiarazione dei diritti) con cui il sovrano si sarebbe impegnato a chiedere sempre al Parlamento l’autorizzazione a esercitare qualsiasi nuova misura di esazione fiscale e a concedere un regime più liberale. Carlo suo malgrado accetta, ma il contrasto col Parlamento aumenta al punto che nel 1629 le due Camere vengono sciolte e il leader parlamentare John Eliot è rinchiuso nella Torre di Londra, dove tre anni dopo morirà.
Nel 1629 comincia il governo assolutista di Carlo I, che guida direttamente il Parlamento coadiuvato dal primo ministro Thomas Wentworth, conte di Strafford, e dall’arcivescovo di Canterbury William Laud.  I puritani riparano sulle coste atlantiche dove fondano diverse colonie. Carlo I emana tassazioni abusive come la ship money, esazione imposta a Londra e alle città costiere per la costruzione della flotta; l’arcivescovo di Canterbury tenta di imporre la religione anglicana in Scozia, provocando la prima delle rivolte che metteranno fine alla monarchia degli Stuart.
Proprio la rivoluzione dei presbiteriani scozzesi impone a Carlo Stuart un nuovo disegno fiscale, per cui il sovrano si trova nella necessità di convocare il Parlamento, dapprima in una versione ristretta (lo short parliament, o Parlamento Corto) che durerà pochi mesi, sciolto dopo la richiesta degli stessi parlamentari di abolire la ship money, e quindi in una versione normale (long parliament, o Parlamento Lungo) guidata dai leader puritani Pym e Hampden, che durerà tredici anni. Il nuovo parlamento chiede l’immediata abrogazione degli organi più repressivi della corona e l’annullamento della ship money; chiede inoltre la destituzione e l’arresto di lord Strafford, colpevole di alto tradimento; e infine promuove col Root and Branch Bill una radicale riforma della chiesa Anglicana. La situazione della chiesa nazionale costituiva infatti una vera e propria spina nel fianco per i parlamentari inglesi, che nel 1642 approvano la Grande Rimostranza, un documento che denuncia le violazioni e le illegalità perpetrate dai membri della chiesa stessa chiedendo il controllo del parlamento sulle attività della chiesa Anglicana. Ma Carlo Stuart non molla e fugge da Londra, organizzando un proprio esercito, mentre lo stesso parlamento si organizza militarmente: nel giugno del 1642 iniziava così la guerra civile, che si combatte tra i Knights, i Cavalieri, ossia l’esercito stuartiano, e i Round Heads, le Teste Rotonde (il nome derivava dall’uso puritano di tenere i capelli cortissimi), fedeli  al parlamento. Dopo un primo bilancio a favore dei Knights, il parlamento affida le sorti della guerra a Oliver Cromwell, che assolda un nuovo esercito formato da cavalieri, detto Iron Sides ossia fianchi di ferro, che nel 1644 sconfigge a Marston Moor la cavalleria regia. Pochi mesi dopo Cromwell costituisce un nuovo esercito di ventiduemila uomini, la New Model Army, che nel giugno del 1645 sconfigge definitivamente Carlo I a Naseby: il re è catturato e consegnato al Parlamento. Padrone della scena politica, il parlamento inglese inizia lo smantellamento delle strutture più oppressive della chiesa Anglicana, che viene ridimensionata nel suo classico tratto episcopalista, ma le divisioni tra i parlamentari, politiche e religiose, influenzano lo sviluppo della situazione: a rendere le cose difficili è l’atteggiamento oltranzista dei cosiddetti Levellers che erano favorevoli a un regime repubblicano, mentre la controparte presbiteriana sosteneva la possibilità di un dialogo col re a patto che questi accettasse il controllo del parlamento sulla corona. Riunite a Putney le due fazioni si scontrano sul radicale Patto del Popolo (Agreement of People) il documento con cui i Levellers chiedevano la repubblica, contrastati dalle posizioni più blande del Cromwell che riesce a non far approvare il documento. Una svolta si ebbe improvvisa con la fuga di Carlo I in Scozia, deciso a riprendere la guerra civile. Cromwell procede all’epurazione delle fazioni più estreme del parlamento promuovendo il cosiddetto Rump Parliament, troncone di parlamento, così chiamato perché composto da soli sessanta indipendenti. Gli scozzesi vengono sconfitti a Preston e per salvarsi consegnano Carlo I all’esercito parlamentare. Processato per alto tradimento, il re viene giustiziato nel 1649.
Giustiziato nel 1649 Carlo I Stuart l’Inghilterra si trova sotto la dittatura repubblicana del Cromwell. Tornato in patria il Cromwell scioglie il Parlamento e ne forma uno nuovo, ma le idee progressiste dei Levellers, e delle sette puritane e millenariste lo portano a sciogliere il Parlamento neocostituito e a governare con il solo appoggio dell’esercito, dopo essersi fatto nominare Lord Protettore d’Inghilterra. Nel 1657 gli viene offerta la corona ma Cromwell la rifiuta, chiedendo solo l’ereditarietà della sua carica. Errore del Cromwell fu la ricostituzione della Camera dei Lord e la persecuzione di una politica conservatrice che guardava alla salvaguardia della proprietà privata.
Nel 1651 viene emanato l’Atto di Navigazione, che imponeva lo sbarco nei porti inglesi dei soli mercantili inglesi. Il provvedimento penalizzava l’economia olandese, e l’Olanda entrò in conflitto con l’Inghilterra in quella che fu detta Guerra dell’Atto di Navigazione e che si dipanò in due fasi cruciali. Nella prima l’Olanda fu costretta ad accettare la resa e soprattutto ad accettare una condizione umiliante (quando una nave olandese avesse incontrato una nave battente bandiera inglese avrebbe dovuto rendere il saluto per prima); nella seconda guerra l’Olanda viene nuovamente sconfitta ed è costretta a firmare nel 1667 la pace di Breda, con cui cede all’Inghilterra la colonia nordamericana di Nuova Amsterdam, che diventa New York.
Nel 1658 muore Oliver Cromwell. La sua scomparsa segna un periodo di caos politico, in cui inutilmente il figlio di Cromwell, Richard, cerca di salire al potere. A salire sul trono è invece il legittimo erede Stuart, Carlo II, che aveva vissuto alla corte francese dl Re Sole, e che rientra nel 1660 a Londra dall’Olanda, dopo che il Parlamento inglese, ricostituito dopo la marcia del generale Monk nel 1660, ha restaurato la monarchia. Inizialmente l’esordio politico del nuovo re sembra improntato a un forte liberalismo e a una politica religiosa tollerante, ma in seguito Carlo II ricostituisce la Chiesa Anglicana, punisce i puritani e appoggia la politica espansionistica francese, in virtù dei buoni rapporti col Re Sole. La sudditanza inglese alla Francia si aggrava quando, morto Carlo II, sale al trono  suo fratello Giacomo II. La dipendenza da Luigi XIV è tale che Giacomo arriva a restaurare il cattolicesimo, provocando una sollevazione di Anglicani e puritani, per una volta su un fronte comune, che passò alla storia come Gloriosa Rivoluzione. Temendo una eccessiva francesizzazione del proprio paese, gli Anglicani offrono la corona d’Inghilterra al genero di Giacomo, l’olandese Guglielmo d’Orange, nemico della Francia, che sbarca in Inghilterra nel 1688, depone il re che fugge in Francia, e sale al trono col nome di Guglielmo III. La Gloriosa Rivoluzione fu attuata in maniera indolore e segna anche la nascita di una potenza commerciale e navale anglo-olandese, praticamente superiore tra quelle europee. Il deposto re Giacomo II sbarca in Irlanda con l’appoggio francese per tentare una sollevazione cattolica contro l’Inghilterra, ma viene sconfitto a Drogheda.
Con la rivoluzione inglese nasce la moderna concezione liberale e parlamentare tipica del pensiero politico britannico. Già durante il regno degli Stuart si delineano due linee politiche, quella dei progressisti Whigs e quella conservatrice e filofrancese dei Tories, antesignane dei partiti politici odierni. Ma l’elemento di spicco della rivoluzione fu l’approvazione dell’Habeas Corpus Act, il documento con cui nel 1679 il Parlamento inglese contrastava la politica autoritaria di Carlo II sostenendo l’inviolabilità del cittadino che era libero di esprimere le proprie idee politiche senza essere arbitrariamente arrestato. Dieci anni dopo Guglielmo III ratifica i contenuti dell’Habeas Corpus nella Dichiarazione dei Diritti, impegnando la monarchia inglese al rispetto del Parlamento e delle autonomie locali. Il potere esecutivo, come stabilito dal Bill of Rights, è esercitato congiuntamente dal re e dal Parlamento; il solo Parlamento ha diritto di imporre tasse e di costituire un esercito; il re ha anche il dovere di rispettare le libertà di pensiero e di stampa, esercitate dai sudditi. L’Inghilterra diventa così la prima monarchia costituzionale.

LA RUSSIA DA IVAN IV A PIETRO IL GRANDE

Il fortissimo impero costituito dallo zar Ivan IV sembrò vacillare a inizio secolo per alcuni torbidi dinastici, ma si riprese con l’appoggio dei boiari, che portarono al potere Michele I Romanov. Il regno dello zar Michele è molto prospero e l’autocrazia zarista viene supportata dal lavoro della Duma (il parlamento) costituito dall’aristocrazia dei boiari. Dopo Michele regna lo zar Alessio Romanov, sotto il quale prende forma la servitù della gleba, osteggiata dai contadini russi. Chiude il secolo XVII il regno dello zar Fedor II.   
Pietro il Grande, zar di Russia, fu l’artefice della rinnovata grandezza del suo paese. Alla fine del Seicento, quando Pietro salì al trono, trovò un paese immenso ma indebolito nelle sue strutture sociali ed economiche e una profonda arretratezza. Perciò si propose una immediata modernizzazione del paese, e un rilancio in ambito europeo. Fu un viaggio in Occidente a convincere lo zar del ruolo che la Russia avrebbe potuto giocare in Europa, e simbolo di questo nuovo ruolo fu la città di Pietroburgo, voluta dallo stesso zar come una “finestra sull’Occidente” e simboleggiante il nuovo corso russo.
Politicamente le riforme di Pietro il Grande ricalcarono il centralismo e l’assolutismo delle grandi monarchie europee, con un notevole rafforzamento del potere centrale e di una migliore distribuzione di questo sullo sconfinato territorio russo, mediante l’istituzione di collegi e governatorati. L’apparato fiscale fu riordinato e la Russia adottò la stessa politica mercantilistica della Francia. Al controllo zarista non sfuggì nemmeno la Chiesa.
Sicuramente la mossa vincente dello zar fu il ridimensionamento dei poteri dell’aristocrazia terriera, con la soppressione della Duma dei boiari e con l’invito fatto ai nobili di porsi al servizio dello stato, introducendo un attento accesso meritocratico ai ruoli della nobiltà anche per i non aristocratici (Tavola dei Ranghi); ma anche imponendo una maggiore cura europea nell’abbigliamento e nello stile, obbligando ad esempio al taglio della barba.
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CLASSE QUARTA - MODULO 2 - STORIA
Il Settecento e l’Illuminismo

INTRODUZIONE

Il secolo XVIII si potrebbe dividere storicamente in due fasi, una di equilibrio e una rivoluzionaria. Lo storico francese Godechot non esita infatti a inserire le rivoluzioni borghesi che interesseranno la seconda parte del Settecento e la prima parte dell’Ottocento in un movimento ben più vasto che egli definisce rivoluzione atlantica, una rivoluzione che ha le radici storiche, politiche e culturali nella prima metà del secolo. Il Settecento viene frazionato come i secoli precedenti da una pace, la pace di Aquisgrana del 1748, a un secolo esatto dalla pace di Westfalia. Il secolo si apre con uno stato di belligeranza che coinvolge le principali monarchie europee impegnate nelle cosiddette guerre di successione, la prima delle quali è quella che si apre dopo la morte del re di Spagna Carlo II e che segnò la fine del disegno espansionistico del Re Sole. Molto importante da sottolineare è la politica diplomatica intrecciata dai vari paesi europei allo scopo di evitare la presenza di una nazione egemone: la prima parte del secolo si chiude con uno stato politico di equilibrio. La vera grande guerra della prima metà del secolo è la guerra dei Sette Anni, che coinvolge le grandi cinque potenze europee del Settecento: la Francia, l’Inghilterra, la Prussia, l’Austria e, per la prima volta, la Russia. La pace di Aquisgrana ridisegnava la carta geopolitica dell’Europa e, nella seconda metà del secolo, dopo la restaurazione si procedeva alle riforme politiche e sociali. La cultura dell’Illuminismo aveva infatti prodotto una radicale svolta non solo nella storia del pensiero ma anche in quella economica e sociale, e andavano affermandosi delle nuove identità politiche che si sarebbero poi espresse con l’avvento delle grandi rivoluzioni borghesi. Non ultima ovviamente la rivoluzione industriale, il cui terreno strutturale si poteva già intravedere nell’Inghilterra del Seicento, favorita dalle innovazioni tecnologiche e dall’affermarsi della libera impresa.
Il Settecento si apre all’insegna dell’equilibrio. Le guerre che sconvolgono la prima metà del secolo XVIII furono di carattere dinastico, e costituirono il rischio di un rafforzamento della Francia. Le diplomazie europee cercarono di non compromettere il delicato equilibrio ottenuto dopo la pace di Rijswijk e per questo non esitarono a intervenire nella guerra di successione austriaca, garantendo la legittimità della corona imperiale di Maria Teresa d’Asburgo. Dalla pace di Aquisgrana del 1748 usciranno cinque potenze: la Francia assolutista, l’Inghilterra costituzionale, la Russia zarista, l’Austria di Maria Teresa e la vera outsider, cioè la Prussia degli Hohenzollern.
Due sono i fenomeni degni di nota sul piano politico e sociale: l’Illuminismo e la rivoluzione industriale.
Il primo rappresenta un ideale movimento di riforma sociale, politica, economica e culturale, movimento che nasce in Francia ma che si estende ai vicini stati europei dove è la stessa autorità regia a sposare le direttive della nuova intellighenzia illuminata. L’Illuminismo ebbe anche il merito di riproporre quella libertà dell’uomo e del cittadino che troverà larga eco in ambito rivoluzionario.
Il fenomeno dell’industrializzazione nasce ovviamente in Inghilterra dove fin dal secolo precedente l’industria e l’azienda avevano operato una radicale trasformazione del territorio. Le trasformazioni in campo economico si accompagnarono a quelle sociali, con la nascita delle nuove classi della borghesia industriale e del proletariato urbano.

L’ILLUMINISMO

Il Settecento fu il secolo dell’Illuminismo. Si trattava di un imponente movimento di riforma culturale, filosofica, politica e sociale, che si proponeva di illuminare con i lumi della ragione le tenebre dell’ignoranza, ma soprattutto si proponeva una radicale riforma della società. La filosofia illuminista nasce in Francia, sul terreno giusnaturalista e contrattualista, e raccoglieva l’eredità dei movimenti che predicavano la tolleranza e la libertà dell’individuo. Tra i maggiori nemici dell’Illuminismo c’era la cultura dogmatica e autoritaria della religione cattolica, a cui gli illuministi opponevano la cultura laica della ragione. Il movimento nasceva in Francia, ma si estese subito ai paesi vicini e soprattutto nell’Europa centro meridionale, dove i sovrani dettero vita a un vasto programma di riforme sotto l’egida di quella tendenza politica di rinnovamento della società che fu detta dispotismo illuminato.
Le basi culturali della rivoluzione culturale illuminista vanno ricercate:
nel progresso scientifico e nella fisica newtoniana;
nel pensiero contrattualista di Hobbes e di Locke;
nel pensiero econonomico fisiocratico di Quesnay in Francia e nel liberismo di Smith in Inghilterra;
nella grande trasformazione industriale dell’Europa;
nel razionalismo scientifico.

GEOGRAFIA DELL’ILLUMINISMO EUROPEO

In Inghilterra -  I principali modelli teorici dell’Illuminismo nascono proprio in Inghilterra: la fisica newtoniana, la politica e la morale di Locke, la teoria economica di Adam Smith, trovano la loro culla ideale nella monarchia costituzionale inglese, che rappresenta nell’Europa assolutista del Settecento l’unico stato in cui il Parlamento esprime un ruolo portante. Mentre l’Illuminismo inglese si trova subito a svolgere un ruolo mediatore tra valori aristocratici e borghesi, dettato dal clima di equilibrio politico e culturale, molto più vivace risultava invece l’Illuminismo scozzese del Select Club di Edimburgo, a cui appartengono il filosofo David Hume e l’economista Adam Smith. Tra i canali preferenziali dell’Illuminismo inglese vi era la Libera Muratoria, vero sistema di diffusione delle idee illuminate, a partire dalla fondazione della Gran Loggia di Londra nel 1717, da cui il fenomeno muratorio si estende in tutta Europa. Gli aderenti alla Loggia erano detti free mason, dal francese maçon, ossia muratore, e per questo motivo l’istituzione è anche nota come Massoneria. Scopo dei liberi muratori era il fine solidaristico e assistenziale, ma anche scopi culturali volti allo sviluppo della  scienza e spirituali, rivolti all’ideale della fratellanza universale; non ultimo uno scopo di matrice iniziatica e rivolto principalmente alla costruzione razionale del Sé individuale. 

In Francia – Qui nasce la cultura illuminista, come centro irradiante della cultura settecentesca.  È qui che si conia il termine philosophe per designare il cultore della luce della ragione, che disperde con questo strumento le tenebre dell’ignoranza. Tra i bersagli dell’Illuminismo francese vi era la Chiesa Cattolica, colpevole di dogmatismo e di chiusura, e ovviamente la rigida politica assolutista della monarchia francese. Nonostante i maggiori esponenti della nuova tendenza culturale fossero nobili e borghesi, era il vecchio sistema a essere messo sotto accusa, il soffocante abuso di potere contro cui veniva rivendicata la libertà del cittadino borghese. Nella comunicazione gli illuministi francesi operarono delle vere innovazioni con l’uso di pamphlet satirici e enciclopedie, caratterizzandosi per una prosa agevole e discorsiva. Tra i più famosi vi furono senza dubbio Voltaire (François Marie Adrouet) e Montesquieu, ma anche Diderot, D’Alembert, Condillac, e, in campo educativo, Jean Jacques Rousseau. Da una prospettiva strettamente divulgativa l’opera di Voltaire risulta essere quella fondamentale, principalmente per aver introdotto i classici del pensiero contemporaneo inglese come Locke e Newton, e per la critica all’intolleranza politica e religiosa.
In campo religioso le tendenze illuministe si diversificano, tra deismo (Dio creatore dell’universo e conoscibile con la sola ragione), teismo (carattere provvidenziale di Dio verso l’universo da lui creato) e ateismo radicale e materialismo.
Tra il 1751 e il 1772 viene pubblicata l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, in un numero complessivo di 28 volumi (17 di testo e 11 di tavole), con ben 60 mila voci, in un lavoro iconografico e storiografico enorme e prestigioso. L’opera viene messa subito al bando ma questo non frena l’immediato successo dei primi volumi, che verranno successivamente ristampati e aggiornati in edizioni anche non francesi.

In Italia – L’Italia aveva conosciuto all’inizio del secolo una ripresa culturale attestata dall’impegno storiografico di Muratori, quello filosofico di Vico e quello giurisdizionalista di Giannone. Tra i centri nevralgici della cultura illuministica italiana c’erano Milano, con il Caffè, periodico fondato dai fratelli Verri, oltre a giuristi come Beccaria, Napoli, con le scuole economica di Genovesi e giuridica di Filangieri, e Firenze, con l’Accademia dei Georgofili. 

In Germania – L’Illuminismo tedesco esprime nomi come Lessing e Kant, ma è soprattutto l’opera riformatrice del re prussiano Federico II ad essere degna di nota.

Politica ed economia - L’introduzione delle tematiche costituzionaliste inglesi aveva prodotto negli illuministi francesi la maturazione di una nuova coscienza politica, espressa soprattutto da Montesquieu. Nel suo Spirito delle Leggi Montesquieu conduce una critica razionale delle forme di governo, e dello spirito che ne informa le leggi, distinguendo tre fondamentali tipologie, una dispotica e fondata sul timore, una repubblicana e fondata sulla virtù e una monarchica e fondata sull’onore. Montesquieu non era avverso al mantenimento del potere monarchico, ma avvertiva l’esigenza di una riforma, poiché lo stato di diritto sarebbe stato garantito solo dall’effettiva separazione del tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario (in questo caso però viene introdotta una terza formulazione, quella federativa, rivolta ai rapporti tra comunità). Pur ammiratore del modello costituzionale inglese Voltaire, a differenza di Montesquieu, riteneva invece che la mancanza di una politica accentratrice avrebbe indebolito il potere regio e reso instabile e anarchico il potere dell’aristocrazia. Proponeva dunque una forma di dispotismo illuminato, con un sovrano abile e riformatore che governasse secondo ragione, difendendo i cittadini dallo strapotere della vecchia aristocrazia feudale.
Il pensiero di Rousseau fu invece ancora più radicale e basato sul tema della ineguaglianza. Egli auspica infatti il ritorno all’originale stato di natura, in cui tutti i cittadini siano dotati dell’originaria dose di uguaglianza e di diritti, in uno stato fondato sulla sovranità popolare e sulla democrazia diretta. Il filosofo di Ginevra teorizzava il ritorno a una piccola comunità repubblicana fondata sul contratto sociale, attraverso cui il singolo individuo alienava alla comunità stessa, governata da una volontà comune, la propria libertà e i propri diritti.
In ambito economico assistiamo alla nascita di due scuole, quella della fisiocrazia in Francia, e quella del liberismo in Inghilterra. Le due scuole concordavano sul fatto che anche in economia vigevano delle leggi naturali, come quella di mercato, e sulla critica alla politica mercantilistica che imprigionava il libero scambio imponendo vincoli e dazi. Entrambe proponevano quindi un rinnovamento dell’economia all’insegna del motto “laissez passer, laissez faire” e chiedevano la fine dell’intervento diretto dello stato in campo economico.
La fisiocrazia si sviluppa con il pensiero di Quesnay, che, a differenza di Colbert, il cui pensiero economico si era basato sul concetto di merce e sulla necessità delle esportazioni come fonte di ricchezza del paese, proponeva un ritorno all’agricoltura quale mezzo necessario di produzione rispetto all’industria, vista come mezzo di trasformazione del prodotto. La fisiocrazia generava un rigido classismo che privilegiava la classe dei proprietari terrieri rispetto ai produttori e alla classe sterile dei consumatori. Per contro il liberismo inglese, pur condividendo con la fisiocrazia la naturalità delle leggi economiche, si basava sul modello industriale, con la creazione di un capitalismo il cui ruolo politico era destinato ad assumere una dimensione maggiore nei secoli successivi.  

IL DISPOTISMO ILLUMINATO IN EUROPA

L’attività riformatrice dei sovrani illuminati si assestò principalmente al centro e al sud dell’Europa, per la necessità di riequilibrare i fondi dello stato gravati dalle consistenti uscite a causa delle guerre di successione e di modernizzare le arretrate strutture economiche.

Federico II di Prussia – Il re filosofo, così chiamato per il suo razionalismo e ateismo, è il capostipite dei sovrani illuminati. Fu amico di Voltaire, ed ereditò dal padre, il famoso re sergente, uno stato militarmente potente e fondato sul poderoso esercito che egli stesso provvede a rafforzare, fino a costituire il 6 % della popolazione prussiana. Nel 1763 viene istituita l’obbligatorietà dell’istruzione elementare, impartita dai maestri di stato; in seguito Federico II provvede a razionalizzare la magistratura, abolendo i tribunali feudali, affidandoli a funzionari in carriera, e riformando il codice penale con l’abolizione della tortura e della pena di morte. In campo economico si segnala l’introduzione di opere di bonifica e di nuove colture, oltre a un maggiore impulso dell’industria mineraria e manifatturiera.

Caterina II di Russia – Nei suoi 34 anni di regno la zarina riprende il progetto espansionistico di Pietro il Grande. Anche Caterina fu in rapporti diretti con gli illuministi francesi, e alle loro teorie ispira il proprio piano di riforme politiche e amministrative. Tra le riforme principali ricordiamo la nazionalizzazione dei beni della chiesa russo ortodossa, il progetto di un nuovo codice legislativo di impronta illuministica, e soprattutto l’aumento del numero dei governatorati per garantire un maggiore controllo delle province russe, e quindi favorire il centralismo dell’amministrazione. Purtuttavia non vi furono mai reali riforme, e la situazione sociale russa fu sempre divisa tra la condizione servile dei contadini e quella privilegiata del ceto nobiliare, situazione che sfocia nella rivolta contadina del cosacco Pugacev, che nel 1773 raduna ventimila servi chiedendo la fine della servitù della gleba e la spartizione delle terre. Dopo due anni Pugacev viene sconfitto, mentre i nobili ottengono dieci anni dopo una Carta dei Diritti, con cui viene loro concesso l’esonero dal servizio nei ranghi dello stato.

Maria Teresa d’Asburgo – Il quarantennio di Maria Teresa sul trono austriaco fu particolarmente ricco. Fervente cattolica, la figlia di Carlo VI introduce un ampio programma di riforme con la collaborazione del conte Haugwitz e poi del cancelliere Kaunitz. Il territorio fu diviso in sei dipartimenti, controllati dal Consiglio di Stato, e furono introdotte identiche misure di esazione fiscale, estesa anche al clero e all’aristocrazia. Viene varato un nuovo codice penale e, come in Prussia, l’istruzione viene statalizzata e resa obbligatoria nel grado elementare.
Nel dominio austriaco della Lombardia viene introdotto il catasto, che poi si estenderà anche in altri domini. La Lombardia austriaca traeva molto vantaggio dal dominio asburgico, non solo per l’introduzione del catasto, che censiva tutte le terre agricole per una migliore perequazione fiscale, ma anche per l’impulso modernizzatore che fu entusiasticamente appoggiato dalla nobiltà lombarda, che fornì un buon numero di tecnici e funzionari all’apparato burocratico e amministrativo austriaco. 

Giuseppe II d’Asburgo – Già associato al trono dalla madre Maria Teresa, Giuseppe II promosse una politica di libertà e di tolleranza religiosa, aprendo il suo regno con un atto che concedeva libertà di culto a ebrei e protestanti. Provvede poi a nazionalizzare la Chiesa Cattolica, confiscando molti beni ecclesiastici, istituendo seminari di stato, e considerando il clero alla stregua di funzionari statali; vieta inoltre la pubblicazione delle bolle pontificie prive di autorizzazione regia. Invano il papa Pio VI cerca di far recedere il sovrano dal suo progetto. Tra le riforme sociali vi è l’abolizione della servitù della gleba e il riscatto  dei diritti signorili dietro pagamento di una quota, oltre alla possibilità all’acquisto delle terre  da parte dei contadini. Queste riforme furono però cancellate dal suo successore, Leopoldo II, pressato dalle forze conservatrici.

Pietro Leopoldo di Toscana – Secondogenito di Maria Teresa e quindi fratello di Giuseppe II, Pietro Leopoldo (che succederà al fratello nel 1790 alla guida dell’impero) opera un notevole progetto di trasformazione delle strutture del granducato. In campo legislativo il Codice Leopoldino abolisce la tortura e la pena di morte; in campo culturale e religioso si impegna a concedere libertà di stampa e di culto, abrogando l’Inquisizione e introducendo importanti riforme scolastiche; in campo economico si segnalano opere di bonifica e la liberalizzazione del commercio dei grani.
Le riforme dell’agricoltura permisero di incentivare la piccola e media proprietà terriera, e la mezzadria; invece non decollò il progetto di autonomia della Chiesa Toscana, portato avanti dalle tesi gianseniste del vescovo pistoiese Scipione de’ Ricci.

Carlo III di Borbone – Il regno di Napoli viveva un momento di particolare impulso dovuto alla trasformazione illuminata. Soprattutto ci sembra qui il caso di richiamare la resistenza delle classi baronali che impedirono il decollo del meccanismo catastale di matrice asburgica e poi il concordato con la Santa Sede che contribuì a limitare le pretese del clero. Questo impulso riformatore si interrompe con l’ascesa al trono di Ferdinando IV.

LA FRANCIA E L’INGHILTERRA

Nel 1715 muore il Re Sole. Il suo successore, il piccolo Luigi XV, sottoposto alla reggenza del duca Filippo di Orléans, trova il paese in condizioni disastrose, poiché il regno assolutista del prozio non era riuscito a modernizzare le strutture socioeconomiche dello stato né quelle amministrative. Durante la minorità del delfino il duca di Orléans cerca di attenuare l’assolutismo politico della monarchia francese restituendo potere al parlamento, e avvia un progetto di risanamento economico seguendo le idee del finanziere scozzese John Law. Primo atto di Law è la creazione di una Banca Nazionale, che emette carta moneta, e trae profitto dalla Compagnia d’Occidente, poi Compagnia delle Indie, che aveva il monopolio dei traffici col nuovo continente e le cui azioni sono contese attraverso operazioni di speculazione. Nel 1720 Law viene nominato controllore generale delle finanze dello stato, ereditando l’ufficio di Colbert, ma dopo la fusione della Compagnia e della Banca, una pesante bancarotta lo fa cadere in disgrazia. Luigi XV affida il governo al suo vecchio tutore, il cardinale Fleury, che riporta il bilancio statale in pareggio. Nel 1743 Luigi XV restaura il potere assolutista del Re Sole guidando direttamente lo stato senza altri intermediari.

L’Inghilterra apre il secolo all’insegna della crisi dinastica, dovuta alla morte della regina Maria Stuart, priva di una discendenza diretta. Il Parlamento emana l’Act of Settlement, che assegnava la corona prima alla sorella minore della regina, Anna, e poi a Giorgio I di Hannover, entrambi protestanti, escludendo così i cattolici discendenti di Giacomo II dalla successione. Nel 1701 muore Guglielmo III di Orange e, dopo il regno di Anna Stuart nel 1714 sale al trono Giorgio I di Hannover. Il ruolo parlamentare è dominante, infatti durante il regno di Anna la maggioranza whig porta l’Inghilterra a partecipare alla guerra di successione spagnola, mentre dopo la vittoria elettorale dei tories nel 1711, la nuova maggioranza porta il paese a un maggiore impegno sul fronte commerciale. Nel 1707 si forma il Regno Unito di Gran Bretagna, che inglobava le corone di Scozia e Inghilterra. Durante il regno di Giorgio I il parlamento, di nuovo in mano ai whig, riceve dal sovrano la delega per governare. Nel 1716 il Septennial Act fissava la durata della legislatura parlamentare a sette anni.
Nel 1721 inizia il governo del primo ministro whig sir Robert Walpole, sotto il quale l’Inghilterra si avvia a consolidare la sua potenza commerciale, mentre in politica estera inizia un periodo di pace, se si esclude un intervento nel 1739 ai danni della Spagna, per costringerla a rispettare i dettami della pace di Utrecht. Nel 1727 sale al trono Giorgio II.

LA GUERRA DI SUCCESSIONE AUSTRIACA

Morto Carlo VI nel 1740, gli succede appunto Maria Teresa, ma la sua ascesa al trono non veniva accettata ancora da tutte le monarchie europee. Prussia, Francia, Spagna e Sardegna chiedevano compensi territoriali per riconoscere la successione, mentre la Baviera rivendicava il titolo imperiale per Carlo Alberto. Le ostilità sono aperte dalla Prussia, che invade la Slesia, spingendosi poi in territorio austriaco e costringendo l’Austria a firmare la pace di Breslavia (1742) con cui cede parte della Slesia alla Prussia. L’Ungheria si dichiara fedele all’imperatrice in cambio di una totale esenzione fiscale.
Dopo un momento felice, in cui l’Austria riesce a cacciare gli eserciti nemici con l’appoggio di Inghilterra, Olanda, Sassonia e Sardegna, la Prussia torna a occupare la Slesia, obbligando gli austriaci a cederla con la pace di Dresda. Intanto il conflitto si era generalizzato, e si era trasformato in una contesa personale tra Inghilterra e Francia. I costi insostenibili obbligarono però le nazioni coinvolte alle trattative di pace, e nel 1748 viene conclusa la pace di Aquisgrana con cui viene riconosciuta la legittimità della successione imperiale di Maria Teresa d’Asburgo, e la conservazione di tutti i domini asburgici, a parte la Slesia che viene appunto ceduta alla Prussia. Inoltre si rafforza il dominio di Carlo Emanuele III di Savoia, mentre i ducati di Parma e Piacenza passano a Filippo di Borbone, fratello di Carlo.

LA GUERRA DEI SETTE ANNI

Dopo la pace di Aquisgrana del 1748 si verificò uno straordinario caso di rovesciamento diplomatico, che portò la Prussia ad allearsi con l’Inghilterra, e l’Austria con la Francia. Nel primo caso fu essenzialmente la volontà di uscire dall’isolamento politico a spingere la Prussia a cercare l’accordo con gli inglesi (1756, Convenzione di Westminster), mentre nel secondo caso si nota la reazione antiprussiana dell’Austria e delle nazioni confinanti (1756, Trattato di Versailles), che avrebbero ricambiato la Francia con una collaborazione nella guerra coloniale. Proprio nel 1756 Federico II invade la Sassonia, e il meccanismo diplomatico scatta, determinando così l’inizio del conflitto.
Si trattò di un vero conflitto mondiale, perché la guerra si combattè sia sul fronte europeo, dove la Prussia riportò pesanti perdite e fu sul punto di soccombere, sia su quello coloniale, dove la Francia perse quasi tutti i suoi possedimenti. A salvare la situazione fu l’uscita dal conflitto della Russia il cui zar Pietro III, successore della zarina Elisabetta, firma un accordo filoprussiano, e di conseguenza l’abnorme costo della guerra anglo-francese nelle colonie, che obbligò i Francesi a ritirarsi e l’Austria a seguirne l’esempio sul suolo europeo.
Due furono le paci, quella di Hubertsburg per quanto riguarda la guerra europea, che non produce mutamenti sostanziali se non la definitiva concessione della Slesia alla Prussia, e la pace di Parigi che pone fine alla guerra nelle colonie, entrambe firmate nel 1763. Il conflitto aveva consolidato le potenze territoriali di Prussia e Russia, ora legate da un accordo, e aveva promosso da un lato il declino della Francia e dall’altro l’assoluta supremazia coloniale dell’Inghilterra. Il trentennio di pace che seguì al conflitto fu caratterizzato dall’affermarsi del dispotismo illuminato in Europa e del tentativo di trasformazione delle strutture politiche e amministrative europee.
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CLASSE QUARTA - MODULO 3 - STORIA
Le grandi rivoluzioni atlantiche 

LA RIVOLUZIONE AMERICANA

La ribellione delle tredici colonie inglesi del Nord America verso l’eccessiva pressione fiscale della madrepatria e verso la servitù commerciale degenerò in una rivoluzione a carattere secessionista che trovò il suo documento nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. La borghesia americana non era spinta soltanto dalle esigenze economiche, ma anche dalle idee illuministe che avevano portato nelle colonie nordamericane l’interesse verso i concetti di sovranità del popolo e libertà del cittadino. La rivoluzione americana ebbe il carattere di una vera e propria guerra di indipendenza, guerra a cui parteciparono gli stessi stati europei. Dal conflitto sorse una confederazione di stati, gli Stati Uniti d’America, che si dette una costituzione in grado di garantire l’unitarietà amministrativa e contemporaneamente di tutelare le rispettive libertà degli stati membri.

1 - LE TREDICI COLONIE E I RAPPORTI CON LA MADREPATRIA

Le tredici colonie (circa 1.650.000 abitanti) erano sorte in tempi diversi, con modalità diverse e soprattutto si costituivano di diversa popolazione, il che ne accentuava le differenze in ambito demografico, sociale ed economico. Le colonie meridionali si fondavano prevalentemente su un’economia agricola, basta sulle grandi piantagioni, dove era stridente il contrasto tra i grandi proprietari terrieri e i bianchi più poveri; le colonie del centro-nord erano invece soggette a un’economia differenziata, con diverse strutture produttive che andavano dall’agricoltura all’industria manifatturiera, e qui erano presenti i piccoli proprietari, gelosi della loro libertà.

Nord – Le colonie del nord costituivano quello che ancora oggi viene chiamato New England e la loro struttura economica era come già detto articolata in diverse tipologie produttive. Tra le più note vi erano l’officina navale, l’agricoltura fondata sulla piccola proprietà e i commerci con l’estero. La società era essenzialmente inglese e costituita dai discendenti dei Puritani, dalla morale rigidamente ascetica e nemici della chiesa Anglicana, oltre che intolleranti verso i cattolici. La città più importante dal punto di vista commerciale era Boston.

Centro – Le colonie del centro vantavano le città e i porti più importanti, come New York, Filadelfia e Baltimora; qui l’economia comincia a diversificarsi ed è presente anche l’attività di contrabbando. La popolazione non è totalmente inglese, ma composta anche da svedesi, olandesi (primi colonizzatori), e tedeschi e irlandesi di recente immigrazione. Si trattava di un amalgama culturale che favoriva una maggiore tolleranza religiosa e soprattutto una maggiore spinta colonizzatrice verso ovest.

Sud – Domina qui l’economia di piantagione e lo schiavismo; la società è fondata su una divisione tra ricchi proprietari, generalmente inglesi e anglicani, e bianchi poveri. Mancano vere e proprie città, e qui è molto forte la dipendenza economica dall’Inghilterra, specie per i manufatti.

Il rapporto con la madrepatria - Le tredici colonie erano accomunate solo dal rapporto con l’Inghilterra. Erano sostanzialmente autonome e in esse era presente lo stesso tipo di libertà costituzionale presente nella madrepatria. Erano governate da un governatore di nomina regia, mentre il potere legislativo era gestito da una assemblea locale eletta a suffragio censitario. Ma la popolazione delle colonie era priva di rappresentanti al Parlamento di Londra. In più erano vincolate a mantenere una politica mercantilistica esclusiva con la sola Inghilterra, solo su navi inglesi, ed era fatto loro divieto di produrre ciò che l’Inghilterra vendeva loro. In pratica si trattava di una pesante subordinazione che l’economia americana subiva da quella inglese. La situazione fu in principio tollerata, anche perché il meccanismo di esazione fiscale era certamente meno oppressivo e poi il contrabbando con le zone caraibiche consentiva alle colonie di allentare la pressione commerciale inglese.
La situazione divenne insostenibile dopo la Guerra dei Sette Anni, quando, per rifarsi dei costi, l’Inghilterra fu costretta a gravare le colonie con una maggiore pressione fiscale; la nuova politica fiscale non fu gradita, esasperando quindi l’intolleranza verso la servitù commerciale inglese. L’accordo dell’Inghilterra con le tribù indiane, che impegnava i contraenti a non varcare la linea dei monti Allegheny, precluse poi l’espansione dei coloni verso l’ovest, creando un clima di tensione in quegli strati della popolazione coloniale desiderosi di espandersi territorialmente. La crisi si aprì per questioni fiscali.

2 - IL MOVIMENTO INDIPENDENTISTA

Era ormai diventata questione di principio, ma anche di interesse economico, che il Parlamento londinese dovesse regolare i commerci coloniali con l’imposizione di forti dazi doganali, a cui i coloni inglesi risposero con il boicottaggio delle merci della madrepatria e con il contrabbando. Prima fu lo Sugar Act, che imponeva ai coloni di acquistare lo zucchero nei Caraibi inglesi, e non in quelli francesi dove costava meno; poi toccò allo Stamp Act, che imponeva una marca da bollo su tutti i documenti pubblici, compresi i giornali. Le due imposte furono ritirate sotto i boicottaggi e anche la solidarietà di parte dell’opinione pubblica inglese, ma la situazione tornò ad aggravarsi con il Townshend Act, con cui si imponeva una tassa su tutti i prodotti importati nelle colonie. La crisi secessionista si mise in moto, con la nascita di movimenti separatisti quali i Figli della Libertà e i Comitati di Corrispondenza Intercoloniali.
Motto della rivolta era “no taxation without representation” che ineriva chiaramente alla necessità di una rappresentanza parlamentare per le colonie a Londra. Boicottaggi e proteste portarono ancora al ritiro della nuova tassa, ma restava in vigore la Tea Tax, la tassa sul tè, che colpiva soprattutto Boston. Quando il 5 marzo 1770 vengono massacrati cinque coloni in una guerriglia con l’esercito inglese, la situazione precipita.

Il 16 dicembre 1773 un gruppo di Figli della Libertà travestito da indiani getta a mare il carico di tè di una nave della East Indian Company alla fonda nel porto di Boston. Dopo l’episodio, ricordato come Boston Tea Party, il porto viene chiuso e la città posta sotto vigilanza militare.

Il I Congresso di Filadelfia nel 1774 vide  i coloni decisi nel boicottare le merci inglesi, come atto di disobbedienza civile. A quel tempo non si era costituito un vero e proprio esercito, ma esisteva solo un corpo di volontari, i cosiddetti minute-men, che derivavano il nome dalla possibilità di lasciare in un minuto il lavoro per vestire la divisa da soldati. Nel II Congresso di Filadelfia, nel 1775, fu costituito un esercito di ventimila uomini, posto sotto il comando di George Washington.
Il congresso era diviso tra tre fazioni, quella dei radicali, che volevano la rottura con Londra, quella dei moderati, che speravano in una situazione di compromesso, e quella dei lealisti, che erano invece fedeli alla monarchia. In un estremo tentativo di mediazione, pur essendo già cominciati i primi scontri armati, il Congresso mandò al re Giorgio III la cosiddetta Petizione del ramo d’Olivo, invitandolo a limitare l’ingerenza del Parlamento (era però un atto inutile, perché il Parlamento inglese era indipendente dal potere monarchico). Il governo inglese decide però l’embargo verso le colonie, causando l’inevitabile rottura e l’inizio della guerra.

3 - LA GUERRA DI INDIPENDENZA

Le assemblee locali delle tredici colonie si danno nel 1776 costituzioni autonome, tra cui spiccava il Bill of Rights della Virginia che poneva la sovranità popolare a fondamento del potere politico. Nello stesso anno lo scrittore politico inglese Thomas Paine pubblica il Common Sense, un opuscolo dove si giustificava la necessità della lotta per l’indipendenza. Ma il vero atto di secessione è quello che viene firmato a Filadelfia il 4 luglio 1776, cioè la Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie, stilata dall’avvocato virginiano Thomas Jefferson. La Dichiarazione sanciva il distacco delle colonie dalla madrepatria e la nascita di una federazione di stati che si chiamò Stati Uniti d’America. Era fondata su idee illuministe e promuoveva in sostanza tre principi:
il diritto naturale e inalienabile alla libertà, alla felicità e alla vita;
il dovere dei governi di garantire questi diritti e di fondare la propria azione politica sul consenso del popolo;
il diritto di ribellione contro un governo che non garantisse questi diritti. 
Si trattava di principi dall’enorme portata storica e politica, ancorchè basati sui temi più avanzati dell’Illuminismo moderno di Montesquieu e di Rousseau.

La Dichiarazione di Indipendenza costituiva anche una dichiarazione di guerra all’Inghilterra. Il conflitto fu lungo e aspro, e condotto da persone inesperte e inferiori numericamente. A garantire il successo delle operazioni contribuirono non poco l’entusiasmo dei patrioti americani, la loro migliore conoscenza del territorio, la forte personalità di Washington, e anche l’appoggio dell’opinione pubblica europea di parte illuminista, che inviò dei volontari a combattere nella campagna rivoluzionaria.
A dare una svolta decisiva alle operazioni militari fu la vittoria sugli Inglesi a Saratoga, il 17 ottobre 1777: dopo la vittoria infatti la Francia decise di appoggiare i ribelli con un accordo di cui si fa portavoce lo scienziato Benjamin Franklin, stimatissimo negli ambienti scientifici europei e soprattutto parigini. La Francia entra dunque in guerra contro l’Inghilterra, seguita da Olanda e Spagna. Furono proprio le flotte delle tre potenze a isolare le armate inglesi dalla madrepatria, permettendo all’esercito americano di respingere il tentativo di invasione nelle colonie meridionali. La decisiva vittoria di Yorktown, nel 1781, costringe di fatto l’Inghilterra alla resa.
Il 5 settembre 1783 viene conclusa la pace di Versailles, con cui l’Inghilterra riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, e la sovranità di questi sul territorio compreso tra l’Atlantico, il Mississippi e la zona dei Grandi Laghi; la Francia ottiene Tobago e Senegambia e la Spagna Minorca e Florida.

IL DOPOGUERRA

Mentre la guerra era ancora in pieno svolgimento le tredici colonie iniziarono a discutere sul ruolo politico e costituzionale da svolgere in seno all’Unione. Tutte le colonie adottarono inizialmente gli Articoli Confederali con cui:
le Assemblee dei singoli stati mantenevano la loro autonomia;
ogni stato avrebbe avuto un voto al Congresso dell’Unione e le decisioni di questo andavano prese all’unanimità;
il Congresso si sarebbe occupato limitatamente di politica estera e di conflitti internazionali e interstatali.
Il dopoguerra vede però emergere delle forti tensioni sociali e politiche, dovute alle differenze tra gli stati. A causare le tensioni erano soprattutto:
l’inflazione e i debiti dovuti al conflitto;
le agitazioni dei contadini poveri;
la fame di terre;
il dibattito politico e istituzionale tra coloro che volevano un potere centrale forte, cioè le colonie del nord, e coloro che lottavano per l’autonomia dei singoli stati;
le speculazioni finanziarie.
Questo stato di cose degenerò nel 1786 in una rivolta di contadini e veterani di guerra, guidati da Daniel Shays, domata dall’esercito americano dopo due anni di lotta. Dalla guerriglia venne fuori un terzo schieramento tra autonomisti e centralisti, i cosiddetti federalisti, che ricompattarono i due schieramenti.
Per risolvere il problema dei territori del nord ovest il Congresso col Proclama del Nord Ovest decise di porre queste terre sotto controllo federale, sottraendole così agli interessi dei vari stati, e ponendo le basi per la nascita di nuovi stati, che sarebbero diventati membri dell’Unione quando avessero raggiunto i sessantamila abitanti.
Nel settembre 1787 una commissione di 55 saggi guidata da Washington stila la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Erano organi centrali del governo federale:

il Congresso, che deteneva il potere legislativo, e si componeva di una Camera dei Rappresentanti e di un Senato;
il Presidente, che deteneva il potere esecutivo, eletto a cadenza quadriennale da un collegio di elettori designati dagli stati, col compito di guidare lo stato e il governo, nominare i ministri e i membri della Corte Suprema;
la Corte Suprema, che deteneva il controllo del potere giudiziario, composta da nove membri nominati a vita.
La carta costituzionale viene approvata nel 1788 da 11 stati su 13 (North Carolina e Rhode Island l’approveranno più tardi)e l’anno successivo George Washington viene eletto primo presidente degli Stati Uniti. La Costituzione viene arricchita nel 1791 dai Dieci Emendamenti, che rappresentavano un contrasto stridente con la realtà sociale: proponevano infatti un modello egualitario e libertario, fondato su dettami di chiara matrice illuminista, malgrado il paese tollerasse ancora la schiavitù e il potere fosse accentrato sulle mani delle classi dominanti.
Proprio durante la presidenza di Washington si riaccende il conflitto tra gli autonomisti, guidati da Jefferson (che nel 1800 succederà a Washington), e i centralisti, guidati da Hamilton. Lo scontro culmina con la fondazione del Partito Repubblicano Democratico, nel 1792, guidato da Jefferson e Madison. 

LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Sul finire del secolo XVIII il contrasto tra l’Ancien Régime (rappresentato dall’assolutismo monarchico e dai privilegi di nobiltà e clero) e il Terzo Stato (ossia la quasi totalità dei sudditi) comportò l’accensione di uno dei più importanti focolai rivoluzionari di ogni epoca. Il movimento fu guidato dalla borghesia, che rivendicava la partecipazione diretta e democratica dei sudditi alla vita politica, e si estrinsecò attraverso diversi momenti salienti, lungo un periodo storico di dieci anni. Queste le sei fasi principali della rivoluzione:

la rivoluzione del 1789, tra maggio e ottobre, culminata con l’episodio della presa della Bastiglia, che rovesciò l’Ancien Règime e insediò una Assemblea Nazionale costituita dai membri del Terzo Stato, e nella cui occasione fu proclamata la Dichiarazione dei Diritti, contenente i principi di libertà, uguaglianza e sovranità del popolo;
’opera dell’Assemblea Costituente, tra il 1789 e il 1791, che trasformò la Francia in monarchia costituzionale, e che improntò la costituzione del 1791 a principi liberali, facendo gli interessi della borghesia proprietaria;
la radicalizzazione della rivoluzione borghese, tra il 1791 e il 1793, che, sotto la spinta della Gironda, decretò la fine della monarchia francese e l’istituzione della repubblica;
la dittatura giacobina, tra il 1793 e il 1794, che salvò il paese dall’invasione degli eserciti degli stati europei filoassolutisti, promuovendo un esercito rivoluzionario e una nuova costituzione democratica nel 1793;
la reazione termidoriana, tra il 1794 e il 1795, che restituì il controllo della rivoluzione alla borghesia attraverso una nuova costituzione nel 1795;
il governo del Direttorio, tra il 1795 e il 1799, che rilanciò le velleità espansionistiche della Francia, ma che minò la stabilità politica del paese fino a favorire l’avvento del Consolato, dominato dal Bonaparte.

1 - LA CRISI DELL’ANCIEN REGIME

Dopo un settantennio di straordinaria espansione demografica, sociale e produttiva, la Francia attraversò tra il 1773 e il 1789, un grave periodo di crisi economica e finanziaria. Potrebbe sembrare paradossale che una economia florida come quella francese cadesse in rovina, ma così non sembra se si analizza il tessuto sociale della Francia di allora. Al vertice dello stato c’era il re, che esercitava un potere assoluto e basato sul diritto divino, tanto da considerare lo stato di sua proprietà.
Veniva poi la nobiltà, divisa in tre ordini:

la nobiltà di spada, che viveva a corte e che quindi doveva sostenere pesanti spese di rappresentanza;
la nobiltà di provincia, spesso povera ma comunque detenente antichi privilegi feudali;
la nobiltà di toga, cioè gli alti magistrati di nomina regia, di origini borghesi ma ormai assestati nel rango nobiliare.

La nobiltà vantava ampie proprietà terriere e antichi privilegi di stampo feudale, come banalità e corvées; inoltre era esentata dal pagamento delle tasse e godeva di una sorta di immunità da parte dei tribunali ordinari. Sullo stesso piano sociale della nobiltà c’era il clero, che viveva sia dei proventi delle proprietà terriere, sia delle decime pagate dai contadini. Si divideva in clero regolare (cioè i religiosi che vivevano nei conventi e nei monasteri) e clero secolare, quest’ultimo distinto in alto clero e basso clero. Il clero divideva con la nobiltà gli stessi privilegi fiscali e giuridici.
Un gradino più sotto veniva il cosiddetto Terzo Stato, cioè la classe più eterogenea e numerosa (costituiva infatti il 98 % della popolazione) e ovviamente priva di diritti civili. Il Terzo Stato era composto:
dalla grande borghesia della finanza e dell’imprenditoria;
dalla media borghesia delle professioni;
dalla piccola borghesia degli artigiani;
dai contadini;
dai poveri nullatenenti.
Il malcontento del Terzo Stato si manifestava in una profonda avversione per l’istituto monarchico che privava i semplici sudditi dei propri diritti civili, ma soprattutto nell’odio verso le classi agiate, che da un lato vessavano i contadini nelle campagne attraverso la sopravvivenza delle antiche consuetudini feudali, e dall’altro ostacolavano lo sviluppo economico del paese con la stagnazione delle dinamiche produttive, vetuste e legate ancora ai suddetti privilegi. Come si può notare il panorama sociale presentava una  nazione squilibrata nelle sue componenti e percorsa da tensioni di natura politica e sociale.
Con l’avvento sul trono di Luigi XVI nel 1774 emerge in tutta la sua gravità la disastrosa situazione del debito pubblico. Ministro delle Finanze era Turgot, di scuola fisiocratica illuminista, che nel suo biennio politico varò un articolato programma di riforme liberali. La carestia del 1775 fece però precipitare la situazione, e il rialzo dei prezzi e l’opposizione conservatrice della nobiltà (che si vedeva privare di alcuni diritti secolari) obbligarono Luigi XVI a licenziare Turgot e a nominare al suo posto Necker. Fu l’inizio di una serie di ministri, comprendente anche Calonne e Lomenie de Brienne, che si avvicendarono nel giro di quattordici anni, manifestando impotenza nel colmare la voragine sempre più profonda dell’economia francese. A rendere difficoltosa la mediazione era una imposta fondiaria, originariamente ideata dal Calonne, che avrebbe dovuto sanare la situazione deficitaria, peggiorata dall’intervento nella guerra di indipendenza americana: le frange conservatrici si opposero  tenacemente, obbligando il re a imporre al Parlamento francese la registrazione forzata (lit de justice) della tassa. Era il 1787: la reazione del paese fu durissima e culminò con la convocazione degli Stati Generali, ormai non più riuniti dal 1614. Il paese era scosso da tumulti popolari, e il re fu costretto a ritirare la tassa e a riaffidare il controllo delle finanze al Necker. Gli Stati Generali furono convocati per il maggio del 1789.

L’affermarsi della volontà aristocratica e la debolezza del sovrano confermavano i timori di Voltaire. Il filosofo aveva giustamente valutato pericolosa una ripartizione dei poteri, perché era ben cosciente del potenziale politico della nobiltà francese: e così avvenne, la  decisiva reazione aristocratica apriva la strada alla trasformazione del paese, e fu proprio la stessa nobiltà a innescare la scintilla rivoluzionaria.

2 - LA RIVOLUZIONE DEL 1789

Grazie al rinnovato sistema consultivo, che prevedeva delle primarie in ogni villaggio, il Terzo Stato riuscì comunque a scongiurare il pericolo di una ripresa dell’autonomismo aristocratico, affermando la propria volontà mediante i cahiers de doléance che denunciavano gli abusi e i soprusi signorili, soprattutto nelle campagne. Il Terzo Stato animò parecchi club patriottici, in cui si ponevano le basi per la riforma costituzionale del paese, e si moltiplicavano i pamphlet che denunciavano la totale assenza di libertà e diritti.
La convocazione degli Stati Generali, nel maggio 1789, fu paralizzata per circa un mese dalla questione della modalità di voto: il Terzo Stato, che col suo 98 % rappresentava la schiacciante maggioranza della nazione, premeva per il voto per testa, mentre nobiltà e clero propendevano per il voto per ordine. La convinzione del Terzo Stato spinse la borghesia, con l’appoggio del basso clero e di alcuni nobili, a proclamarsi Assemblea Nazionale (17 giugno 1789), e quindi pronunciano il famoso giuramento della Pallacorda (20 giugno 1789): l’episodio fu causato dalla chiusura della sala riunioni su ordine regio, che fece spostare i deputati del Terzo Stato nella sala della Pallacorda, dove giurarono di non separarsi mai finchè non fossero riusciti a dare al paese una costituzione. Si trattava di una vera mossa rivoluzionaria, perché di fatto escludeva dalla lotta rivoluzionaria clero e nobiltà, impedendo così che le classi agiate prendessero il sopravvento; il re fu costretto a cedere e a chiedere ai rappresentanti di clero e nobiltà di unirsi all’Assemblea Nazionale, preparando però un atto di forza che ripristinasse gli equilibri iniziali. In un primo tempo Luigi XVI adotta un atteggiamento conciliante e promette l’abolizione di alcune imposte e censure; ordina agli Stati Generali di riunirsi in separate sedi, ma il netto rifiuto del Terzo Stato lo fa retrocedere dal proposito. Basso clero e parte della nobiltà si uniscono al Terzo Stato. La situazione precipita col dilagare del carovita: a Parigi si forma una Municipalità provvisoria a forte presenza popolare e una Guardia Nazionale armata. Il re, temendo il peggio, fa preparare ventimila uomini e licenzia il Necker. L’Assemblea diventa Costituente. Il popolo inalbera la coccarda tricolore, bianca come lo sfondo dello stemma borbonico, e rossa e blu come il colore della Municipalità parigina.
Il 14 luglio 1789 una folla di artigiani, operai e borghesi, dopo aver prelevato le armi all’Hotel des Invalides, assalta e conquista la fortezza parigina della Bastiglia, costringendo il re a un immediato dietro front. Costretto dagli eventi Luigi XVI richiama Necker, riconosce la Municipalità parigina e adotta la coccarda tricolore. Il clima tormentato degenera però in una pericolosa rivolta contadina, che alla fine dello stesso luglio scatena una sanguinosa jacquerie contro nobili e clero. Per riassestare la pace, l’Assemblea Costituente decide di intervenire votando il Decreto di Abolizione, con cui venivano definitivamente abrogati i privilegi feudali e nobiliari, aprendo la strada a una dimensione egualitaria della società. Il 26 agosto dello stesso anno viene varata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in 17 articoli, che esprimeva, come quella americana, i diritti naturali degli uomini, la loro eguaglianza e la residenza della sovranità nella nazione. Occorre sottolineare che l’Assemblea Nazionale non intendeva rompere col sovrano, ma portare avanti dei diritti.
La reazione di Luigi XVI fu di netta opposizione: il popolo però minaccia nuovi moti, obbligando il re a ratificare i decreti di agosto. Dopo aver marciato fino a Versailles, i rivoluzionari obbligano il re e la corte a trasferirsi al palazzo delle Tuileries, dichiarando il re prigioniero dell’Assemblea Nazionale.

3 - LA COSTITUENTE

Caduti i privilegi e fondato il discorso politico su una base democratica, toccava ora all’Assemblea Nazionale Costituente tenere unite delle forze eterogenee e divise da interessi politici ed economici, per quanto unite nella comune lotta contro l’Ancien Régime. I lavori iniziano nel mese di ottobre nella sala del Maneggio del palazzo delle Tuileries: a destra i conservatori, fautori di un potere monarchico forte e gli anglomani, fautori di un modello politico all’inglese, con la nomina regia di una Camera Alta con diritto di veto, a sinistra i progressisti, i patrioti e i moderati, e un’ala più radicale.
Al di fuori dell’Assemblea il dibattito politico era ancora più vivace, animato da club politici rivoluzionari, come Giacobini e Cordiglieri, e dai giornali. Argomento delle sessioni assembleari e di quelle dei club politici era l’estensione dei poteri del sovrano. L’Assemblea mise mano a un articolato disegno di riforme:

il paese fu diviso in 83 dipartimenti e vennero aboliti i dazi doganali interni, smantellando così il tradizionale centralismo della monarchia francese;
vengono istituiti tribunali civili comunali e distrettuali, e tribunali penali distrettuali, e viene modificato l’accesso ai ruoli delle cariche in magistratura in forma elettiva;
i beni del clero furono confiscati e messi a disposizione della nazione mediante l’emissione degli assegnati, sorta di buoni del tesoro dell’epoca; la successiva trasformazione degli assegnati in carta moneta, e la sua crescente produzione, finì però con il deprezzarli, causando l’inflazione;
viene varata la Costituzione Civile del Clero, il 12 luglio 1790, con cui la chiesa francese viene statalizzata e riorganizzata, istituendo una diocesi in ogni dipartimento ed eliminando quelle superflue, rendendo elettive e retribuite dallo stato le cariche ecclesiastiche e sopprimendo monasteri e conventi. La Costituzione viene condannata dal papa e spacca il clero in due fazioni, costituzionali e refrattari.

Nel frattempo inizia la fuga degli aristocratici ostili alla causa rivoluzionaria. Le connivenze della regina Maria Antonietta con i controrivoluzionari austriaci favoriscono la preparazione del piano di fuga di Luigi XVI: ma nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1790 il tentativo di fuga del re è intercettato a Varennes, al confine con i Paesi Bassi austriaci; il re, tratto prigioniero, viene ricondotto a Parigi. La fuga sciolse ogni dubbio politico e il sovrano fu privato delle sue funzioni.
Il tentativo di fuga e i successivi provvedimenti radicalizzarono però anche la divisione tra i due schieramenti politici, con una fazione moderata che avrebbe voluto restituire Luigi XVI sul trono e la fazione più estremista di Cordiglieri e sanculotti che volevano la repubblica. Il conflitto politico si inasprisce tra gli stessi Giacobini, che si dividono in una minoranza radicale, guidata da Maximilien Robespierre, e una moderata detta dei Foglianti. La maggioranza moderata della Costituente dichiara il potere sovrano inviolabile e, con un atto di forza, ristabilisce Luigi XVI nelle sue funzioni regali, il 15 luglio 1791: la reazione della sinistra repubblicana fu violentissima e si concluse con il drammatico eccidio del Campo di Marte, dove 40 sanculotti rimasero uccisi; i dimostranti furono dispersi dalla Guardia Nazionale del Lafayette.
Il 3 settembre 1791 viene finalmente varata la Costituzione, che trasformava la Francia in monarchia costituzionale.

Il potere legislativo era esercitato dall’Assemblea Nazionale (745 deputati eletti ogni due anni con sistema censitario).

Il potere esecutivo era affidato al sovrano, che poteva esercitare il diritto di veto sospensivo sulle leggi.
Il potere giudiziario era affidato a una magistratura autonoma eletta dai cittadini.

L’approvazione della nuova Costituzione segnava la vittoria della borghesia proprietaria, che era riuscita a escludere dal gioco politico i ceti meno abbienti con l’introduzione del sistema elettivo censitario, e nel contempo a escludere le prerogative tardo feudali dell’aristocrazia attraverso la promozione di una politica di mercato liberale e priva di vincoli monopolistici.

Concluso l’operato della Costituente, la nuova Assemblea si disse Legislativa e nella sua composizione sedevano ora uomini nuovi, poiché fu vietato ai costituenti di ricandidarsi.
Questi erano gli schieramenti dell’Assemblea:
a destra i conservatori, circa 250, principalmente Foglianti  e lafayettisti, che ritenevano concluso il processo rivoluzionario con la Costituzione del 1791;
al centro gli indipendenti, circa 350, detti ironicamente la Palude per il loro atteggiamento oscillante tra destra e sinistra;
a sinistra i radicali Giacobini, 136, con una piccola presenza di Cordiglieri e con il sottogruppo dei Brissottini (dal nome del loro capogruppo, Brissot), poi detti Girondini poiché provenienti in buona parte dal dipartimento della Gironda.
La tensione sociale era salita e i Giacobini si erano alleati con i sanculotti, per rovesciare il potere e istituire il regime repubblicano. Sul fronte internazionale intanto si preparava un possibile attacco di Austria, Prussia e Russia ai danni della Francia, soprattutto per evitare che i germi della rivoluzione si propagassero in Europa.

3 - LA PRIMA REPUBBLICA

La maggioranza dei Foglianti si dimostrò ben presto incapace di gestire il proprio ministero: sia nell’arginare le continue tensioni sociali fomentate dai Giacobini, sia nel risolvere la pericolosa frattura internazionale che aveva condotto alla formazione del fronte antirivoluzionario europeo. Un buon numero di fuoriusciti si appella intanto all’imperatore austriaco Leopoldo II affinchè dichiari guerra alla Francia, e nella stessa Francia si forma un sempre più consistente partito interventista, formato dai Girondini borghesi, che avrebbero tratto indubitabili vantaggi economici e politici dalla guerra, dal re che avrebbe rilanciato la monarchia in caso di vittoria, e dai lafayettisti che speravano di rafforzare le posizioni conservatrici. Voce fuori dal coro era quella dei Giacobini più intransigenti, guidati da Robespierre, che non si fidavano giustamente del facile consenso di Luigi XVI al conflitto. La svolta decisiva nel dibattito si ebbe nel 1792 con l’ascesa al trono d’Austria di Francesco II, favorevole alla guerra, e, quasi in contemporanea, con l’avvento al potere dei Brissottini della Gironda, da sempre teorici dell’intervento armato. Il 20 aprile dello stesso anno l’Assemblea Nazionale votava a larghissima maggioranza la Dichiarazione di Guerra all’Austria, poi estesa anche alla Prussia.
Le operazioni volsero subito al peggio, sia per la defezione di molti nobili ufficiali francesi passati al nemico, sia per la disorganizzazione e la debolezza dell’esercito rivoluzionario. Le prime sconfitte radicalizzarono la situazione sociale e politica, già di per sé estrema: i moderati accusavano i Girondini di essere i responsabili del fallimento della guerra a causa delle agitazioni sociali, i democratici invece accusavano i nobili di connivenza col nemico. Il re fu obbligato a richiamare all’ordine i preti refrattari alla Costituzione Civile del Clero e ad approntare ventimila federati in mobilitazione nell’eventualità dell’imminente invasione. Fu proprio il timore dell’invasione a rinsaldare la sinistra, anche se furono probabilmente i sanculotti i veri protagonisti degli eventi che seguirono.
Il duca di Brunswick, alla testa del fronte controrivoluzionario, minaccia di distruggere Parigi se il re e la sua famiglia fossero stati oltraggiati: poco dopo, mentre i Giacobini instauravano la Comune Insurrezionale, il 10 agosto i sanculotti assaltano il palazzo delle Tuileries. L’Assemblea fu costretta così a sospendere di nuovo Luigi XVI dalle sue funzioni e a imprigionarlo nella Torre del Tempio; inoltre furono indette nuove elezioni a suffragio universale per istituire una Convenzione Nazionale al posto dell’Assemblea, mentre i compiti di governo venivano affidati a un esecutivo provvisorio di sei membri, di cui faceva parte Danton. Il colpo di stato sanculotto segnava la fine della monarchia, e soprattutto la sconfitta dei moderati borghesi che fino a quel momento avevano deciso le sorti della rivoluzione. La Comune era diventata il centro del potere. Nel frattempo però cadevano i presidi vicini alla capitale e la folla dei sanculotti, esasperata dal pericolo, reagiva in maniera violenta, come nel caso dell’assalto al carcere, dove vennero massacrati nobili, preti refrattari e persino comuni carcerati.
Il 20 settembre 1792 si insediava la Convenzione Nazionale: ne erano esclusi nobili e moderati, tutti sospettati di connivenza con il nemico. Nello stesso giorno l’esercito francese fermava vittoriosamente il fronte controrivoluzionario a Valmy. Il giorno dopo la Convenzione Nazionale dichiarava abolita la monarchia e proclamava la Repubblica.

4 - LA DITTATURA GIACOBINA

Il biennio seguente, tra il 1792 e il 1794, rappresenta la fase più convulsa della Rivoluzione e comprende:

la guerra tra Girondini e Montagnardi;
la dittatura giacobin
la reazione termidoriana e la fine della dittatura.

Innanzitutto gli schieramenti interni alla Convenzione erano certamente mutati dai tempi dell’Assemblea Nazionale. A destra c’erano ora i Girondini, borghesi e repubblicani sinceri, moderati nelle loro rivendicazioni politiche; al centro sedevano ancora i deputati della Palude, detti ora anche Pianura; a sinistra sedevano gli intransigenti Giacobini detti Montagnardi, poiché occupavano gli scranni più alti.
L’esercito francese del generale Dumoriez continuava intanto a mietere successi e ad aprirsi utili varchi verso il Belgio. Il 10 dicembre 1792 iniziava il processo a Luigi XVI: invano i Girondini cercarono di salvare il re dalla ghigliottina. Nella votazione decisiva prevalsero le tesi della Montagna, che rimproverava al sovrano una assoluta inadempienza al ruolo di sovrano costituzionale, e, con l’appoggio della Palude, Luigi XVI fu condannato a morte. La sentenza venne eseguita il 21 gennaio dell’anno seguente, 1793.
Forte dei successi ottenuti, l’impegno espansionistico della Francia si rafforza, con le dichiarazioni di guerra a Olanda e Inghilterra, e con l’istituzione di una leva obbligatoria, che porta nelle file dell’esercito francese trecentomila coscritti. I deputati della Montagna chiedono alla Convenzione l’istituzione di uno speciale Tribunale Rivoluzionario contro i sospetti di connivenza col nemico: il clima di terrore disordinato coinvolge tutte le istituzioni. Ad animare la révanche non era solo un interesse economico e politico, ma anche una precisa missione di liberazione di cui i Giacobini si sentivano investiti. Le potenze europee, guidate dall’Inghilterra, si uniscono nella Prima coalizione antifrancese; nel frattempo l’esercito rivoluzionario è in difficoltà, perché il generale Dumoriez reagisce all’istituzione del Tribunale Rivoluzionario contro i sospetti passando al nemico. La stessa opinione internazionale guarda con sfavore alla causa rivoluzionaria dopo l’esecuzione di Luigi XVI.
Nel marzo 1793 si ribella la Vandea, con un folto gruppo di dissidenti formato da preti refrattari, nobili e contadini. Mentre la situazione economica si riaggravava, e le sorti della guerra, dopo la defezione del Dumoriez, iniziavano a decadere, il malcontento, iniziato in Vandea si diffondeva. I Montagnardi istituiscono il Comitato di Salute Pubblica, al fine di esercitare un controllo più preciso sulla leva di massa: i Girondini però si rendevano conto che la Montagna voleva istituire una dittatura e promuovono una campagna antigiacobina che culmina con l’insurrezione contro i Girondini di Parigi il 31 maggio 1793. Il 2 giugno i sanculotti assaltano i locali della Convenzione e fanno arrestare 29 deputati Girondini. La Montagna prende definitivamente in mano il potere. Mentre i Girondini superstiti animavano una propaganda antigiacobina nel dipartimenti, la Convenzione si metteva al lavoro per consegnare una nuova carta costituzionale, e dando vita a un articolato programma di riforme democratiche.
Il 24 giugno del 1793 la Convenzione varava la nuova Costituzione democratica. Era un documento che non si discostava molto dai dettami del 1789, ma fortemente orientata in senso egualitario e democratico. Tutti i cittadini erano uguali e tutti degni di partecipare alla gestione dello stato indicendo il suffragio universale maschile; inoltre, pur senza toccare la proprietà privata, la nuova Costituzione cercava di mediare il problema della disuguaglianza economica tra i cittadini con una nuova Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. Pochi giorni dopo il leader Marat veniva assassinato dalla giovane realista normanna Charlotte Corday.
Nel luglio del 1793 il Comitato di Salute Pubblica, con Robespierre e Saint Just in prima linea, assume ufficialmente il controllo dell’esecutivo e impone la coscrizione obbligatoria mobilitando 570 mila francesi contro il nemico. L’emergenza della situazione, interna ed esterna, imponeva al Comitato la rinuncia alla separazione dei poteri, che dovevano essere affidati nelle mani di un solo ente per arginare il precipitare degli eventi politici, sociali e militari. Sotto la pressione sanculotta, il Comitato di Salute Pubblica, coadiuvato dalla polizia politica del Comitato di Sicurezza Generale, inizia a governare col metodo del Terrore, una feroce repressione che nel giro di poco tempo porta sul patibolo 17 mila sospettati di simpatie rivoluzionarie, tra cui la deposta regina Maria Antonietta.
Il 29 settembre viene approvata la legge sul maximum dei prezzi, per calmierare i costi dei beni di prima necessità nell’imminente recrudescenza del conflitto e al fine di scongiurare le speculazioni. Si procede alla laicizzazione dello stato con la soppressione della domenica religiosa, e viene promossa la cultura repubblicana con l’adozione di un nuovo calendario rivoluzionario che calcolava i giorni dal 22 settembre 1792, cioè il primo giorno della repubblica, e dava ai mesi il nome di eventi legati al mondo contadino (Vendemmiaio, Brumaio, Frimaio, Nevoso, Piovoso, Ventoso, Germinale, Fiorile, Pratile, Messidoro, Termidoro, Fruttidoro); inoltre inizia la campagna di scristianizzazione promossa dal gruppo estremista degli Arrabbiati, guidati da Jacques Hébert, volta alla soppressione del culto e del clero cattolici, sostituiti dal culto dei Martiri della Rivoluzione (come Marat) e della dea Ragione.
Nonostante i successi sui due fronti, quello interno e quello esterno, la dittatura giacobina poggiava su un terreno precario, soprattutto per la lotta politica tra gli estremisti sanculotti degli Arrabbiati e i moderati Indulgenti guidati da Danton che chiedevano la soppressione del regime del Terrore. Robespierre si alleò dapprima con gli Indulgenti, mandando a morte molti sanculotti di cui non condivideva le posizioni ateistiche, essendo lui un convinto deista, e poi non esitò a far condannare i capi degli stessi indulgenti a cui rimproverava atti di speculazione e corruzione. Robespierre arrivò dunque a una dittatura personale. Per definizione incorruttibile, Robespierre si ispirava alle teorie democratiche di Rousseau e intendeva istituire una società di eguali, senza ricchi o poveri. Dal punto di vista religioso introdusse il culto dell’Essere Supremo, con tanto di decreto e di festa comandata, e dell’immortalità dell’anima. Questa mossa non fu gradita dai sanculotti atei, che si unirono ai contadini nella lotta antigiacobina.
Il precario equilibrio della dittatura giacobina culminava col Grande Terrore: una legge sui sospetti dava facoltà al Comitato di Salute Pubblica di condannare i sospettati senza processo. Era una mossa inutile perché giungeva proprio nel periodo in cui la Francia poteva vantare nuovi successi nelle campagne militari e mentre la situazione interna era ormai stata domata. La reazione al regime fu durissima. Coadiuvati dalla Pianura, i deputati della Convenzione, unitamente ai fuoriusciti, preparano una congiura per rovesciare Robespierre. Questi cerca di affidarsi alla Convenzione, ma il 27 luglio (9 termidoro) 1794 la congiura antigiacobina fa arrestare come tiranni Robespierre, Saint Just e altri venti capi giacobini, che vengono ghigliottinati il 28 luglio, senza processo, e di fronte al popolo in muto silenzio.

Il nuovo schieramento al potere era costituito dai Girondini superstiti, reintegrati nella Convenzione, e dai deputati della Pianura. La Convenzione Nazionale riprese i suoi poteri, affiancata da quattordici nuovi Comitati (in sostanza dei dicasteri) e inizia  il processo di smantellamento del regime del Terrore instaurato da Robespierre e dai Giacobini oltranzisti. Ma la degiacobinizzazione del paese attraversa una fase ancora molto cruenta, detta Terrore bianco – per distinguerla dal Terrore rosso di matrice giacobina – in cui protagoniste furono le bande della jeunesse dorée parigina, ossia i rampolli della buona borghesia, che davano la caccia ai comunisti e ai sanculotti rimasti. Tutti i vecchi club patriottici sono chiusi, ovviamente compresi quelli giacobini, e sono aboliti tutti i tribunali e le istituzioni del precedente regime. Il ripristino della libera iniziativa economica è l’atto che riconsegna di fatto la causa rivoluzionaria nelle mani della borghesia. L’unica istituzione che resta in piedi  è l’esercito, anche se la guerra contro la Coalizione conobbe in questo periodo un attimo di stasi, favorendo l’invasione francese del Belgio e della Repubblica Batava (ex Olanda).

5 - LA REPUBBLICA TERMIDORIANA

Questo ritorno alla normalità non fu però tranquillo, perché i termidoriani dovevano fare i conti con una tenace opposizione da destra e da sinistra: da sinistra perché la Convenzione aveva, come primo atto formale, abolito il calmiere sui prezzi, provocando la temuta speculazione e l’inevitabile inflazione, da destra perché ancora sopravvivevano sentimenti filomonarchici, accentrati ancora una volta in Vandea.
Erano soprattutto le masse a insorgere, al grido di “pane e costituzione” ma l’insurrezione popolare di Parigi del  maggio 1795 fu duramente repressa (e fu anche l’ultima) e i capifazione giacobini e sanculotti furono messi a morte. Sul fronte internazionale vengono firmati trattati di pace con le potenze della Coalizione, solo l’Austria e l’Inghilterra restano in guerra. Nel frattempo si riaccende il focolaio rivoluzionario in Vandea, dove i realisti tentano l’ennesima restaurazione della monarchia. A reprimere l’insurrezione viene inviato l’esercito comandato da un giovanissimo Napoleone Bonaparte.
Il 22 agosto 1795 viene varata la nuova Costituzione, che si disse “dell’anno III” poiché cadeva nel terzo anno della repubblica. Il potere venne nuovamente ripartito:
quello legislativo fu affidato a due camere, un Consiglio dei Cinquecento e un Consiglio degli Anziani, eletti a suffragio censitario ogni tre anni;
il potere esecutivo viene affidato a un Direttorio di cinque membri, eletti dalle camere, col compito di nominare i ministri e i capi dell’esercito.
La stessa Dichiarazione dei Diritti fu nuovamente corretta, col ripristino della libera iniziativa economica, e furono vietate le associazioni popolari: si trattava dunque di misure di cautela  con cui la nuova maggioranza voleva impedire ogni tentativo insurrezionale e soprattutto ogni possibilità di rovesciamento politico; lo stesso ripristino del sistema censitario garantiva a tutti eguali diritti ma tornava a limitare l’accesso alla vita politica attiva alle frange più incontrollabili del giacobinismo estremo. Compiuta la transizione e assicuratasi la  maggioranza alle camere, la Convenzione si sciolse il 26 ottobre.
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CLASSE QUARTA - MODULO 4 - STORIA
L’età napoleonica

1 - DAL DIRETTORIO AL CONSOLATO: L’ASCESA DI NAPOLEONE BONAPARTE

Il Direttorio non poggiava su un terreno sicuro e stabile, minato com’era dall’opposizione monarchica e giacobina, e potè sostenersi solo con l’appoggio dell’esercito. Soprattutto il governo del Direttorio iniziava in un periodo di grave crisi economica, dovuta al blocco dei commerci esteri, a causa della guerra con l’Inghilterra, dovuto al nuovo inasprimento dell’inflazione e dovuto anche a una crisi di produzione agricola. Sul fronte interno si erano intanto riaccesi i focolai filomonarchici nel Nord e in Vandea, e a sinistra il movimento giacobino, riammesso nella legalità, si ricostituiva intorno alla figura di Caio Gracco Babeuf, e portava avanti il progetto dichiaratamente comunista della società degli Eguali, con l’abolizione della proprietà privata e la socializzazione della terra. Quello di Babeuf era un progetto cospirativo, che vantava anche un giornale, il Tribuno del Popolo, e contava molti simpatizzanti, tra cui l’italiano Filippo Buonarroti: il 10 maggio 1796 la congiura fu scoperta e l’anno dopo Babeuf e i suoi compagni furono messi a morte.
A causa della psicosi comunista il Direttorio decise di piegare a destra, dando così la possibilità agli insorti vandeani e ai ribelli chouans di combattere per la monarchia senza più nascondersi.  Fu proprio in quell’anno che il Direttorio decise una grande mossa offensiva contro l’Austria, con due armate, comandate dai generali Moreau e Jourdan, impegnate verso Vienna, e una terza armata, comandata dal generale Bonaparte, impegnata sul fronte italiano, per alleggerire il fronte tedesco.
Napoleone Bonaparte era nato ad Ajaccio nel 1769, e aveva solo 27 anni. Da sempre era fervente giacobino, e solo il suo giacobinismo gli aveva consentito di alleggerire l’odio verso i dominatori francesi della sua Corsica. Dopo essersi distinto nell’assedio di Tolone conquista i gradi di generale, ma cade in disgrazia dopo la reazione termidoriana, quando i giacobini vengono estromessi dalla vita politica. Riesce a rientrare nel giro grazie alla protezione di uno dei cinque membri del Direttorio, Barras, giù amante della sua compagna (la creola Josephine Beuharnais); il suo intervento nell’insurrezione realista del 1795 gli fa meritare la fiducia nelle sue doti militari.
Bonaparte fu il vero protagonista della guerra con l’Austria. Mentre  le due armate di Moreau e Jourdan restavano bloccate al Reno, l’armata di Bonaparte, galvanizzata dallo spirito di révanche rivoluzionaria, mieteva successi prima contro gli Austriaci e poi contro i Piemontesi, costringendo il re sabaudo Vittorio Amedeo III, prima all’armistizio di Cherasco, poi alla pace di Parigi e alla cessione di Nizza e Savoia. Sconfitti gli Austriaci a Lodi, Napoleone entra a Milano acclamato come un liberatore, occupando la Lombardia e Mantova. I sovrani italiani si piegavano al generale e avviavano le trattative di pace con la Francia. La campagna d’Italia consacrava il genio politico e militare di Bonaparte: la velocità di decisione e l’assoluta sfrontatezza portavano infatti il generale a comportarsi da padrone, fino a spingersi a Vienna, dove l’imperatore fu costretto a firmare i preliminari di pace a Leoben, a pochi chilometri da Vienna, che poi verranno ratificati a Campoformio.
Sull’onda della popolarità del Bonaparte si costituiscono molte repubbliche giacobine.
All’inizio furono due, la Cispadana e la Transpadana, che poi Napoleone fuse nella Repubblica Cisalpina, che adottò la bandiera tricolore, a cui seguono la Repubblica Ligure e la Repubblica Romana. Intanto insorgono molte città, che si pongono sotto il dominio francese, e anche a Venezia, conquistata da Napoleone, il patriota giacobino Daniele Manin costituisce un governo democratico. Le speranza democratiche dei moderati, che speravano che Bonaparte garantisse loro un regime termidoriano, furono ben presto disilluse, perché il generale impose alle “repubbliche sorelle” un regime di ferrea occupazione e proprio la caduta storica di Venezia rappresentava il vero volto dell’occupazione napoleonica. Va sottolineato però anche il carattere positivo dei tre anni di vita del giacobinismo italiano, poiché grazie a questa impronta riformatrice molte strutture politiche ed istituzionali del paese furono modificate.
Il 4 settembre 1797 (18 fruttidoro) la destra si impossessa del potere. Il 17 ottobre viene firmata la pace di Campoformio, con cui Venezia, ormai dominio francese, viene ceduta all’Austria, con la delusione dei simpatizzanti giacobini. Napoleone ottiene Belgio, Lombardia, Isole Ionie, Treviri e Palatinato; all’Austria vanno, oltre Venezia, Istria e Dalmazia. Nel febbraio 1798 l’esercito francese occupa Roma, caccia il papa, che ripara nel Regno di Napoli, e instaura la Repubblica Romana.
A Parigi, dove il golpe napoleonico aveva condotto alla vittoria della destra francese, si insedia un triumvirato che si sostituisce al Direttorio e adotta provvedimenti eccezionali e repressivi. La repressione colpì egualmente i giacobini e i monarchici, gli uni furono dissuasi dal riproporre la Costituzione Democratica del 1793, gli altri furono dissuasi dal tentativo di restaurare la monarchia. Di fatto fu una dittatura moderata, che si sosteneva con l’appoggio dell’esercito.
Nel frattempo, sul fronte internazionale, Napoleone continuava la politica di annessione, ora estesa alla Svizzera (diventata Repubblica Elvetica). Ultimo atto prima del definitivo trionfo fu la campagna d’Egitto. Dopo aver ordinato il blocco economico contro l’irriducibile Inghilterra, Napoleone si recò in Egitto: si trattava di una mossa intelligente, poiché la conquista dell’Egitto garantiva alla Francia un buon avamposto sul Mediterraneo. Dopo aver sconfitto i Mamelucchi nella battaglia delle Piramidi (21 luglio 1798) Napoleone occupa il Cairo, ma la sua flotta viene sorpresa alla fonda presso Abukir dagli Inglesi di Nelson, e la sua distruzione obbliga Napoleone a un esilio forzato in terra egiziana. Con Bonaparte bloccato in Egitto gli stati europei ancora liberi dichiarano guerra alla Francia, ma l’esercito francese riesce ugualmente a sconfiggere gli insorti e ad annettere il Piemonte e il Regno di Napoli, dove viene proclamata da alcuni patrioti la Repubblica Partenopea.
La guerra si estende però a tutta l’Europa e le principali potenze, coordinate da Austria e Russia a est e dall’Inghilterra a ovest, formano la Seconda Coalizione antifrancese. Nella primavera del 1799 l’esercito austro-russo riconquista l’Italia. Il caso più famoso è quello della Repubblica Partenopea. Coadiuvato dalla flotta inglese di Nelson, il cardinale Fabrizio Ruffo organizza in Calabria la spedizione contadina dei Sanfedisti, così detti perché inalberavano come simbolo una croce, simbolo della Santa Fede. I due schieramenti attaccano Napoli sui due fronti, quello marittimo e quello terrestre, obbligando i patrioti napoletani alla resa. Istigato da Nelson, Ruffo ordina l’arresto e la conseguente  condanna a morte dei patrioti ribelli. 
Ormai le forze della Coalizione sono giunte alle porte della capitale francese. A salvare la Francia, nel settembre 1799, furono sia la vittoria del generale Massena, che fermò a Zurigo l’esercito della Coalizione, sia i dissensi sorti tra lo zar russo Paolo I e l’imperatore asburgico. Il nuovo capo del Direttorio, Sieyès, viene convinto nel frattempo a revisionare la costituzione del 1795, e a fondare il governo del paese su poteri forti e stabili. In questo periodo Bonaparte rientra a Parigi dall’Egitto e, affidato l’esercito al generale Klèber, riesce a farsi affidare dal Direttorio (che, come si ricorderà, sceglieva i comandanti dell’esercito) il comando della guarnigione di stanza a Parigi, mentre al di lui fratello Luciano è affidata la presidenza del Consiglio dei Cinquecento. Il 9 novembre (18 brumaio) del 1799 Napoleone, sciolto con la forza il Consiglio dei Cinquecento, si fa affidare dal Consiglio degli Anziani il governo tramite un Consolato con pieni poteri.

2 - IL BIENNIO CONSOLARE

Il 18 brumaio (9 novembre) 1799, grazie a un colpo di stato, il generale Napoleone Bonaparte, con Sieyès e Ducos, viene incaricato di governare il paese con un Consolato triumvirale a cui il Consiglio degli Anziani affida pieni poteri. Il golpe nasceva da un accordo con il capo del Direttorio Sieyès, amico del Bonaparte e desideroso di un governo forte e centrale; lo stesso Bonaparte non ebbe alcun ostacolo poiché godeva di grande favore da parte del popolo francese. Il 18 brumaio 1799 si chiudeva di fatto il decennio rivoluzionario e si apriva l’età napoleonica, che durerà quindici anni, dal 1800 al 1815. Quella che fu l’eredità della Rivoluzione non andò di fatto persa. Non è un caso che la maggior parte degli storici riconosca nel 1789 l’inizio di una nuova era, praticamente la seconda fase dell’età moderna. Va infatti sottolineato come la stessa società francese fu radicalmente cambiata, con la conquista del potere da parte della borghesia e la fine dell’assolutismo e dello strapotere dei ceti nobiliari; e inoltre non si può dimenticare l’enorme influenza ideologica che l’esperienza giacobina e quella comunista di Babeuf riuscirono a esercitare sulle masse.
Il golpe napoleonico rappresentava la consacrazione di uno stato di fatto: la stabilità del paese dipendeva ormai dal potere militare e quello napoleonico si dimostrava erede della dittatura giacobina. Napoleone incarnava il ruolo del potere forte che era necessario per assicurare stabilità al paese, e fidandosi del favore dei suoi sostenitori il Bonaparte riuscì a emergere nel Consolato triumvirale diventando Primo Console e ispirando egli stesso la revisione della carta costituzionale. La nuova Costituzione, che si disse “dell’anno VIII”, fu varata il 25 dicembre 1799 e accolta plebiscitariamente dal popolo. Con la nuova Costituzione i poteri erano così ripartiti:
il potere esecutivo (nomina dei ministri, dei magistrati, dei funzionari di stato e dei comandanti dell’esercito; proposta di leggi) spettava al Primo Console, mentre agli altri due magistrati spettano solo funzioni consultive;
il potere legislativo è affidato a tre Assemblee: il Tribunato, che discute le proposte di legge; il Corpo Legislativo, che vota le leggi con un sì o con un no; il Senato, che controlla l’adesione delle leggi ai principi costituzionali.
Considerato che il Tribunato e il Corpo Legislativo erano nominati dal Senato, e che il Senato era nominato dal governo, era evidente che le elezioni non si sarebbero mai tenute. Non fu dunque difficile per il Bonaparte consolidare il potere nelle sue mani. Difatti la Costituzione dell’anno VIII:
poneva il potere nelle mani del Bonaparte, Primo Console, il quale lasciava ai due triumviri (Sieyès e Ducos furono sostituiti da Lebrun e Cambacérès) solo poteri consultivi;
riduceva le tre Assemblee a sole funzioni di rappresentanza e costituite da personale cooptato e non eletto;
istituiva sì il suffragio universale ma le consultazioni si svolgevano solo per ratificare le scelte politiche col consenso popolare, e fu lo strumento del consenso plebiscitario a rafforzare il controllo napoleonico sulle masse;
conservava sì l’indipendenza della magistratura ma era sempre l’esecutivo che sceglieva i magistrati.
Il potere di Napoleone rafforzava, soprattutto con l’istituzione dei Prefetti, uno in ogni dipartimento e alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, il potere centrale, e indeboliva quello delle autonomie locali. L’istituzione di una Polizia di Stato consentì poi un controllo più specifico.
Nel maggio 1800 Napoleone riprende la guerra con l’Austria, scendendo in Italia: sconfitti sui due fronti, a Marengo dal Bonaparte e a Hohenlinden dal Moreau, gli Austriaci sono costretti alla resa, e l’imperatore ratifica con la pace di Luneville, il 9 febbraio 1801, gli accordi di Campoformio. Mentre Napoleone occupa il nord, Gioacchino Murat occupa la Toscana, e rinasce la Repubblica Cisalpina. Ora tutta l’Italia centro-settentrionale, la Repubblica Batava e la Repubblica Elvetica, riconosciute dall’Austria, tornavano come repubbliche sorelle sotto il controllo francese.
Conclusa la pace con l’Austria restava l’Inghilterra, che aveva occupato Malta e bloccava di fatto i traffici commerciali francesi. Ancora una volta Napoleone fu salvato dallo zar Paolo I, molto vicino al Bonaparte, che promosse una Lega Baltica contro il divieto inglese di commerciare con la Francia. Ad alimentare le tensioni tra i due paesi era stato soprattutto il rifiuto inglese di cedere Malta alla Russia. L’Inghilterra riuscì a piegare la Lega, ma era di fatto isolata, e costretta a firmare la pace di Amiens, nel febbraio 1802, con cui riconosceva il controllo francese su tutte le conquiste europee e continentali. Malta venne restituita all’Ordine dei Cavalieri dell’isola.

Napoleone si impegnò già nel suo primo biennio consolare in un articolato programma di riforme:
pacificazione politica – con la soppressione definitiva dei moti realisti vandeani, della stampa giacobina e monarchica, e con la garanzia dell’amnistia per tutti gli ex rivoluzionari, a patto che giurassero fedeltà alla nuova Costituzione;
pacificazione religiosa – con la firma del Concordato col papa Pio VII, la soppressione della Costituzione Civile del Clero, il riconoscimento del diritto pontificio a consacrare i vescovi, ma anche ribadendo con gli Articoli Organici del Culto Cattolico il controllo dello stato francese sul clero, comunque nazionalizzato e stipendiato dallo stato stesso;
riordino delle finanze – con la creazione della Banca Nazionale, il ritiro della carta moneta e l’adozione del franco d’argento con le sue sottodivisioni decimali;
riordino del sistema fiscale – con l’istituzione di un nuovo sistema di tassazione indiretta sui beni di largo consumo;
riordino dell’istruzione superiore – con la statalizzazione dell’istruzione e l’istituzione dei licei, dell’Università e delle Scuole Politecniche, e con l’istituzione della Scuola Normale Superiore di Parigi, col compito di formare i docenti di liceo; l’istruzione inferiore resta affidata ai comuni e al clero.

3 - L’IMPERO

Malgrado quello napoleonico potesse richiamare una forma di dispotismo illuminato, occorre sottolineare il grado di efficienza e di modernizzazione improntati alla fisionomia della società e delle istituzioni francesi. Fondandosi ancora una volta sul consenso popolare Napoleone chiede il Consolato a vita: il Senato glielo nega, proponendo solo una estensione decennale della carica, ma col plebiscito popolare il Bonaparte ottiene la nomina vitalizia pochi mesi dopo. Per rafforzare il potere stabilisce con una nuova revisione costituzionale la scelta esclusiva dei senatori da parte del Primo Console, e la nomina a vita dei membri delle Assemblee, il che riduceva al minimo il rischio di elezioni.
Il 21 marzo 1804 Napoleone promulgava il Codice Civile dei Francesi, che fu poi detto Codice Napoleonico. Si trattava del coronamento dell’importante opera riformatrice del Bonaparte, il quale con questo atto riordinava la disordinata selva giuridica che si era creata in seno alla Rivoluzione. Il Codice riconfermava tutte le conquiste rivoluzionarie, la libertà, l’uguaglianza, la laicità dello Stato; regolamentava il diritto di proprietà come diritto naturale, e riordinava il diritto di famiglia introducendo il diritto di successione e regolamentando i matrimoni, civili e religiosi, e le modalità di divorzio.
Intanto si rompeva la pace con l’Inghilterra. L’espansionismo francese, ormai esteso a tutto il continente europeo, preoccupava gli Inglesi, che avevano rifiutato di cedere Malta provocando così la reazione del Bonaparte: nell’estate del 1803 la Grande Armata napoleonica si preparava sul centro costiero di Boulogne alle operazioni di invasione dell’isola. Erano soprattutto motivi economici a rendere inevitabile il conflitto: la politica protezionista adottata dall’economia napoleonica si scontrava inevitabilmente con gli interessi inglesi sulla terraferma, poiché le nazioni europee sotto controllo francese erano molte.
Mentre si avviavano le operazioni di guerra viene scoperto e duramente represso un tentativo di congiura realista antinapoleonico. Ne erano promotori molti vecchi sostenitori della monarchia, ma anche molti repubblicani delusi. Scongiurato il tentativo, il 18 maggio 1804 il Senato vara la Costituzione dell’anno XII e propone Bonaparte imperatore. È un plebiscito popolare, ancora una volta, a ratificare la decisione: nel dicembre seguente, lo stesso papa Pio VII incorona Napoleone imperatore nella cattedrale di Notre Dame a Parigi; pare che al momento dell’incoronazione il Bonaparte avesse tolto di mano al pontefice la corona e si fosse incoronato da solo.
Con l’incoronazione imperiale Napoleone formava una nuova aristocrazia, formata da membri del suo clan familiare e da ufficiali e funzionari di sua stretta fiducia, in pratica gli stessi suoi diretti sostenitori, conservando e rafforzando ulteriormente il proprio prestigio politico, economico e sociale presso il paese.

Il nuovo regime si muoveva verso due obiettivi: l’espansione continentale e lo sviluppo economico del paese. Mentre sul fronte internazionale Napoleone riesce a consolidare il suo controllo sull’Olanda, ora Repubblica Batava, ponendo un Gran Pensionario alle sue dipendenze, e sull’Italia, facendosi incoronare re e annettendo la Repubblica Ligure, l’Inghilterra promuove la Terza Coalizione antifrancese insieme all’Austria, al Regno di Napoli, alla Svezia e alla Russia, obbligando il Bonaparte a spostare la Grande Armata in centro Europa. Tra i due paesi vi era equità: la Francia era forte sulla terraferma (come dimostrano le due vittorie napoleoniche a Ulma, presso Vienna, e Austerlitz), l’Inghilterra era forte in mare (come testimonia la pesante sconfitta di Trafalgar, dove lo stesso Nelson muore in battaglia). Fu proprio la vittoria francese di Austerlitz, nella cosiddetta battaglia dei tre imperatori (partecipavano infatti Napoleone, Francesco II d’Asburgo e lo zar Alessandro I), che obbligò Austria e Russia alla resa.
L’Austria firmava dunque la pace di Presburgo il 26 dicembre 1805 e cedeva alla Francia il Veneto, le province di Istria e Dalmazia e parte del territorio tedesco, con cui il Bonaparte formava la Confederazione del Reno, nel luglio del 1806. Sempre nel 1806 Napoleone occupa il Regno di Napoli e lo affida al fratello Giuseppe e in quella stessa estate la Prussia, delusa dal Bonaparte che non aveva rispettato la promessa di cederle la provincia di Hannover, promuove la Quarta Coalizione, insieme all’Inghilterra, alla Russia e alla Svezia. Il 14 ottobre l’esercito prussiano viene sconfitto a Jena e poi ad Auerstadt, e Bonaparte entra trionfalmente a Berlino. Poche settimane dopo Napoleone, non potendo battere l’Inghilterra sul proprio terreno, decide di adottare il blocco continentale, imponendo il divieto assoluto di importare merci inglesi in tutti i paesi controllati dalla Francia e ordinando l’immediato arresto di tutti gli inglesi presenti sul suolo francese. Nel giugno 1807 la Francia sconfigge l’esercito russo a Friedland. Consapevole di non poter sostenere alla lunga distanza un conflitto con la Russia, Napoleone propone allo zar Alessandro I la pace, conclusa il 7 luglio 1807 a Tilsit, su una zattera sul fiume Niemen. I due imperatori dividono di fatto l’Europa in due zone di influenza: quella occidentale alla Francia, quella orientale alla Russia. Così la Francia si prende la Westfalia e i territori polacchi, mentre la Russia inizia l’espansione verso la Finlandia e l’Impero Ottomano.
Successivamente il Bonaparte occupa la Penisola Iberica, al fine di isolare l’Inghilterra: prima fa invadere il Portogallo, e successivamente, approfittando di un contrasto tra il re spagnolo Carlo IV e il figlio Ferdinando, fa invadere la Spagna, depone il sovrano e pone al suo posto il fratello Giuseppe, già re di Napoli; mentre la corona del Regno di Napoli passa al cognato di Napoleone, Gioacchino Murat. L’occupazione spagnola non fu facile: il popolo infatti insorse, usando l’arma della guerriglia e attaccando a sorpresa il contingente francese; la guerriglia fu poi appoggiata dall’Inghilterra, che invia un corpo di spedizione guidato dal duca di Wellington sul suolo portoghese. I Francesi vengono quindi cacciati dal Portogallo e il Bonaparte decide di dare una svolta alle operazioni inviando in Spagna duecentomila uomini, al fine di garantire una certa continuità nelle operazioni. Tuttavia quella francese fu solo una dominazione di facciata e sempre in bilico a causa della guerriglia.
Approfittando della difficoltà francese in Spagna, l’Austria nella primavera del 1809, promuove la Quinta Coalizione insieme all’Inghilterra. Bonaparte mette insieme un esercito di duecentomila uomini e sconfigge gli Austriaci a Wagram, obbligando l’imperatore a firmare la durissima pace di Schonbrunn, negoziata dal nuovo cancelliere austriaco Metternich, con cui ridimensiona completamente il proprio territorio. Con la decisiva vittoria sull’Austria Napoleone restituiva di fatto alla Francia la stessa potenza dei fasti carolingi. Purtuttavia a Napoleone mancava un erede al trono, che avrebbe garantito la continuità dinastica dei Bonaparte.
Il 1 aprile 1810 Napoleone, dopo aver ottenuto il divorzio dalla prima moglie Josephine Beuharnais, sposa la figlia dell’imperatore austriaco, Maria Luisa, e l’anno successivo nasce l’erede, Francesco Carlo Giuseppe, subito nominato re di Roma e primo della breve dinastia dei Napoleonidi.

Il nuovo assetto politico e istituzionale dell’Europa era così completato. Sotto l’impero di Napoleone prende forma quello che viene chiamato sistema continentale, cioè un insieme compatto di stati, controllati dalla Francia, che doveva garantire non solo una continuità politica, ma anche un fronte comune contro l’Inghilterra. In sostanza Napoleone operò su tre principali campi: l’annessione di alcuni stati, la creazione di una serie di monarchie ereditarie affidate ai propri congiunti e la riduzione degli staterelli tedeschi a una sola entità.
La ristrutturazione napoleonica fu molto importante nell’ambito della geografia politica europea, in quanto dava un assetto unitario ai territori tedesco e italiano, aboliva il lento e anacronistico Sacro Romano Impero e favoriva il sorgere dei primi sentimenti nazionalisti. Dal punto di vista giuridico e istituzionale le riforme napoleoniche furono obiettivamente più incisive del riformismo illuminato, apportando la modernizzazione delle strutture e la soppressione degli ultimi scampoli di feudalesimo. Inoltre in ambito economico creò nuove strutture produttive per sopperire ai disagi del blocco continentale e favorì la crescita politica e funzionale delle borghesie locali, dando loro modo di accedere ai ruoli militari e burocratici, e dunque di maturare culturalmente. Così cambiava la geografia politica dell’Europa:

Annessioni – Sono annesse all’impero Parma e il Piemonte, la Repubblica Ligure e le Province Illiriche, la Toscana, l’Umbria e il Lazio, il Belgio.

Monarchie ereditarie – Queste furono le monarchie costituite da Napoleone e affidate ai suoi congiunti:
Regno d’Italia – si costituisce nel 1805, dopo essere stato Repubblica Cisalpina; Bonaparte ne assume la corona e affida la reggenza a Eugenio Beuharnais.
Regno d’Olanda – già Repubblica Batava, si costituisce nel 1806 e viene affidato a Luigi Bonaparte, e poi nel 1810 annesso all’Impero.
Regno di Napoli – si costituisce nel 1806 ed è affidato prima a Giuseppe Bonaparte e poi al cognato di Napoleone, Gioacchino Murat, marito di Carolina Bonaparte.
Regno di Westfalia – si costituisce nel 1807 ed è affidato a Gerolamo Bonaparte.
Regno di Spagna – si costituisce nel 1808 ed è affidato a Giuseppe Bonaparte, che lascia il Regno di Napoli a Gioacchino Murat.
Ducato di Lucca, Massa Carrara e Piombino – viene affidato a Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone.

Ristrutturazione dell’area tedesca – I 112 staterelli tedeschi sono soppressi, vengono elevati al rango di regni Baviera e Wurttemberg, viene creata la Confederazione del Reno con stati vassalli della Francia e viene eliminato il Sacro Romano Impero con la rinuncia dell’Imperatore Francesco II alla corona imperiale e con la conseguente ascesa dello stesso al titolo di Imperatore d’Austria col nome di Francesco I. I territori polacchi sono raggruppati nel Granducato di Varsavia, mentre sul trono svedese Napoleone pone il fidato generale Bernadotte. Svezia e Polonia completano il quadro degli stati vassalli della Francia.

4 - L’ITALIA NAPOLEONICA

L’Italia - In otto anni, dal 1800 al 1808, tutta l’Italia, a eccezione delle Isole maggiori, passa sotto il dominio napoleonico. Il Regno d’Italia, retto da Eugenio Beuharnais, adotta il modello politico e istituzionale francese, con una costituzione ricalcante quella consolare, tre collegi elettorali riservati ai possidenti, ai dotti e ai commercianti, e il Codice Napoleonico. Nel Regno di Napoli murattiano veniva invece varata la legge sull’eversione della feudalità, i beni ecclesiastici venivano confiscati e  i demani comunali privatizzati. Nel frattempo giungeva anche la scomunica per Napoleone, reo di aver invaso Umbria e Lazio: il Bonaparte per tutta risposta fa arrestare Pio VII e lo rinchiude prima a Savona e quindi lo trasferisce prigioniero  a Fontainebleau.
Nonostante il positivo bilancio economico, conseguente all’inserimento della penisola in una più ampia rete di traffici internazionali, occorre dire che il progresso fu limitato alla sola borghesia e la maggior parte dei settori soffrirono di una eccessiva dipendenza dalle esigenze e dai tornaconto francesi.

La Francia - Sotto Napoleone l’economia francese compiva un gigantesco balzo in avanti.  Il blocco continentale costringeva infatti Napoleone a trovare strade alternative per produrre i beni di prima necessità. Molte colture agricole vennero rinnovate, si fecero strada nuovi settori nella manifattura tessile, modernizzata col sistema della meccanizzazione, mentre vanno in calo i porti atlantici, in conseguenza dell’embargo.

5 - LA CRISI DELL’IMPERO

Nonostante tutto ciò l’Impero Napoleonico conobbe presto numerosi dissensi. Questi venivano soprattutto dai reazionari nostalgici dell’ancien règime, dagli ideologues di matrice liberale, e dai cattolici che non avevano mai perdonato al Bonaparte l’imprigionamento del papa. Ma anche altri fattori minavano la solidità dell’impero:
innanzitutto il sentimento nazionale, risvegliato proprio dallo stesso Bonaparte, che aveva portato la Spagna a ribellarsi contro il regime francese. Proprio nella Spagna napoleonica la guerriglia rappresentava una autentica spina nel fianco, nonostante la presenza dei patrioti liberali che erano riusciti a sopprimere le istituzioni vetero-feudali e la stessa Inquisizione: molti di questi passarono al nemico, abbandonando i cosiddetti afrancesados, e ingrossando le fila dei guerrilleros.  Anche in Germania fiorisce un rinnovato sentimento nazionalista, ispirato soprattutto dal filosofo romantico Fichte e dal suo Discorso alla nazione tedesca;
un altro elemento di tensione era la resistenza inglese, poiché l’Inghilterra non solo era riuscita ad aggirare il blocco continentale con il contrabbando e il commercio coloniale, ma vantava una indiscussa superiorità navale. Tuttavia l’Inghilterra attraversa un periodo di forte tensione sociale, scatenata dal luddismo, il movimento di protesta dei lavoratori che si opponevano all’introduzione delle macchine;
infine, ad aggravare la crisi , c’era la rottura dell’alleanza franco-russa, dovuta in buona parte all’ostilità dell’aristocrazia russa che non vedeva di buon occhio il blocco continentale, in quanto comprometteva i traffici commerciali con l’Inghilterra, e anche agli ambienti religiosi, ostili al laicismo dell’impero napoleonico.
Napoleone si era reso conto dell’inaffidabilità dello zar, e aveva deciso di batterlo sul tempo. Lo zar aveva intimato al Bonaparte di sgomberare il suolo prussiano e di ripristinare i normali traffici economici tra i paesi europei e la Russia. Napoleone rispose inviando una gigantesca armata di seicentomila uomini in territorio tedesco, impedendo di fatto ogni accordo dello zar con Austria e Prussia. All’indifferenza dello zar il Bonaparte decide di rispondere invadendo il territorio russo, nell’estate del 1812. Napoleone contava sull’indiscutibile superiorità numerica della propria armata e attraversò il confine con duecentomila uomini, sicuro di ridurre l’esercito russo alla resa.
Ma i Russi evitarono lo scontro diretto, preferendo adottare la classica strategia della terra bruciata e ritirandosi all’interno del paese. Nel mese di settembre avviene il primo scontro, a Borodino, e poi a Mosca, dove la città viene data alle fiamme, ma lo zar rifiutò ogni trattativa e l’esercito continuò a ripiegare all’interno del paese. Mentre incalzava il rigido inverno russo, nell’ottobre 1812 Bonaparte ordinava la ritirata: fu una catastrofe, con l’armata napoleonica decimata dal freddo e dagli attacchi di partigiani e cosacchi, appena ventimila uomini riuscirono a riattraversare il confine.

6 - I CENTO GIORNI

Mentre Napoleone era impegnato in Russia l’Inghilterra occupava la Spagna e lo zar invadeva il territorio polacco. Tuttavia nessun paese europeo sapeva ancora approfittare della crisi del Bonaparte. La guerra fu rilanciata dalla Prussia, che nel febbraio 1813 promosse la Sesta Coalizione insieme alla Russia, alla Svezia, all’Inghilterra e all’Austria. Napoleone raduna una poderosa armata, formata da inesperti coscritti, che in un primo tempo sembra aver ragione dell’esercito della Coalizione, che viene battuto su due fronti, a Lutzen e a Bautzen, in territorio tedesco; ma a Lipsia l’esercito napoleonico pagò cara l’inesperienza dei suoi soldati e fu duramente battuto. In tre giorni si scontrarono circa un milione di uomini, e non a caso Lipsia è ricordata come la più grande battaglia dell’epopea napoleonica.
La sconfitta del Bonaparte bastò a sfaldare in pochi mesi il sistema continentale. Il 3 aprile 1814, in una Parigi occupata, il Senato dichiara Napoleone decaduto e affida il governo a un esecutivo provvisorio presieduto da Talleyrand. Abbandonato dai suoi generali Napoleone è costretto ad abdicare. L’11 aprile 1814 il governo firma l’accordo di Fontainebleau, che stabilisce la sovranità del Bonaparte sull’isola d’Elba, mentre alla moglie Maria Luisa viene affidato il ducato di Parma; al posto del deposto imperatore viene ripristinato il legittimo erede della corona francese, il conte di Provenza Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI. Il 30 maggio viene firmata la pace di Parigi, che di fatto imponeva alla Francia la rinuncia al suo impero coloniale e il ritorno alla situazione geografica del 1792.
L’Austria occupava la Lombardia per impedire la formazione di uno stato indipendente nel Nord Italia, e alcuni giorni dopo il nuovo re Luigi XVIII adottava un nuovo assetto costituzionale, simile a quello inglese, ma privando il Parlamento di ogni potere. Il nuovo assetto fu causa di un profondo malessere, perché privava gli aristocratici delle loro prerogative feudali e nel contempo restituiva alla borghesia un Parlamento di fatto esautorato. Nel novembre 1814 si riunisce il Congresso di Vienna. Duecentosedici delegazioni cercavano di ridisegnare la carta geografica europea dopo il crollo del sistema continentale di Napoleone Bonaparte. In questo periodo, pochi mesi prima che il Congresso iniziasse i lavori, lo stesso Bonaparte lascia l’isola d’Elba e il 1 marzo 1814 sbarca ad Antibes.
È l’inizio dei cosiddetti Cento Giorni. Mentre il Congresso di Vienna  dichiarava il Bonaparte bandito dall’Europa, Napoleone iniziava la sua marcia trionfale verso la Francia, acclamato da numerosi sostenitori, mentre Luigi XVIII lasciava il paese. Entrato a Parigi Napoleone cercò di appoggiarsi al gruppo degli ideologues, approntando delle riforme liberali, ma gli stati europei si riarmarono per lo scontro decisivo, obbligando il Bonaparte ad approntare un esercito di veterani. Il 18 giugno 1815, a Waterloo, l’esercito del Bonaparte riuscì a sconfiggere l’esercito prussiano; ma questo riuscì a ricongiungersi con quello inglese di Wellington e per Bonaparte fu l’ultima e decisiva sconfitta. Mentre Luigi XVIII riprendeva possesso del trono francese Bonaparte veniva esiliato nell’isola di Sant’Elena, dove consumò i suoi ultimi giorni di vita. 
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CLASSE QUARTA - MODULO 5 - STORIA
La Prima Restaurazione e il 1848

L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

Dopo la caduta di Napoleone e il disfacimento del blocco continentale gli equilibri geopolitici avevano subito tali cambiamenti da rendere perfino risibile il concetto di restaurazione. Conclusa la parentesi napoleonica tornavano ad affermarsi i principi ispiratori della Rivoluzione Francese, e molti sovrani introducevano presso i loro sudditi il diritto alla rappresentanza. In campo filosofico erano soprattutto i temi spirituali a tenere banco: falliti i tentativi rivoluzionari e tramontati i principi egualitari era solo la fede in Dio a rappresentare l’unica indissolubile certezza. La religione cattolica scopriva nuove frange con il liberalismo e il neoguelfismo; Burke e Chateaubriand ispiravano invece in campo storico il progetto di revisione delle ideologie illuministe. L’uomo del Romanticismo riscopriva la storia, e con essa il valore di ogni popolo.
In campo politico si assiste a una riconciliazione tra le Corone europee e il Papato, dopo le ingerenze della cultura laica napoleonica; ma il rapporto non fu tranquillo, a causa delle solite pretese assolutiste della Chiesa di Roma. In campo economico si segnala la crisi che colpisce i ceti produttivi borghesi, e la conseguente ripresa delle aristocrazie feudali e della nobiltà terriera, soprattutto in Prussia.
Chi furono i nemici della Restaurazione? Sicuramente funzionari e ufficiali degli stati vassalli della Francia napoleonica, la borghesia del commercio e dell’industria, certi intellettuali progressisti, che vedevano nell’opera restauratrice il pericoloso riaffermarsi delle tendenze aristocratiche; ma anche i liberalisti moderati, nobili e borghesi, e i democratici giacobini, ufficiali e piccolo borghesi, oltre ai cattolici liberali, ispirati da Lamennais, e il proletariato urbano.
La strada del dialogo, della convergenza e della cospirazione trovava nel frattempo sfogo nel costituirsi delle società segrete, generalmente a carattere patriottico e nazionalista, essenzialmente eterogenee come composizione e vincolate dal rispetto del segreto e della fratellanza: soprattutto in Italia prese piede la Carboneria, ma in ogni parte d’Europa si formarono varie sette, accomunate dalla riservatezza, dal gradualismo dottrinale, dall’uso di un particolare cerimoniale e di un formulario catechistico apposito per ciascun grado di affiliazione.

IL CONGRESSO DI VIENNA

Il Congresso della pace si riunì a Vienna dal settembre 1814 fino al giugno dell’anno seguente. Ne furono principali animatori l’inglese lord Castlereagh, l’austriaco principe di Metternich, il conte russo Nesselrod, il principe prussiano von Hordenberg, e il ministro francese Talleyrand. Fu proprio Talleyrand a pronunciare il principio di legittimità, chiedendo la restaurazione dei legittimi sovrani sui rispettivi troni, da cui erano stai deposti durante l’impero di Napoleone. Così cambiò dunque la fisionomia dell’Europa:
l’Olanda diventò Regno dei Paesi Bassi e sul suo trono fu posto Guglielmo I di Orange-Nassau, che inglobò nel territorio i Paesi Bassi austriaci, ossia il Belgio;
il disciolto Sacro Romano Impero fu sostituito dalla Confederazione Germanica, costituita da 39 stati, guidata dall’imperatore austriaco Francesco I, che ottenne anche gli ex territori della Repubblica di Venezia, uniti alla Lombardia in una nuova entità territoriale (il Regno Lombardo-Veneto);
in seno alla Confederazione Germanica il re prussiano Federico Guglielmo III otteneva importanti allargamenti del territorio che facevano della Prussia lo stato più grande tra i 39 costituenti la Confederazione, e lo stesso re fu nominato garante della difesa dei confini germanici da eventuali nuovi attacchi francesi;
lo zar Alessandro I di Russia otteneva la Finlandia, la Polonia e la Bessarabia turca;
l’Inghilterra ottenne l’isola danese di Helgoland, ottimo avamposto strategico, e l’isola di Malta, oltre a diverse colonie in Asia e in Africa;
il re sabaudo Vittorio Emanuele I riottenne la Savoia e ingrandì il suo territorio fino alla Liguria, di modo da difendere il nord Italia con un capace muro difensivo contro nuovi eventuali attacchi francesi;
Ferdinando IV di Borbone riottenne Napoli e anche la Sicilia: i due regni furono fusi e venne creata una nuova entità territoriale (Regno delle Due Sicilie);
il papa Pio VII riprese lo Stato Pontificio a esclusione di Avignone;
Ferdinando III di Lorena ottenne il Granducato di Toscana, più l’ex Stato dei Presidi e l’isola di Piombino;
il Ducato di Modena e Reggio tornò a Ferdinando di Asburgo-Este; il Ducato di Parma e Piacenza restò a titolo vitalizio alla vedova di Napoleone, Maria Luisa, per poi essere reintegrato nel Granducato di Toscana.
A coronamento dell’opera restauratrice, su iniziativa dello zar Alessandro I Russia, Austria e Prussia si costituivano in patto con la Santa Alleanza, che inaugurava una nuova era per le relazioni diplomatiche tra stati e per la cooperazione internazionale. Ad animare il patto era il timore di una ripresa del vento rivoluzionario, ma va sottolineato che l’accordo costituisce un assoluto primato nei rapporti diplomatici internazionali.

LA RESTAURAZIONE IN FRANCIA E SPAGNA

Francia – Sul trono francese era stato dunque restaurato Luigi XVIII, fratello del re ghigliottinato Luigi XVI. La presenza sul trono del sovrano aveva alimentato l’intolleranza degli ultras sostenitori della monarchia assoluta contro i giacobini e i bonapartisti. Luigi XVIII era stato incoronato secondo l’antica formula Re di Francia e di Navarra, e aveva ripristinato l’antico stemma gigliato in luogo del tricolore rivoluzionario.
La nuova carta costituzionale prevedeva l’introduzione di un Parlamento bicamerale, costituito da una Camera dei Deputati, eletti a suffragio censitario, e una Camera dei Pari di stretta nomina regia. Il passo avanti in effetti ci fu, anche se la nuova Costituzione era evidentemente octroyée, cioè di strettissima volontà sovrana.

Spagna – La Spagna presentava una situazione piuttosto complessa. I borghesi e i patrioti liberali militavano tra le file degli afrancesados, il vecchio partito bonapartista di ispirazione liberale, mentre l’aristocrazia e il clero si opponevano a qualunque innovazione di sapore liberale. La vera svolta si ebbe col ritiro da parte di Ferdinando VII della Costituzione di Cadice, che costituiva un passo indietro nella maturazione politica e civile del paese. Il movimento dissidente si ricompattò soprattutto nelle file della massoneria e nel movimento filomassonico dei Comuneros. 

LA RESTAURAZIONE IN AUSTRIA E NEL REGNO LOMBARDO-VENETO

Fin dai tempi di Carlo VI l’impero degli Asburgo era estremamente composito e basato su una popolazione eterogenea. A tenere unito il paese erano soprattutto tre elementi: il rigorosissimo centralismo amministrativo, il forte apparato poliziesco e una rigida burocrazia. Con l’annessione di Venezia e la formazione del Regno Lombardo-Veneto erano aumentati i dissidenti nazionalisti, e Vienna guardava con sospetto ogni palesarsi di sintomi rivoluzionari. A rendere grave la situazione era il pesante meccanismo di esazione fiscale, esercitato da due Congregazioni, una in Lombardia e una in Veneto, che soprattutto favoriva l’esportazione dei prodotti austro-boemi e penalizzava quelli locali. In pratica il Nord veniva sfruttato, la Valle del Po era nota come mucca da latte, e la situazione finì col deprivare la florida industria manifatturiera del Settentrione. Fu a questo punto che il patriziato lombardo decise di correre ai ripari, animando una propaganda liberale e antiasburgica.
A reggere le fila del movimento erano il conte Porro Lambertenghi e il conte Confalonieri, fondatori del Conciliatore, una rivista di idee liberali che fu pubblicata fino al 1819, dapprima legalmente, poi clandestinamente. Al periodico collaborarono Pellico, Berchet e Borsieri e i più bei nomi del pensiero risorgimentale italiano. Lo stretto controllo austriaco si estendeva anche agli altri stati italiani, come testimonia la presenza di Maria Luisa d’Asburgo a Parma e Ferdinando III di Lorena nel Granducato di Toscana: parenti degli Asburgo e quindi argini efficaci contro le cospirazioni antiaustriache.

LA RESTAURAZIONE IN GERMANIA

La Germania aveva riscoperto col nazionalismo il sogno dell’unificazione, sogno che si realizzerà compiutamente durante il governo di Bismarck e che restò bloccato nella prima metà dell’Ottocento per la tenace opposizione della borghesia terriera prussiana degli Junker. In alternativa va segnalato l’inizio del progetto di unificazione doganale (zollverein) mentre venivano represse le ventate patriottiche e antiaustriache.

LA RESTAURAZIONE IN RUSSIA

La sconfitta di Napoleone aveva oltremodo motivato lo zar Alessandro I che, sentendosi quasi investito di una missione divina, si era impegnato in un disegno imperialistico ed espansionistico, volto a promuovere l’egemonia russa in Europa. Il progetto incontrò subito lo sfavore dell’Inghilterra, che non vedeva di buon occhio il ruolo egemonico della Santa Russia nell’est europeo, e delle élite intellettuali, che animeranno il moto decabrista russo del 1825.

LA RESTAURAZIONE IN INGHILTERRA

La Restaurazione portava in Inghilterra la soppressione, nel 1816, di un documento di fondamentale importanza, l’Habeas Corpus Act, che garantiva fin dal 1679 il diritto di inviolabilità e di rappresentanza di ogni cittadino. Motivo principale della sua soppressione fu il giro di vite che il governo inglese fu costretto a dare alla vita pubblica dopo le tensioni sociali scoppiate  nel paese e fomentate dal proletariato urbano, principalmente dai seguaci del luddismo che si opponevano alla sempre più massiccia introduzione di macchine nelle industrie, causa di una progressiva diminuzione di possibilità lavorative per la manodopera specializzata. Inutile dire che la sua soppressione finì col provocare nuove tensioni. Il paese si trovava sull’orlo di una crisi economica, che porta a misure esattive eccezionali come la Corn Law, legge che imponeva forti dazi sul grano di importazione. Nel 18222 muore Lord Castlereagh e il progresso liberale porta al potere Peel e Canning.

LA RESTAURAZIONE IN ITALIA

La Restaurazione provocò differenti effetti nelle diverse regioni italiane. Vittorio Emanuele I di Savoia, re di Sardegna, aveva da tempo abbandonato il Codice Napoleonico, procedendo alla debonapartizzazione dello stato, tornato alle vecchie e oppressive leggi e misure fiscali; in particolar modo venne rafforzata la line a di confine con la Liguria e vennero istituite pesanti leggi doganali per minare il commercio genovese. Nel Piemonte sabaudo si costituirono le prime sette di Carbonari, Adelfi e Federati, espressione della borghesia liberale piemontese e dei sentimenti antiasburgici di un paese che sentiva la necessità di espandersi. Nel Granducato di Toscana anche Ferdinando III abolì il Codice Napoleonico restaurando il vecchio Codice Leopoldino. Il regno di Ferdinando è molto importante, poiché durante il suo regno Firenze diventerà la capitale del liberalismo moderato italiano. A Roma il papa Pio VII desiderava riportare in alto le quotazioni della Chiesa, operando una svolta liberale e riformatrice, ma il suo tentativo era bloccato dai cosiddetti cardinali zelanti, un forte partito a carattere conservatore appoggiato dai Gesuiti. Nelle campagne il potere era ancora in mano alle grandi famiglie dell’aristocrazia fondiaria e alle potenti congregazioni religiose, ma anche nel Lazio inizia a formarsi un ceto medio imprenditoriale. Intanto nelle Legazioni facenti parte dello Stato Pontificio si incrociavano correnti di autonomia e pensiero liberale con correnti anticlericali, che favorivano il sorgere di nuove società segrete. Nel Regno delle Due Sicilie il sovrano restaurato Ferdinando di Borbone era costretto a riprendere la strada delle riforme, dopo l’immobilismo napoleonico, portando avanti il suo Codice Ferdinandeo: si trattò praticamente di una revisione del Codice del Bonaparte, che favoriva ancora una volta i privilegi di clero e aristocrazia. Anche nel Regno delle Due Sicilie l’ingerenza dei baroni e soprattutto le pressioni fiscal determinarono il costituirsi di un movimento di protesta, attuato nelle modalità cospirative della costituenda Carboneria, e portato avanti dai separatisti siciliani e da varie sette segrete. Infine nel ducato di Parma Maria Luisa d’Asburgo aveva improntato il proprio regno a un pacato moderatismo politico e liberale.

I MOTI LIBERALI EUROPEI DEL 1820-21

I moti del 1820-1821 furono tentativi di insurrezione nati in Spagna che si diffusero poi in diversi altri paesi.

In Spagna si accese, nel gennaio 1820, una ribellione guidata da alcuni ufficiali dell'esercito: presso il porto di Cadice, essi si rifiutarono di partire alla volta delle Americhe per stroncare i governi indipendentisti che si stavano creando. Il tentativo parve riuscire: fu concessa una Costituzione, fu convocato il Parlamento; ma, dopo quei primi successi, la rivolta fu soffocata nel sangue. Con la battaglia del Trocadero, alla quale partecipò anche il principe Carlo Alberto di Savoia, erede al trono di Sardegna, i soldati francesi misero fine definitivamente ai disordini. Sulla spinta degli avvenimenti spagnoli, anche in Italia si moltiplicarono i primi tentativi insurrezionali: nel luglio 1820 a Napoli e in Sicilia andarono organizzandosi gruppi di ribelli; nel marzo 1821 scoppiò la rivoluzione in Piemonte. Quei moti, che miravano ad ottenere una Costituzione e l'indipendenza dallo straniero, erano però destinate a spegnersi: nel napoletano intervennero truppe austriache fatte chiamare dal re Ferdinando, che si era precipitato al Congresso di Verona, e i rivoltosi vennero sbaragliati; in Piemonte i ribelli, che non avevano come obiettivo il ribaltare la monarchia sabauda, anzi chiedevano al re di unificare l'Italia, furono sconfitti; furono eseguite alcune condanne a morte, e in molti furono costretti a fuggire. Nel Lombardo-Veneto la scoperta di alcune società segrete portò a processi e condanne contro molti degli oppositori del dominio austriaco.

Nel dicembre 1825, in Russia, scoppiò un nuovo moto insurrezionale, il cosiddetto moto decabrista dal nome del mese, ma venne immediatamente represso. Il giorno della rivolta, il 14 dicembre le truppe guidate da alcuni ufficiali del Reggimento Preobraženskij si riunirono nella Piazza del Senato a San Pietroburgo, ma la Guardia reale, fedele allo zar Nicola I, apri' il fuoco sui soldati ribelli e l'insurrezione venne immediatamente sedata. Dopo una reclusione nella fortezza di Pietro e Paolo ed un breve processo, il 25 giugno 1826 i cinque esponenti principali furono impiccati, mentre gli altri, per totale di circa 600 persone, vennero mandati in esilio in Siberia.

I MOTI DI SPAGNA
IL PRONUNCIAMIENTO DI CADICE

La data di inizio dei moti può considerarsi il 1 gennaio 1820: presso il porto della città marittima di Cadice, in Spagna, alcuni reparti militari avevano ricevuto l'incarico di imbarcarsi alla volta delle colonie spagnole, dove alcune di esse si erano date governi indipendenti. Ciò era stato possibile in seguito all'invasione napoleonica della Spagna, alla cacciata dei Borbone e alla mancanza di un governo centrale saldo. Con l'invio dei battaglioni si pensava di sedare così la rivolta guidata da Simón Bolívar.

Gli ufficiali rifiutarono di imbarcarsi e diedero inizio ad una rivolta, detta pronunciamiento. Seguiti dai loro reparti, essi esigevano che il re Ferdinando VII concedesse nuovamente la Costituzione di Cadice, abrogata dopo il suo ritorno sul trono. Uno dei capi principali dei moti fu Rafael del Riego. Questi trascinò il suo battaglione sino ad Arcos de la Frontera, ove prese prigioniero il comandante in capo del corpo di spedizione nelle Americhe, il generale conte de Calderón.

Dopodiché, cominciò una marcia per molte città andaluse, con l'intento di sollevarle. Intento fallito, che si scontrò con una generale indifferenza delle popolazioni. E ciò nonostante fu minima la reazione da parte dei legittimisti, o del governo centrale, incapace di reagire per reprimere i reparti ribelli. Riego, ad ogni buon conto, dovette disperdere la colonna, cercando egli stesso rifugio nelle deserte colline dell'Estremadura. Al fallimento del pronunciamento in Andalusia, tuttavia, seguì un secondo tentativo militare, questa volta nella lontana Galizia, a La Coruña, seguita da Ferrol e da Vigo: in tutte queste città venne ri-proclamata la Costituzione del 1812. Poi il movimento insurrezionale si estese per il resto della Spagna.

L'evento culminante venne il 7 marzo 1820, allorché una folla circondò il Palazzo Reale di Madrid, ove sedeva Ferdinando VII. Questi considerava di disporre, nella guarnigione della capitale, di truppe sufficienti per spazzare il tumulto ed emanò i relativi ordini al comandante generale Ballesteros. Il generale, però, rispose di non poter rispondere della propria truppa. Seguirono ore di marcata tensione, sino alla tarda serata, quando il sovrano venne indotto a firmare un decreto col quale dichiarava di aver stabilito di giurare sulla Costituzione in accordo con la volontà generale del popolo.

Seguì, il 10, un proclama reale, "Manifiesto del rey a la Nación española", nel quale Ferdinando annunciava di aver prestato giuramento alla Costituzione, il precedente 8, ed aggiungeva: "Marciamo risolutamente, ed io sarò il primo, per il sentiero costituzionale". Cominciava così il Triennio Liberale.

Il 9-14 ottobre 1822, al Congresso di Verona, le potenze della Santa Alleanza autorizzarono la Francia di Luigi XVIII a condurre un corpo di spedizione in Spagna, volto a reintrodurre la monarchia assoluta.

Il 7 aprile 1823 un numerosissimo esercito, formato da ben 95.000 uomini detti i "Centomila Figli di San Luigi" e guidato dal duca d’Angoulême (figlio di Carlo X e, quindi, nipote di Luigi XVIII), attraversò la frontiera sui Pirenei. Salvo alcuni scontri minori in Catalogna, il duca poté condurre una facile marcia sino a Madrid, raggiunta il 24 maggio, ove venne trionfalmente accolto.

Nel frattempo il governo liberale che si era formato aveva preso formalmente prigioniero Ferdinando e lo aveva condotto con se nella città-fortezza di Cadice centro della rivolta liberale. Qui i deputati liberali delle Cortes Generales, con il pieno appoggio del Riego, si riunirono per votare la destituzione del prigioniero Ferdinando.

Lì giunsero anche i francesi, che cominciarono un assedio, condotto con l’appoggio di una grandissima flotta, forte di 67 navi da battaglia. L'assedio si concluse il 31 agosto quando, dopo la vittoriosa conquista di due forti all’imbocco della penisola a 12 chilometri da Cadice, nota come battaglia del Trocadero, cui partecipò anche Carlo Alberto di Savoia, la città venne costretta alla capitolazione.

I MOTI CARBONARI A NAPOLI

La diffusione, nel marzo 1820, anche nel Regno di Napoli, della conquista in Spagna del regime costituzionale contribuì notevolmente ad esaltare gli ambienti carbonari e massonici. A Napoli, la cospirazione (la quale non si pose mai l’intento di rovesciare il re, ma solo di chiedere la costituzione) prese subito vigore e coinvolse anche alcuni ufficiali superiori, come i fratelli Florestano e Guglielmo Pepe.

Michele Morelli, capo della sezione della carboneria di Nola, decise di coinvolgere il proprio reggimento nella cospirazione. A questo si affiancarono Giuseppe Silvati, sottotenente, e Luigi Minichini, prete nolano dalle idee anarcoidi.

La notte tra il l’1 e il 2 luglio 1820, la notte di San Teobaldo, patrono dei carbonari, Morelli e Silvati diedero il via alla cospirazione disertando con circa 130 uomini e 20 ufficiali. Ben presto li raggiunse Minichini che entrò in contrasto con Morelli: il primo voleva procedere con un largo giro per le campagne allo scopo di aggiungere alle proprie fila quei contadini e quei popolani che credeva attendessero di unirsi alla cospirazione; il secondo voleva puntare direttamente su Avellino dove lo attendeva il generale Pepe. Minichini lasciò lo squadrone allo scopo di seguire il proprio intento, ma dovette far ritorno poco dopo senza risultati. Il giovane ufficiale Michele Morelli, sostenuto dalle proprie truppe, procedeva verso Avellino senza incontrare per le strade l’entusiasmo delle folle che si aspettava.

Il 2 luglio, a Monteforte, fu accolto trionfalmente. Il giorno seguente, Morelli, Silvati e Minichini fecero il loro ingresso ad Avellino. Accolti dalle autorità cittadine, rassicurate del fatto che la loro azione non aveva intenzione di rovesciare la monarchia, proclamarono la costituzione sul modello spagnolo. Dopo di che, passò i poteri nelle mani del colonnello De Concilij, capo di stato maggiore del generale Pepe. Questo gesto di sottomissione alla gerarchia militare, provocò il disappunto di Minichini che tornò a Nola per incitare una rivolta popolare. Il 5 luglio, Morelli entrava a Salerno, mentre la rivolta si espandeva a Napoli dove il generale Guglielmo Pepe aveva raccolto molte unità militari. Il giorno seguente, il re Ferdinando I si vide costretto a concedere la costituzione.

Dopo pochi mesi, le potenze della Santa Alleanza, riunite in congresso a Lubiana, decisero l'intervento armato contro i rivoluzionari che nel Regno delle Due Sicilie avevano proclamato la costituzione. Si cercò di resistere, ma il 7 marzo 1821 i costituzionalisti di Napoli comandati da Guglielmo Pepe, sebbene forti di 40.000 uomini, furono sconfitti ad Antrodoco dalle truppe austriache. Il 24 marzo gli austriaci entrarono a Napoli senza incontrare resistenza e chiusero il neonato parlamento.

Dopo un paio di mesi, re Ferdinando revocò la costituzione e affidò al ministro di polizia, il principe di Canosa, il compito di catturare tutti coloro che erano sospettati di cospirazione.

I MOTI PIEMONTESI

Già da tempo in Piemonte, e in particolare a Torino, alcuni gruppi, di idee borghesi e liberali, avevano coltivato l'idea di una campagna militare, che avrebbe dovuto essere guidata dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I di Savoia, allo scopo di liberare i territori italiani dalla dominazione straniera. Inoltre, riteneva che il Re si dovesse impegnare a concedere ufficialmente una costituzione ai sudditi del regno, fatto che avrebbe testimoniato l'impegno dei Savoia ad allearsi con i patrioti e ad assumere la guida del movimento liberale italiano. Tuttavia, fin dall'inizio del suo mandato, Vittorio Emanuele I si impegnò a restaurare in Piemonte e negli altri territori sotto il suo controllo un soffocante regime assolutistico, che contribuì ad andare in direzione opposta alle idee liberali della Carboneria e della borghesia in generale.

Si pensò quindi di cercare un altro alleato, che si palesò nella figura del giovane erede al trono sabaudo, Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, per indurlo ad assumere la guida dei rivoluzionari. Carlo Alberto era stato infatti l'unico esponente della famiglia sabauda ad esprimere la propria solidarietà agli universitari torinesi che, nel gennaio 1821, avevano organizzato contro l'Austria una manifestazione pacifica e liberale, manifestazione repressa subito nel sangue; per questo motivo, si pensò che Carlo Alberto avesse davvero a cuore la questione italiana. I primi contatti si rivelarono più che positivi e sembrava che il giovane esponente di Casa Savoia avesse davvero intenzione di aderire all'impresa.

Nel 1820 le insurrezioni scoppiate in Spagna, Portogallo ed Italia meridionale contribuirono a rafforzare il patriottismo italiano, in particolare quello piemontese, i cui sostenitori pensarono che la loro rivolta sarebbe stata appoggiata e seguita, con ogni probabilità, da parte dei patrioti siciliani e napoletani. Inoltre, i patrioti piemontesi cercarono in ogni modo di sostenere militarmente gli omologhi napoletani, ma non vi riuscirono per motivi legati alla scarsa organizzazione ed alla tardiva notizia della partenza dell'esercito asburgico per il Regno di Napoli. Nella seconda metà del 1820, Santorre di Santa Rosa, uno dei principali esponeneti dell'organizzazione dei moti, si incontrò spesso segretamente con alcuni generali, politici (tra cui Amedeo Ravina) e con il giovane principe di Casa Savoia per definire la data e le modalità della ribellione; dopo molte riunioni, si stabilì che la rivolta dovesse scatenarsi non prima dell'inizio del nuovo anno, in modo che l'esercito austriaco, ancora impegnato nella repressione dei moti di Nola e di Napoli dello stesso anno, non fosse subito pronto ad intervenire in quanto bisognoso di qualche tempo per riorganizzarsi.

Il 6 marzo 1821, durante la notte, Santorre e altri generali si riunirono nella biblioteca del principe, insieme allo stesso Carlo Alberto, per organizzare nei dettagli l'impresa che, secondo un accordo precedente, sarebbe dovuta iniziare nel mese di febbraio: nel corso dell'incontro, Carlo Alberto mostrò alcuni tentennamenti, soprattutto sulla loro intenzione di dichiarare guerra all'Austria, che portarono Santorre ad avere qualche dubbio sul principe e sulle sue vere intenzioni. Tuttavia Carlo Alberto lasciò intendere il suo appoggio, e per questo motivo Santorre e i suoi associati fecero pervenire il messaggio di prossimo inizio della rivolta ai reparti militari di Alessandria, che, il 10 marzo, diedero inizio all'insurrezione, seguiti subito dopo dai presidi di Vercelli e Torino. In quell'occasione fu emesso da parte dei generali insorti il famoso Pronunciamento, un proclama con il quale si decise l'adozione di una costituzione, improntata su quella spagnola di Cadice del 1812, che prevedeva maggiori diritti per il popolo piemontese e una riduzione del potere del sovrano. Ma il re, piuttosto che concedere il documento, preferì abdicare in favore del fratello Carlo Felice di Savoia, allora assente dal Piemonte. La reggenza venne così affidata al principe Carlo Alberto che, assunto l'incarico, concesse la Costituzione e nominò Santorre di Santarosa ministro della guerra del governo provvisorio.

Di ritorno nella capitale, il nuovo sovrano revocò la costituzione e impose a Carlo Alberto di rimettersi al suo volere, abbandonando Torino e recandosi a Novara, rinunciando definitivamente alla sua carica e alla guida del movimento di rivolta. Nella notte del 22 marzo, mentre alcuni, tra cui lo stesso Santa Rosa, annunciavano una prossima guerra contro l'Austria, Carlo Alberto fuggì segretamente a Novara abbandonando gli insorti al loro destino. Poche ore dopo Santorre, alla guida di un piccolo reparto, si recò nella città piemontese per tentare di convincere il principe e le sue truppe a tornare dalla sua parte, ma la missione si rivelò del tutto infruttuosa.

Privi di un appoggio, i costituzionali decisero di sciogliersi. Fu proposto un nuovo tentativo di insurrezione a Genova, ma subito si decise di non intervenire. Inoltre giunsero a Torino, come supporto all'esercito regio, plotoni austriaci che inflissero una pesante sconfitta ai costituzionali: il neonato governo cadde dopo neppure due mesi e il sogno dei rivoluzionari si infranse.

I MOTI DEL1830-1831

I moti del 1830-1831 furono tentativi di insurrezione, eredi dei moti del 1820-21 nati in Francia e diffusi poi in numerosi paesi europei.

Come durante i moti di dieci anni prima, i veri protagonisti di queste insurrezioni non furono membri del popolo, bensì della borghesia cittadina. Su esempio del popolo francese, che aveva cacciato il suo re Carlo X e l'opprimente politica reazionaria del governo dando vita ad un regime monarchico costituzionale retto da Luigi Filippo d'Orléans, numerose altre nazioni diedero vita ad insurrezioni; positive, come nel caso del Belgio, che ottenne l'indipendenza dall'Olanda, negative, come nel caso della Polonia e di Modena.

I MOTI FRANCESI DEL LUGLIO 1930
LE TRE GLORIOSE

Alla morte di Luigi XVIII, spentosi senza discendenza nel 1824, salì al trono di Francia suo fratello Carlo, conte di Artois, che divenne re con il nome di Carlo X.

Il nuovo re dimostrò subito il suo desiderio di tornare ad un regime simile a quello della monarchia assoluta, restaurando integralmente le condizioni prerivoluzionarie. Concesse numerosi privilegi al clero ed all'aristocrazia, fino ad emanare una legge, la "legge del Miliardo", che avrebbe risarcito tutti i nobili fuoriusciti dal territorio francese durante gli anni della rivoluzione. Carlo, con l'aiuto del suo primo ministro Polignac, di idee fortemente reazionarie, decise di ovviare alle sempre più numerose proteste dei democratici e dei borghesi revocando la carta costituzionale ottriata, concessa da Luigi XVIII nel 1814 e pubblicizzando la campagna militare che avrebbe portato di lì a poco alla conquista dell'Algeria.

Le manifestazioni di protesta non si placarono, ma andarono sempre più ampliandosi, anche a causa della crisi recessiva, dovuta a due anni di carestia: il re perse la fiducia persino del suo Parlamento alle elezioni. Così Carlo, il 26 luglio 1830, emanò quattro decreti, le Ordinanze di Saint-Cloud, con i quali restringeva ulteriormente il diritto di voto, escludendo completamente la borghesia, annullava la libertà di stampa applicando pesanti censure, scioglieva il Parlamento ed indiceva nuove elezioni.

In seguito a queste disposizioni, il popolo di Parigi insorse, guidato principalmente da esponenti della media ed alta borghesia.[1] In tre giornate particolarmente violente, le "tre gloriose" (27, 28, 29 luglio) i parigini si scontrarono per le vie cittadine con i soldati del re, che non riuscirono a tenere testa alla folla. L'assalto delle truppe venne respinto e Carlo X dovette rinunciare al trono fuggendo in Inghilterra.

Di lì a poco venne offerta la corona di Francia a Luigi Filippo d'Orléans, membro di un ramo cadetto dei Borbone. Sembrava l'uomo adatto alle esigenze: di nobile stirpe, quindi atto ad essere il re, figlio di un aristocratico schieratosi con i rivoluzionari[2], eccellente amministratore delle sue terre, dotato di abitudini e mentalità tipicamente borghesi. Luigi Filippo, che regnò per diciotto anni, fu un monarca costituzionale: il re non era più tale per volere divino, ma per una legittimazione dei suoi sudditi. Inoltre, la nuova Costituzione non era più "ottriata" bensì frutto di un accordo tra il sovrano ed il Parlamento.

L'INDIPENDENZA DEL BELGIO

In seguito al Congresso di Vienna, Belgio e Olanda furono uniti in un unico stato, che avrebbe dovuto funzionare da stato cuscinetto per una eventuale volontà francese di espansione territoriale. Lo stato aveva come forma di governo la monarchia, retta dall'olandese Guglielmo I di Orange-Nassau. I belgi mal sopportavano l'unione tra il loro paese e l'Olanda: il nuovo re aveva adottato una forte politica di accentramento amministrativo e tutti gli incarichi di rilievo erano occupati da olandesi. I belgi erano esclusi così dalla vita politica. A questo si andavano ad aggiungere motivi religiosi: gli olandesi erano protestanti, mentre il Belgio era un paese con forti tradizioni cattoliche. Inoltre la politica di dipendenza economica dall'Inghilterra promossa dal governo olandese frenava la sempre maggiore crescita economica delle industrie belghe.

Nonostante fossero divisi in tre regioni con forti antagonismi tra loro[3], i belgi misero da parte le antiche rivalità e si unirono in un movimento, che prese il nome di movimento unionista, che univa le forze agricole delle campagne e quelle industriali delle città. Ben presto, nell'agosto 1830, scoppiò a Bruxelles un moto rivoluzionario. Guglielmo non seppe scendere a patti con gli insorti ed inviò truppe armate per sedare la rivolta. Tuttavia il moto belga riscosse numerose simpatie tra i francesi, che vedevano così infrangersi lo stato cuscinetto creato sul loro confine.

Alla conferenza indetta a Londra, i delegati francesi guidati dal principe Talleyrand convinsero gli inglesi sulla necessità di una nazione belga indipendente. Malgrado la loro vicinanza a re Guglielmo, gli inglesi si espressero a favore di un nuovo stato belga. Il Belgio fu così definitivamente riconosciuto come stato indipendente, staccato dall'Olanda, con un regime monarchico costituzionale a capo del quale fu scelto il principe tedesco Leopoldo di Sassonia-Coburgo, che prese il nome di Leopoldo I del Belgio.

LA FINE DELL'INDIPENDENZA POLACCA

Dalla caduta di Napoleone, la Polonia aveva perso l'indipendenza e si trovava ad essere uno stato satellite della potenza russa. Era dal 1795, anno dell'abdicazione del re Stanislao Poniatowski, che la Polonia non aveva un re. Sull'onda dei successi ottenuti dai rivoluzionari francesi, che erano riusciti a mettere in fuga l'assolutista Carlo X, alcuni polacchi, appartenenti principalmente a circoli intellettuali e militari, promossero un moto rivoluzionario che portasse alla tanto anelata indipendenza. A scatenare questa reazione furono diversi fattori: in particolar modo la grande ostilità nei confronti della Russia, che andava esercitando con sempre maggiore intensità una politica di repressione nei confronti della Polonia, in particolare dopo l'ascesa dello zar Nicola I, che aveva già sventato con la violenza il moto decabrista.

Quando diedero inizio alla rivoluzione, i giovani cadetti erano convinti che la Francia di Luigi Filippo sarebbe intervenuta militarmente a favore degli insorti contro la Russia. Pur mostrando simpatia per l'insurrezione, il re francese mantenne un atteggiamento di passività, senza schierarsi apertamente. Entrare in guerra contro la Russia a favore della Polonia avrebbe avuto come conseguenza la reazione della Prussia e dell'Austria, unite allo zar dai patti della Santa Alleanza.

Perse le speranze in un aiuto francese, si pensava di poter contare almeno sulle masse popolari delle campagne. Tuttavia queste, da secoli legate alle servitù feudali, non ebbero la reazione prevista. Nonostante ciò, il moto portò alla liberazione della Polonia centrale ed alla formazione di un esercito regolare. Ben presto però sorsero dei conflitti fra i capi del moto: alcuni erano convinti che, giunti a questo punto, si dovesse scendere a patti con i russi, altri credevano invece nella necessità di una guerra ad oltranza. Approfittando delle divisioni interne degli insorti, le armate russe attaccarono i reparti polacchi che tentarono una strenua resistenza, ma nell'ottobre 1831 furono costretti a capitolare. Varsavia venne presa ed il moto soffocato nel sangue. La Polonia tornava ad essere una provincia russa.

I MOTI CARBONARI IN EMILIA ROMAGNA

In seguito ai moti francesi, si riaccesero in alcuni italiani le speranze per una nuova insurrezione [4]. In particolare, nel ducato di Modena la carboneria locale aveva intrecciato rapporti amichevoli con il duca Francesco IV, che si mostrava particolarmente interessato alla questione ed aveva in mente oscuri progetti di dominio. Si andò così organizzando un grande moto di insurrezione che comprendeva numerose città emiliane e romagnole, alcune, soprattutto le seconde, sotto il dominio dello Stato della Chiesa. Fiduciosi dell'appoggio del duca, i congiurati diedero inizio alla rivolta. Immediatamente Francesco IV tradì le aspettative e fece addirittura arrestare molti dei capi della rivolta, tra cui Ciro Menotti.
Nonostante questo voltafaccia, frutto del timore di un intervento austriaco, gli insorti presero importanti città come Modena, Parma e Bologna, dove furono creati governi provvisori. Questi tuttavia non resistettero a lungo, a causa del mancato intervento francese, in cui si confidava molto, e della disunione presente tra i capi della rivolta.
Nel marzo 1831 l'esercito austriaco fu fatto intervenire, ed in breve tempo fu ristabilito l'ordine, cui seguirono condanne a morte.

LA GIOVINE ITALIA(1831)

Nel 1831 Mazzini si trovava a Marsiglia in esilio dopo l'arresto e il processo subito l'anno prima in Piemonte a causa della sua affiliazione alla Carboneria. Non potendosi provare la sua colpevolezza infatti la polizia sabauda lo costrinse a scegliere tra il confino in un paesino del Piemonte e l'esilio. Mazzini preferì affrontare l'esilio e nel febbraio del 1831 passò in Svizzera, da qui a Lione e infine a Marsiglia. Qui entrò in contatto con i gruppi di Filippo Buonarroti e col movimento sainsimoniano allora diffuso in Francia.

Con questi si avviò un'analisi del fallimento dei moti nei ducati e nelle Legazioni pontificie del 1831.

Si concordò sul fatto che le sette carbonare avevano fallito innanzitutto per la contraddittorietà dei loro programmi e per l'eterogeneità delle classi che ne facevano parte. Non si era riusciti poi a mettere in atto un collegamento più ampio delle insurrezioni per le ristrettezze provinciali dei progetti politici, com'era accaduto nei moti di Torino del 1821 quand'era fallito ogni tentativo di collegamento con i fratelli lombardi. Infine bisognava desistere, come nel 1821, dal ricercare l'appoggio dei principi e, come nei moti del '30-31 l'aiuto dei francesi.

Con la fondazione della Giovane Italia nel 1831 il movimento insurrezionale andava organizzato su precisi obiettivi politici: indipendenza, unità, libertà. Occorreva poi una grande mobilitazione popolare poiché la liberazione italiana non si poteva conseguire attraverso l'azione di pochi settari ma con la partecipazione delle masse. Rinunciare infine ad ogni concorso esterno per la rivoluzione: «La Giovine Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione».[13]

Gli strumenti per raggiungere queste mete erano l'educazione e l'insurrezione. Quindi bisognava che la Giovane Italia perdesse il più possibile il carattere di segretezza, conservando quanto necessario a difendersi dalle polizie, ma acquistasse quello di società di propaganda, un'«associazione tendente anzitutto a uno scopo di insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno»[14] - anche attraverso il giornale La Giovine Italia, fondato nel 1832 - del messaggio politico della indipendenza, dell'unità e della repubblica.

Negli anni 1833 e 1834, durante il periodo dei processi in Piemonte e il fallimento della spedizione di Savoia, l'associazione scomparve per quattro anni, ricomparendo solo nel 1838 in Inghilterra. Dieci anni dopo, il 5 maggio 1848, l'associazione fu definitivamente sciolta da Mazzini che fondò, al suo posto, l'"Associazione Nazionale Italiana". 

IL QUARANTOTTO

La prima agitazione europea del 1848 è rappresentata da una rivolta del maziniano calabrese Domenico Romeo nell’autunno del 1847, seguita  dalla rivoluzione indipendentista siciliana del 1848 che però, soprattutto a causa della posizione periferica rispetto al Continente, non furono la vera miccia dell'esplosione europea (anche se qualche influenza riuscì ad averla comunque all'interno della penisola italiana). L'insurrezione siciliana portò infatti l'isola all'indipendenza, i Borboni a concedere una Costituzione e l'esempio borbonico fu a breve seguito da Carlo Alberto di Savoia e da Leopoldo II, i quali concessero infatti una Costituzione prima che scoppiasse l'insurrezione a Parigi. La miccia fu invece rappresentata dalla "campagna dei banchetti" che portò ad una rivoluzione a Parigi, il 22-24 febbraio che, successivamente, coinvolse tutta l'Europa. Solo l'Inghilterra vittoriana, in un periodo di stabilità politica ed economica (ma soprattutto grazie alle riforme del 1832 che pacificarono la classe borghese e scatenarono il cartismo), e all'opposto la Russia, in cui era praticamente assente una classe borghese (e di conseguenza una opposta classe proletaria) capace di ribellarsi, furono esentate dalla portata distruttrice (ma allo stesso tempo, soprattutto per quanto riguarda la Russia, dalla portata di innovazione) delle rivoluzioni del 1848.

FRANCIA

LA CAMPAGNA DEI BANCHETTI

L'opposizione a Luigi Filippo d'Orleans, minoritaria nelle istituzioni, optò per una campagna politica incentrata sui banchetti politici. La condanna della monarchia orleanista venne quindi portata in giro per tutta la Francia. La monarchia, che aveva a malincuore accettato questi banchetti, decise di vietare ad ogni costo l'ultimo banchetto della campagna politica anti orleanista. L'ultimo banchetto si doveva tenere a Parigi il 22 febbraio 1848 e gli organizzatori, insieme ad un cospicuo numero di manifestanti, decisero di scendere in piazza lo stesso (nonostante il divieto di Luigi Filippo) per affermare il proprio diritto alla riunione, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno a sfondo politico. La monarchia rispose mandando in campo la Guardia Nazionale, la quale finì per fare causa comune coi manifestanti. Il 24 febbraio gli insorti avevano in mano Parigi, Luigi Filippo abbandonò la città e il 24 sera all'Hotel de Ville (il municipio parigino) fu costituito un governo provvisorio che si pronunciò a favore della repubblica e che annunciò la prossima convocazione di una Assemblea Costituente da eleggere a suffragio universale maschile. Il governo provvisorio era formato da democratici, repubblicani e due socialisti (Louis Blanc e l'operaio Alexandre Martin). La rivolta dei banchetti, detonatore delle istanze rivoluzionarie di tutta Europa, rientra a pieno titolo all'interno del classico schema che caratterizza tutte le rivoluzioni del 1848-49, cioè quello delle giornate rivoluzionarie (basti citare ad esempio le cinque giornate di Milano o le dieci giornate di Brescia).

LE CAUSE

I fattori sono molteplici: sotto il profilo politico, sia i riformisti borghesi che i radicali si trovarono a scontrarsi con una realtà anacronistica, frutto delle conclusioni tratte durante il Congresso di Vienna mentre sotto il profilo sociale, i cambiamenti nella vita quotidiana causati dalla prima rivoluzione industriale (rivoluzione industriale in Inghilterra) e la diffusione della testate giornalistiche favorirono l'ascesa degli ideali di nazionalismo e giustizia sociale anche nelle masse meno colte. La recessione economica del 1846-47 (da cui peraltro l'Europa si riprenderà piuttosto in fretta) e il fallimento di alcuni raccolti, che portarono inevitabilmente all'inedia, furono la goccia che fece traboccare il vaso.

GLI EFFETTI

Per quanto i moti furono sedati abbastanza velocemente, le vittime furono decine di migliaia: il destino della democrazia europea ci è sfuggito di mano dichiarerà Pierre-Joseph Proudhon. Gli storici concordano che la Primavera dei popoli fu, alla fin fine, soprattutto un sanguinoso fallimento. Vi furono tuttavia alcuni notevoli effetti a lungo termine: Germania e Italia sarebbero presto arrivate alla riunificazione facendo leva anche sulla necessità di autodeterminazione dei popoli. Analogamente l'Ungheria sarebbe giunta ad un parziale riconoscimento della propria autonomia (a discapito della popolazione slava) grazie all'Ausgleich del 1867. In Prussia e Austria fu abolito il feudalesimo, mentre in Russia fu eliminata la servitù della gleba (1861).

NAPOLEONE III

Il nipote di Napoleone Bonaparte, Carlo Luigi Napoleone, figlio - si dice illegittimo - del fratello Luigi e di Ortensia Beauharnais, si era presentato alle elezioni presidenziali del 1848 con un programma forte, e fu acclamato primo presidente della Seconda Repubblica francese. Il clima di forte tensione politica e sociale lo portarono a instaurare ben presto un regime dittatoriale che culminò con la soppressione della Repubblica e la fondazione del Secondo Impero nel 1852. La scelta del nome, Napoleone III, intendeva garantire la continuità col precedente Impero francese. Napoleone III adottò fin da subito una politica repressiva allo scopo di scoraggiare eventuali rivolte popolari. Con l’ausilio del Barone Haussmann diede vita a una riprogrttazione del sistema viario parigino con la demolizione di molte aree e la creazione di grandi viali, i boulevard, che avrebbero garantito una migliore efficacia negli interventi dell’esercito durante eventuali insurrezioni popolari. Oltre ai criminali comuni furono molti i dissidenti e gli anarchici condannati al confino nelle colonie, sopratutto nella Guyana Francese e nella Nuova Caledonia. A causa del regime furono diversi i tentativi di attentato, come quello celeberrimo attuato dal patriota Felice Orsini che voleva “punirlo” per aver tradito il giuramento carbonaro col quale si era impegnato a sostenere l’unificazione italiana. Si rende noto anche un progetto, sventato, dell’anarchico Giovanni Passannante, famoso poi per essere stato autore di un tentato regicidio ai danni del re Umberto I d’Italia. Nonostante i pareri negativi sulla sua figura - tanto da essere chiamato Napoleone il Piccolo in senso di disprezzo - occorre dire che la Francia del Secondo Impero conobbe una positiva congiuntura economica, col rilancio dell’industria, la creazione di prestigiosi istituti bancari e l’adozione di misure protezionistiche. Napoleone morì in esilio in Inghilterra tre anni dopo la sconfitta di Sedan (1870) che determinò la fine del Secondo Impero e l’avvento della Terza Repubblica.

GRAN BRETAGNA

IL LUDDISMO

Per luddismo si intende un movimento popolare sviluppatosi in Inghilterra all'inizio del XIX secolo caratterizzato dalla lotta all'introduzione delle macchine. Il movimento prende il nome da Ned Ludd, la cui esistenza è incerta, che nel 1779 spezzò un telaio in segno di protesta.
Le macchine erano considerate la causa della disoccupazione e dei bassi salari già da fine Settecento e la legge ne puniva duramente la distruzione o il danneggiamento.
Solo verso il 1811-1812 la protesta sfociò in un movimento che vide protagonisti operai e lavoratori a domicilio. Questi, impoveriti dallo sviluppo industriale, decisero di colpire impianti, macchine e prodotti.
Per sfuggire ai rigori della legge che vietava ogni associazione tra lavoratori, i luddisti dovettero agire in clandestinità, subendo condanne a morte e deportazioni.
Oltre a manifestare contro i nuovi metodi di produzione e a favore di precedenti forme di produzione legate al lavoro a domicilio, i luddisti posero i problemi che sarebbero stati fatti propri in seguito dalle organizzazioni sindacali (la cui nascita, come Trade Unions, risale appunto al 1824), come gli orari e le condizioni di lavoro, i minimi salari, il lavoro minorile e femminile.

IL CARTISMO

Il Cartismo fu un movimento politico-sociale, britannico, prevalentemente di uomini della "working-class", il cui nome derivava dalla People's Charter, ("Carta del Popolo"), presentata nel 1838 alla Camera dei Comuni con una petizione firmata da oltre un milione di persone. Il movimento era organizzato da Fergus O'Connor, avvocato di origini irlandesi.
Il documento, articolato in sei punti, rivendicava:
il voto garantito ad ogni maschio di ventuno anni, sano di mente e mai condannato;
il voto segreto per proteggere l'elettore nell'esercizio del suo diritto di voto;
nessun obbligo di proprietà nella qualificazione per concorrere ad essere membro del Parlamento.
l'indennità parlamentare, per consentire a tutti i lavoratori di servire lo Stato senza essere penalizzati economicamente;
la revisione delle circoscrizioni elettorali, assicurando la stessa quantità di rappresentanti ad un pari numero di elettori;
il Parlamento Annuale, che costituiva il metodo più efficace contro il ricatto e le intimidazioni.
La petizione fu nuovamente presentata nel 1842 con oltre tre milioni di firme. Il mancato accoglimento diede luogo a diverse dimostrazioni, che sfociarono anche in gravi casi di sangue.
Successivamente il movimento andò perdendo forza, sia per il raggiungimento di una maggiore prosperità, sia per le riforme attuate tra il 1867 e il 1887, soprattutto il Ballot Act del 1872, che ne accolsero di fatto gran parte delle richieste.
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CLASSE QUARTA - MODULO 6 - STORIA
Il Risorgimento e l’unità d’Italia

INTRODUZIONE

Il progetto dell’unificazione italiana è introdotto da un lungo periodo di gestazione in cui si incrociano diverse tendenze politiche: il NEOGUELFISMO di Vincenzo GIOBERTI, che aspirava all’unificazione del paese sotto la guida del Papa, a cui si opponeva il radicalismo repubblicano di Giuseppe MAZZINI; la visione “piemontese” di Cesare BALBO, fautrice di un disegno unificatore guidato dai Savoia e quella “lombarda” di Carlo CATTANEO che era a favore di un progetto FEDERALE, fino al modello liberale del conte di CAVOUR, attenta alla separazione dei due poteri, quello spirituale della Chiesa e quello dello Stato.

LE GUERRE PER L’INDIPENDENZA

Prima guerra d'indipendenza

Dopo le campagne napoleoniche, spinte nazionali e nazionalistiche appoggiate dai Savoia, che videro in queste l'opportunità di allargare il proprio Regno di Sardegna, portarono ad una serie di guerre di indipendenza contro l'Impero austro-ungarico.

Nel 1848 cominciarono a manifestarsi varie insurrezioni nei domini sottoposti agli austro-ungarici, in particolare a Venezia e Milano, famose appunto le cinque giornate di Milano, che si conclusero il 22 marzo con la vittoria della popolazione locale e l'abbandono da parte del maresciallo austriaco Radetzky della città.

Visti i successi ottenuti dalle due città Carlo Alberto di Savoia decise di entrare in azione il 23 marzo dando inizio alla prima guerra di indipendenza italiana. Oltre al Re di Sardegna parteciparono alla guerra altri vari stati italiani, come lo Stato della Chiesa, il Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie, che fornirono uomini per la guerra. L'inizio del conflitto fu favorevole agli stati italici, con varie vittorie, a Pastrengo, la Battaglia di Santa Lucia a Verona, poi Peschiera e Goito. Ma il papa ritirò le sue truppe dal conflitto temendo una reazione religiosa austriaca che avrebbe potuto provocare uno scisma. In questa azione fu seguito dal Re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone. Rimasero quindi a combattere i volontari e gli austriaci poterono rafforzarsi e con una potente controffensiva ripresero gran parte delle città perse e il 4 agosto Carlo Alberto firmò l'armistizio. Dopo una breve tregua nel marzo 1849 venendo presto sconfitto. Fu quindi costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Tra le città che si erano ribellate al dominio austriaco l'anno precedente l'unica a resistere fu Venezia, caduta però nell'agosto 1849 per un'epidemia di colera.

La prima guerra di indipendenza si concluse con la vittoria austriaca e i Savoia non riuscirono ad ampliare i propri possedimenti nel tentativo di riunificare la penisola.

Seconda guerra d'indipendenza

Nel 1852 divenne primo ministro del Regno Sabaudo Camillo Benso Conte di Cavour, il quale attuò numerose riforme economiche al fine di rendere lo stato di Sardegna più moderno, aumentando le ferrovie, ampliando il porto di Genova e favorendo la nascita dell'industria, fino ad allora inesistente nel Paese.

Nel 1855 il Regno di Sardegna, sotto indicazione di Cavour, partecipò alla guerra di Crimea, inviando 15 000 uomini. Questa partecipazione permetté al regno sabaudo di essere presente al congresso di Parigi l'anno seguente dove il primo ministro attaccò il comportamento austriaco e si creò simpatie tra inglesi, francesi e prussiani.

Ricevuti pareri favorevoli all'azione da Napoleone III nel 1858 i due strinsero un accordo segreto a Plombières, con il quale i francesi avrebbero sostenuto i Savoia in caso di attacco austriaco a patto che fossero gli austriaci ad attaccare. I due però avevano scopi opposti: Cavour riteneva che controllando la parte più sviluppata d'Italia avrebbe di fatto controllato l'intera penisola, mentre Napoleone III era convinto che avendo sotto il suo dominio i due terzi della penisola, avrebbe di fatto controllato anche il Piemonte.

Adottando un comportamento provocatorio nei confronti degli austriaci Cavour riuscì nell'intento di farsi dichiarare guerra, dando inizio alla seconda guerra di indipendenza italiana, che iniziò il 29 aprile 1859. Gli austriaci, sotto la guida del maresciallo Ferencz Gyulai, inizialmente invasero il Piemonte, senza incontrare resistenze. Un contrordine proveniente da Vienna impose poi il ritiro in Lombardia. L'arrivo di Napoleone III, il 14 maggio, diede il via alle operazioni militari. Il 20 maggio si ebbe il primo e vero scontro a Montebello, che vide la vittoria franco-italica. Dieci giorni dopo i piemontesi riportarono un'altra vittoria a Palestro, sotto la guida stessa di Vittorio Emanuele II. I francesi, invece, batterono gli austro-ungarici a Turbigo e Magenta. Il 5 giugno venne poi presa Milano. Nei giorni successivi gli austriaci vennero respinti in Veneto e, a questo punto, Napoleone III cominciò le trattative, a insaputa dei piemontesi, che terminarono con la cessione della Lombardia. Gli accordi di Plombières, prevedevano però la conquista del Veneto e Cavour deluso tentò, senza successo, di convincere il re a continuare da solo. Terminata la seconda guerra di indipendenza alcuni ducati vollero unirsi allo stato sabaudo ed erano Modena, Parma, Emilia, Romagna e Toscana. Gli accordi di Plombières prevedevano però la cessione di Nizza e della Savoia, cosa che provocò varie proteste, in quanto non era stata mantenuta la promessa di conquistare anche il Veneto.

Il Regno di Sardegna comprendeva a questo punto i territori delle attuali regioni Piemonte, Sardegna, Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria e Toscana, mentre rimanevano esclusi quelli di Umbria, Marche e Lazio, sottoposti al dominio pontificio, oltre al sud.

Nel 1860 venne organizzata la spedizione dei Mille, guidata da Giuseppe Garibaldi. Partiti da Quarto il 5 maggio, sbarcarono l'11 a Marsala. Mentre Garibaldi, insieme ai picciotti siciliani conquistava l'isola, nella parte continentale del Regno delle due Sicilie il Comitato per l'Unità Nazionale di Napoli preparava la strada alla conquista della capitale: il 18 agosto dello stesso anno, con l'insurrezione di Potenza, la Basilicata, guidata dal governo proditattoriale di Giacinto Albini, dichiarò la sua annessione al Regno d'Italia. Il giorno seguente Garibaldi passò lo stretto di Messina, e il 21 agosto seguente la Puglia dichiarò decaduti i Borbone con l'insurrezione di Altamura. Il 7 settembre Garibaldi entrò trionfalmente a Napoli, abbandonata dal re Francesco II di Borbone in favore di Gaeta. La sconfitta finale dei borbonici avvenne sul Volturno il 1º ottobre 1860. Il 21 ottobre si tennero i plebisciti che decretarono l'annessione dei territori delle Due Sicilie al Regno Sabaudo.

Mancavano ancora Veneto e Friuli, Roma, Trentino-Alto Adige e Venezia Giulia. Il parlamento sardo decise allora di proclamare nel 1861 il Regno d'Italia consegnando la corona a Vittorio Emanuele II e ai suoi eredi. Lo statuto albertino venne esteso a tutto il Regno.

Terza guerra d'indipendenza

Per conquistare Veneto e Friuli nel 1866 il Regno d'Italia dichiarò guerra all'Austria alleandosi con la Prussia e dando così iniziò alla terza guerra di indipendenza. Le sconfitte però furono molte, le più famose a Custoza e Lissa. Gli unici successi vennero ottenuti da Garibaldi. La vittoria prussiana, però, fu d'aiuto all'Italia, che poté quindi richiedere l'annessione di Veneto e Friuli.

Mancava Roma e per due volte Giuseppe Garibaldi ne tentò la conquista con i suoi volontari: nel 1862 e nel 1867, venendo fermato nel primo caso dalla truppe italiane, nel secondo dall'esercito francese, che anche nel 1862 aveva costretto l'esercito regio a intervenire.
La guerra con la Prussia contro la Francia e la sconfitta di Napoleone III portarono ad una mossa militare da parte dell'Italia contro Roma, che il 20 settembre 1870 venne conquistata grazie alla Breccia di Porta Pia. Si venne però a determinare una profonda frattura tra Stato italiano e Chiesa, formalmente sanatasi con i Patti Lateranensi del 1929.

LA NASCITA DEL REGNO D’ITALIA

Il Regno d'Italia nasce nel 1861 dopo l'esito della seconda guerra di indipendenza e dopo i plebisciti degli altri territori conquistati. Con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II fu il primo re d'Italia (1861-1878).

La popolazione, rispetto l'originario Regno di Sardegna, quintuplicò. Istituzionalmente e giuridicamente, il Regno d'Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna, esso fu infatti una monarchia costituzionale. Il neonato Stato quindi si ritrovò, fin dai primi tempi, a tentare di risolvere problemi di standardizzazione delle leggi, di mancanza di risorse a causa delle casse statali vuote per le spese belliche, di creazione di una moneta unica per tutta la penisola e più in generale problemi di gestione per tutte le terre improvvisamente acquisite. A questi problemi, se ne aggiungevano altri, come ad esempio l'analfabetismo e la povertà diffusa, nonché la mancanza di infrastrutture.

La questione che tenne banco nei primi anni della riunificazione d'Italia fu la questione meridionale ed il brigantaggio antisabaudo delle regioni meridionali (soprattutto tra il 1861 e il 1869). Il problema era noto come la "questione meridionale". Ulteriore elemento di fragilità era costituito dall'ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato, ostilità che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 e la presa di Roma (questione romana).

La destra storica

La Destra storica, composta principalmente dall'alta borghesia e dai proprietari terrieri, formò il nuovo governo, che ebbe come primi obiettivi il completamento dell'unificazione nazionale, la costruzione del nuovo stato (per il quale si scelse un modello centralista) e il risanamento finanziario mediante nuove tasse che produssero scontento popolare e accentuarono il brigantaggio, represso con la forza.

In politica estera, la Destra storica mantenne la tradizionale alleanza con la Francia, anche se le due nazioni si scontrarono in diverse questioni, prime fra tutte l'annessione del Veneto e la presa di Roma.

Nel 1876 il governo venne esautorato per la prima volta non per autorità regia, bensì dal Parlamento (rivoluzione parlamentare). Ebbe così inizio l'epoca della Sinistra storica, guidata da Agostino Depretis. Finiva un'epoca: solo pochi anni dopo, Vittorio Emanuele II morì, e sul trono gli successe Umberto I.

La sinistra storica

La Sinistra abbandonò l'obiettivo del pareggio di bilancio e avviò delle politiche di democratizzazione e ammodernamento del paese, investendo nell'istruzione pubblica e allargando il suffragio, e avviando una politica protezionistica di investimenti in infrastrutture e sviluppo dell'industria nazionale coll'intervento diretto dello stato nell'economia.

Per ciò che concerne la politica estera Depretis abbandonò l'alleanza con la Francia, a causa della conquista da parte dello stato d'oltralpe della Tunisia. L'Italia entrò quindi nella Triplice Alleanza, alleandosi con la Germania e l'Impero austro-ungarico. Favorì lo sviluppo del colonialismo italiano, innanzitutto con l'occupazione di Massaua in Eritrea.

L'epoca giolittiana

Dal 1901 al 1914 la storia e la politica italiana fu fortemente influenzata dai governi guidati da Giovanni Giolitti.

Come neo-presidente del Consiglio si trovò a dover affrontare, prima di tutto, l'ondata di diffuso malcontento che la politica Crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi. Ed è con questo primo confronto con le parti sociali che si evidenziò la ventata di novità che Giolitti portò nel panorama politico a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e quindi degli scioperi, purché non violenti né politici, con lo scopo (riuscito) di portare i socialisti nell'arco parlamentare.

Gli interventi più importanti di Giolitti furono la legislazione sociale e sul lavoro, il suffragio universale maschile, la nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni, la riduzione del debito statale, lo sviluppo delle infrastrutture e dell'industria.

In politica estera, ci fu il riavvicinamento dell'Italia alla Triplice intesa di Francia, Regno Unito e Russia. Fu continuata la politica coloniale nel Corno d'Africa, e dopo la guerra italo-turca, furono occupate Libia e Dodecaneso. Giolitti fallì nel suo tentativo di arginare il nazionalismo come aveva costituzionalizzato i socialisti, e non riuscì quindi a impedire l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale e quindi l'ascesa del fascismo.

LA DESTRA STORICA

La Destra è stato uno schieramento politico italiano sorto, formalmente, nel 1849 con i governi di Camillo Benso conte di Cavour e proseguito dopo la sua morte sino al 1876 e detta, in seguito, storica per distinguerla dai partiti e movimenti di massa qualificati come di destra che si sarebbero affermati nel corso del XX secolo. I ministeri della Destra storica dal primo governo Cavour al governo di Marco Minghetti del 1876 conseguirono importanti risultati, primo fra tutti l'unità d'Italia, compiuta nel 1861 e portata a termine nel 1870 con la breccia di Porta Pia e la presa di Roma.

Politica interna

Nel gennaio 1861 si tennero le elezioni per il primo parlamento unitario. Su quasi 22 milioni di abitanti (non erano stati ancora annessi Lazio e Veneto), il diritto a votare fu concesso a solo a 419.938 persone (circa l'1,8% della popolazione italiana). L’affluenza alle urne fu del 57%.
La Destra storica, erede di Cavour ed espressione della borghesia liberal-moderata, vinse queste elezioni. I suoi esponenti erano soprattutto grandi proprietari terrieri e industriali, e personalità legate all’ambito militare (Ricasoli, Sella, Minghetti, Spaventa, Lanza, La Marmora, Visconti Venosta).

La Destra storica, composta principalmente dall'alta borghesia e dai proprietari terrieri ed eletta con un suffragio di appena il 2%, diede alla neonata Italia un'economia basata sul libero scambio, che però soffocò la nascente industria italiana, esponendola agli attacchi del più forte capitalismo d'Oltralpe. Un altro grave problema che affliggeva il paese, la difformità legislativa lungo la penisola, fu risolto mediante l'accentramento dei poteri (accantonando i progetti di autonomie locali proposti da Marco Minghetti), estendendo la legislazione piemontese a tutta la penisola e dislocandovi in modo capillare le prefetture come strumento di governo. Anche il sistema scolastico fu riformato e uniformato in tutta Italia a quello piemontese (legge Casati) nel 1859. Fu anche istituita la coscrizione obbligatoria.

Risanamento del bilancio

La Destra impose anche un pesante fiscalismo, al fine di finanziare le opere pubbliche di cui il Paese aveva bisogno per competere con le altre potenze europee. Nel 1876, con Quintino Sella, venne raggiunto il pareggio di bilancio. La ricchezza nazionale aumentò in due scaglioni tra il 1860 e il 1880. Nella prima fase aumentò tramite le imposte dirette, che riguardavano i redditi di origine agraria, nella seconda fase invece con le imposte indirette, colpendo maggiormente i ceti meno abbienti. Nel 1868 venne introdotta la tassa sul macinato (per la precisione, sulla macinazione dei cereali) scatenando così proteste popolari con assalti ai mulini, distruzione dei contatori, invasioni di municipi. Al termine di questa rivolta contadina si contarono molti arrestati, feriti e morti.

I rapporti con la popolazione

Tutti questi provvedimenti resero più complicato l'inserimento dei nuovi territori nel Regno. A causa principalmente di provvedimenti visti come insensati ed odiosi da parte della popolazione, vale a dire l'imposta sul macinato e il servizio militare obbligatorio, la Destra favorì, in un certo senso, lo sviluppo del Brigantaggio,che era storicamente endemico di vaste regioni del Regno delle Due Sicilie e dello Stato della Chiesa, cui rispose con particolare durezza attraverso la legge Pica e il dispiegamento nell'Italia centro-meridionale di oltre 120.000 soldati, imponendo, in pratica, uno stato di guerra al Sud. oi dementi degli stranieri che si affidavano alle informazioni ufficiali del nuovo Regno d'Italia, dal settembre del 1860 all'agosto del 1861 ci furono nell'ex Regno delle Due Sicilie 8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 13.529 arrestati, e più di 3.000 famiglie perquisite. Questo fu uno dei motivi che incoraggiarono l’emigrazione dalle regioni meridionali d’Italia.

Politica estera

In politica estera, la Destra storica fu assorbita dai problemi del completamento dell'Unità d’Italia; il Veneto venne annesso al Regno d'Italia in seguito alla terza guerra d'indipendenza (1866). Per quanto riguarda Roma, la Destra cercò di risolvere la questione con la diplomazia, ma si scontrò con l'opposizione di Papa Pio IX, di Napoleone III e della Sinistra. Alla caduta di Napoleone III dopo la guerra franco-prussiana, l’Italia attaccò lo Stato Pontificio e conquistò Roma, che diventò Capitale nel 1871. Il Papa si proclamò prigioniero e lanciò violenti attacchi allo Stato italiano, istigando una forte campagna anticlericale da parte della Sinistra. Il governo regolò i rapporti con la Santa Sede con la legge delle guarentigie, non riconosciute dal Papa. Il Pontefice non riconobbe la legge e vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana, secondo la formula "né eletti, né elettori" (non expedit).

Fine della Destra Storica

L'era della Destra finì nel 1876: il governo Minghetti fu messo in minoranza dallo stesso Parlamento, che rifiutava la nazionalizzazione delle neonate ferrovie, cosicché il primo ministro dovette dare le dimissioni. Era stata attuata la rivoluzione parlamentare: per la prima volta un capo del governo veniva esautorato non per autorità regia, bensì dal Parlamento. Il re Vittorio Emanuele II, preso atto delle dimissioni, diede l'incarico di formare un nuovo governo al principale esponente dell'opposizione, Agostino Depretis. Iniziava l'era della Sinistra storica. Gli esponenti della Destra storica che continuarono in un ruolo di opposizione parlamentare, e che in prevalenza provenivano dalla Toscana, furono chiamati dai loro avversari "consorteria". Montanelli, nella sua "Storia d'Italia" mette in risalto come la Destra sia caduta dopo aver raggiunto i suoi due obbiettivi principali, l'Unità d'Italia ed il pareggio del bilancio, come se fossero venuti a mancare le ragioni che la mantenevano in vita.

Divisioni e dissidi interni

Subito dopo le prime elezioni nel neonato Regno d'Italia, la Destra storica si divise in due "correnti" differenziate in base alla zona d'elezione: i piemontesi, eredi della Destra storica che aveva caratterizzato il Regno di Sardegna, formarono una "Associazione Liberale Permanente" ("tutta piemontese, anche se non tutti i piemontesi vi parteciparono", come scrisse Montanelli) mentre i tosco-emiliani, sostenuti da lombardi e dai politici meridionali, formarono un gruppo, chiamato dispregiativamente "Consorteria" dai piemontesi. Con il tempo questa divisione (che pure aveva lacerato la Destra storica, come nelle elezioni del 1864, quando gli uomini della Permanente non esitarono a cercare alleanze con i garibaldini della Sinistra storica, anch'essa divisa) lasciò il posto ad una divisione di tipo personale: i due principali leader delle varie anime della Destra, Sella e Minghetti, infatti, erano impegnati in una battaglia personale. Le Destre concordavano solo sulla necessità di raggiungere il pareggio di bilancio e sulla sconvenienza delle riforme democratiche volute dalla Sinistra. Non va inoltre dimenticato che al gruppo "originale" della Destra storica, formato da settentrionali liberali, si erano aggiunti dei "nuovi arrivati" cioè i borghesi meridionali, conservatori. Le divergenze fra queste due anime saranno di non poco conto.

LA SINISTRA STORICA

La Sinistra è stata uno schieramento politico dell'Italia post-risorgimentale, detta in seguito storica per distinguerla dai partiti e movimenti di massa di sinistra che si sarebbero affermati nel corso del XX secolo. L'epoca della sinistra storica va dal 1876, anno della "rivoluzione parlamentare" che portò alla caduta della Destra storica, sino alla "crisi di fine secolo" (1896), che sfociò nell'età giolittiana.

Il Primo Ministro della Sinistra storica fu Agostino Depretis, incaricato dal re, pochi giorni dopo le dimissioni del governo Minghetti. La matrice ideologica del raggruppamento era liberale progressista, e, pur non avendo un precedente storico, si rifaceva alle idee mazziniane, garibaldine e dunque democratiche. Depretis formò un governo che, oltre all'appoggio della Sinistra, schieramento di cui faceva parte, si reggeva anche sull'appoggio di una parte della Destra, quella che aveva contribuito alla caduta del governo Minghetti. Nella sua azione di governo, Depretis cercò sempre ampie convergenze su singoli temi con settori dell'opposizione, dando vita al fenomeno del trasformismo. Proprio nello stesso anno si giunse alle elezioni politiche, che videro la vittoria della Sinistra storica, guidata da Agostino Depretis, che fu confermato alla guida del governo.

Allargamento del suffragio e politiche sociali

Gli esponenti della Sinistra storica erano perlopiù esponenti della media borghesia, in maggior parte avvocati. Tentarono di riconciliare la politica col «paese reale» democratizzando e modernizzando lo stato e il paese.[1]

Un'importante riforma riguardava l'istruzione: la legge Coppino (1877) rese obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare (dai 6 ai 9 anni d'età). La Sinistra si batté per l'allargamento del suffragio, tramite una legge del 1882 (legge Zanardelli) che concedeva diritto di voto a tutti i maschi, che avessero compiuto i 21 anni e rispettassero requisiti per il voto: il pagamento di un'imposta di almeno 19,8 lire (invece delle precedenti 40) o, in alternativa, il conseguimento dell'istruzione elementare appena allargata (era comunque sufficiente dimostrare di saper leggere e scrivere). Con la suddetta riforma il corpo elettorale salì al 6,9% della popolazione italiana, rispetto al 2,2% del 1880.[2]

La volontà della Sinistra storica era quella di ampliare il suffragio fino a un'utopica universalità (che per quel periodo era comunque ben lungi dall'essere proponibile) basandosi non più tanto sul censo dei cittadini, quanto sulla loro istruzione.

La Sinistra storica prese provvedimenti anche in campo amministrativo, dove provvide ad un decentramento dei poteri e in campo sociale, con l'introduzione di prime misure a difesa dei lavoratori. Furono inoltre avviate una serie di inchieste per esaminare le condizioni di vita della popolazione rurale: la più nota è senz'altro l'inchiesta Jacini, che ha rivelato una diffusa malnutrizione (pellagra), alta mortalità infantile (per difterite), grande povertà e scarse condizioni igieniche. Diffuso era il fenomeno dell'emigrazione.

Il protezionismo

La Sinistra storica, in politica interna, ebbe come obiettivo l'abolizione dell'impopolare tassa sul macinato[3] e in generale una politica di sgravi fiscali e di investimenti nello sviluppo industriale del paese.

La Sinistra perseguì una politica protezionista. In Italia il principale ispiratore della nuova politica tariffaria in materia di commercio estero fu Luigi Luzzatti. Con la crisi economica in Europa (1873-1895) crebbe la miseria dei braccianti, e questo provocò i primi scioperi agricoli. Il protezionismo si tradusse nell'intervento diretto dello Stato nell’economia. I governi italiani della Sinistra, condizionati da gruppi industriali del Nord, approvarono nel 1878 l'introduzione di tariffe doganali a protezione delle industrie tessili e siderurgiche; furono inoltre concessi sussidi ai settori in difficoltà e sviluppate le infrastrutture.

Nel 1887, per fronteggiare la grande depressione, si diede vita a quel "blocco agrario-industriale", come lo chiama Antonio Gramsci, tra la classe liberale e progressista del Nord con gli agrari e i latifondisti reazionari del Meridione, estendendo la tariffa protettiva sulla cerealicoltura che risentiva delle esportazioni dagli Stati Uniti d'America di grano, che, per la riduzione dei noli dei trasporti, arrivava sul mercato italiano a prezzi inferiori.

Un dazio che danneggiava evidentemente gli industriali settentrionali che dovevano commisurare il salario degli operai sul prezzo del pane che aumentava artificiosamente e che pure accettarono di buon grado il danno economico, compensato, secondo la storiografia marxista, da un'alleanza con gli agrari che avrebbe tenuto lontani tentativi di riscatto sociale delle masse subalterne.

Una tariffa protettiva, che reintroduceva la tassa sulla fame come ai tempi dell'imposta sul macinato e che danneggiava inoltre il settore della produzione meridionale del vino e dell'ortofrutta, già in crisi dalla rottura dei rapporti commerciali con la Francia dai tempi del Congresso di Berlino e della politica filotedesca di Crispi.

Politica estera

In politica estera, la Sinistra storica di Depretis abbandonò la tradizionale alleanza con la Francia, a causa degli attriti diplomatici generati dalla presa di posizione dei transalpini sulla questione tunisina, entrando nell'orbita della Triplice Alleanza a fianco degli imperi centrali di Austria-Ungheria e Germania, favorendo lo sviluppo del colonialismo italiano, innanzitutto con l'occupazione di Massaua in Eritrea.

Fine della Sinistra storica

La fase della Sinistra storica si concluse nel 1896 a seguito delle elezioni politiche. Il governo Depretis, infatti, si era spostato verso l'ala conservatrice del parlamento, incontrando i moderati più progressisti, che erano stati inglobati all'interno di una più grande coalizione.

Lentamente furono estromessi gli esponenti più progressisti della Sinistra, dando vita ad un Grande Centro, che monopolizzava la vita politica del Paese, lasciando a pochi partiti minori il ruolo di opposizione di estrema sinistra. Questa politica, in cui la dialettica e la differenza ideologica fra le ali del Parlamento vengono sfumando, è detta trasformismo, e fu resa possibile dalla riforma elettorale.[3]

Dopo Depretis, la figura cardine della politica italiana dal 1887 al 1896 fu Francesco Crispi. Il modello della sua politica era la Germania di Bismarck, dove le tensioni sociali fra la classe operaia e la borghesia sembravano equilibrate. Crispi represse nel sangue la rivolta dei fasci operai in Sicilia e scioglie il Partito Socialista, fondato da Turati a Genova nel 1892, ma emana nel contempo una serie di riforme sociali quali la riduzione della giornata lavorativa.

Sotto il suo governo la politica coloniale fu ripresa con più vigore, fino alla disfatta di Adua (1896), che segnò la fine della Sinistra Storica con le dimissioni del primo ministro.

Nella crisi di fine secolo si manifestarono le conseguenze sul piano sociale della politica protezionistica, come dimostrano i fatti di piazza del Duomo a Milano del maggio 1898 quando il generale Bava Beccaris non esitò a sparare con i cannoni ad alzo zero sulla folla che chiedeva "Pane e lavoro" durante la protesta dello stomaco.

Si era infatti verificato un ulteriore aumento del prezzo del grano a causa delle diminuite esportazioni da parte degli Stati Uniti, impegnati allora nella guerra per Cuba.

Sarebbe bastato togliere la tariffa protettiva, ma ormai la classe dirigente italiana era terrorizzata dal socialismo e preferiva ricorrere all'intervento repressivo del Regio Esercito.
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CLASSE QUARTA - MODULO 7 - STORIA
L’età degli imperialismi europei e la "crisi di fine secolo" (1870-1900)

IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE TEDESCA
LA POLITICA DI OTTO VON BISMARCK

1 - DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA

Il 9 giugno 1816 fu creata una Confederazione Germanica di 39 stati, geo-politicamente schiacciata tra l'Impero austriaco, guidato dal Metternich, e la Prussia. Le politiche dei due stati erano molto diverse: l'Austria si opponeva a una unificazione degli stati tedeschi, mentre la Prussia, che perseguiva una spregiudicata politica economica, auspicava l'unificazione, incoraggiata anche dalla unificazione delle dogane (Zollverein). A spingere politicamente per una riunificazione era sopratutto la nascente borghesia industriale, che sognava di dare al liberalismo tedesco lo stesso lustro di quello inglese. Tra il 1847 e il 1849 si riunì a Francoforte un'Assemblea Costituente (il cosiddetto Parlamento di Francoforte). Alla richiesta di libertà costituzionali, peraltro concesse dai principi tedeschi, il Parlamento guardava all'unifica89!3 da due prospettive: una parte propendeva per la Grande Germania, un grande impero che avrebbe dovuto includere anche le province austriache di lingua tedesca, mentre un'altra fetta di Parlamento propendeva per la Piccola Germania, limitata ai soli stati tedeschi esclusa l'Austria e guidata politicamente dalla Prussia. I liberali chiedevano sopratutto un governo unitario e rappresentativo di tutti gli stati aderenti allo Zollverein e un potere centrale che, nella bozza della Carta Costituzionale, sarebbe stato affidato al re di Prussia Federico Guglielmo IV. Il re, celebre per il suo rigido conservatorismo, rifiutò una corona assegnata da un'Assemblea e cercò l'appoggio dei principi tedeschi, che tuttavia gliela negarono. Arrivati a una vera e propria guerra civile il re fu obbligato ad accettare le imposizioni austriache con il trattato di Olmuz e a rinunciare alle sue aspirazioni alla corona imperiale. Nonostante la sconfitta la Prussia non si dette per vinta, cercando di coinvolgere gli stati tedeschi in una presa di posizione contro l'Austria.

2 - L'EGEMONIA DELLA PRUSSIA

Nel 1859 sale al trono di Prussia Guglielmo I. La sua ascesa segna un decisivo punto di svolta per la causa dell'unificazione tedesca, sopratutto grazie al cancellierato di Otto von Bismarck nel 1862. I liberali tedeschi guardavano con molto interesse al nuovo re di Prussia, che avrebbero voluto alla guida di uno stato unitario e parlamentare, mentre guardavano con molto sospetto a Bismarck, dichiaratamente un anti-liberale. Nonostante le sue idee Bismarck era tuttavia convinto della necessità di unificare gli stati tedeschi, sopratutto per garantire alla Prussia l'influenza politica su di essi e sull'Austria (che odiava). Grazie a un'abilissima e incessante attività diplomatica e alla riorganizzazione dell'esercito prussiano, Bismarck portò a compimento il progetto di unificazione nel giro di pochi anni. Le fasi salienti che condussero a questo traguardo furono delle grandi campagne militari:
innanzitutto contro la Danimarca per riappropriarsi dello Schleswig-Holstein;
l'alleanza con l'Italia;
la sconfitta dell'Austria a Sadowa e la cessione coatta del Veneto alla Francia (poi donato all'Italia);
la definitiva sconfitta austriaca: la sua espulsione dalla Confederazione.
la suddivisione della Confederazione in due zone, una a nord e una a sud del fiume Meno, con una evidente egemonia prussiana (1866).
Col Trattato di Praga l'Austria accetto definitivamente le condizioni della Prussia.

3 - L'UNIFICAZIONE E LA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA

Nel 1867 nasce la Confederazione Tedesca del Nord, con un Reichstag (parlamento) e la guida della Sassonia e della Prussia.  Bismarck fu nominato cancelliere con l'appoggio di tutti i nazionalisti e iniziò le manovre per l'annessuone degli stati a sud del Meno. La strategia fu quella di provocare una guerra con la Francia mediante un documento diplomatico falsificato, il cosiddetto Telegramma di Ems. La superiorità dell'esercito prussiano costrinse la Francia a capitolare: Napoleone III, sconfitto a Sedan, fu costretto a firmare la resa e gli stati del sud, che erano accorsi a fianco della Prussia, aderirono spontaneamente alla Confederazione. Il 18 gennaio 1871, nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versailles, nasceva l'Impero Tedesco la cui corona, su proposta di Luigi III di Baviera, fu offerta a Guglielmo I.

4 - LA POLITICA INTERNA DI OTTO VON BISMARCK

Dopo la nascita dell'Impero Tedesco Bismarck fu nominato Cancelliere, pur mantenendo le cariche di Primo Ministro e di Ministro degli Esteri della sua Prussia. Il Kaiser Guglielmo I lo insignì del titolo di principe e gli conferì la Gran Croce dell'Ordine degli Hohenzollern. La carriera politica di Bismarck durò dal 1862 al 1890, influenzando di molto la politica europea. Bismarck era orgogliosamente prussiano e protestante, caratteristiche che orientarono la sua azione politica. Già dopo la sua nomina a Cancelliere si impegnò nel KULTURKAMPF (Battaglia della Civiltà) contro il partito filocattolico dello Zentrum: li chiamava Reichfeinde, nemici dell'impero, per le loro idee antiunioniste. Contro di loro promosse le Leggi di Maggio, secondo cui la nomina degli ecclesiastici doveva essere sottoposta al veto dello Stato.  A queste leggi ne seguirono altre: l'imposizione del matrimonio civile, la legge dell'espatrio contro gli ecclesiastici dissidenti (minacciati di essere rpivati della cittadinanza) e la legge del paniere, per la cessazione dei finanziamenti statali al clero. Sopratutto Bismarck cercò in tutti i modi di alimentare, a proprio vantaggio, l'opinione pubblica contro il pericolo pubblico dello Zentrum. Tuttavia alle successive elezioni lo Zentrum vide aumentare ul numero dei suoi deputati. Nacque un clima di tensione culminato con il tentativo di attentato allo stesso Bismarck, che gettò la colpa sui cattolici dello Zentrum. Il Kaiser iniziò a questo punto a nutrire qualche perplessità sulla politica bismarckiana: Bismarck cercò invano un accordo diplomatico del papa Pio IX in cambio della revoca delle leggi di maggio, ma il papa rifiutò.
Un altro nemico di Bismarck erano i socialisti. Bismarck aveva più volte cercato di far approvare in Parlamento delle leggi contro la propaganda socialdemocratica, senza mai riuscirci. Dopo una serie di attentati, uno dei quali ferì gravemente lo stesso Guglielmo I, nel 1878 Bismarck sciolse il Reichstag e indisse il Congresso Internazionale di Berlino, in attesa delle nuove elezioni. Il Congresso rappresentò un successo per Bismarck, che riuscì a portare avanti le sue tesi anti-socialiste ma le elezioni videro un rafforzamento proprio dei partiti a lui ostili. Nonostante ciò il Parlamento - forse influenzato dagli attentati - approvò le leggi eccezionali invano proposte dallo statista negli anni precedenti, ma la loro attuazione fu bloccata per tre anni dai liberali nazionalisti. Sfruttando il loro interesse per la politica protezionista, nel 1879 Bismarck cercò e ottenne i consensi dello Zentrum contro i liberali.

5 - LA POLITICA ESTERA DI OTTO VON BISMARCK

Il sistema di alleanze tessuto da Bismarck aveva carattere difensivo ma mirava anche a conservare la leadership tedesca in Europa. Nel 1879 viene costituita la Duplice Alleanza con l'Austria. Guglielmo I non era d'accordo poichè diffidava dell'Austria e non voleva andare contro gli antichi vincoli di amicizia che legavano gli stati tedeschi alla Russia, ma Bismarck, dopo aver provocato lo zar Alessandro II rendendogli nota una dichiarazione del Kaiser con la data falsificata, cercò di convincere l'impertore tedesco della necessità di un patto con l'Austria. Guglielmo I non credeva però all'eventualità di una guerra, e oppose ancora resistenza all'accordo, costringendo il Cancelliere a minacciare le dimissioni per convincerlo. Il vero grande successo della politica estera bismarckiana fu però il Patto dei Tre Imperatori, un accordo di neutralità che coinvolgeva oltre Germania e Austria anche la Russia, nemica storica dell'Austria. L'accordo, formalizzato nel 1881, costituiva un efficace blocco antifrancese, ma sopratutto copriva di fatto le spalle alla Germania in caso di un ipotetico tentativo di invasione orusso-francese. L'anno successivo Bismarck - accogliendo le richieste italiane contro la mianaccia francese - coinvolse l'Austria in una nuova alleanza difensiva a tre insieme all'Italia, impegnandosi a difendere il territorio italiano dalla Francia. Sul fronte coloniale Bismarck mirava all'isolamento della Gran Bretagna, cercando l'appoggio francese. Dopo aver costituito diverse colonie tedesche in Africa, le fece riconoscere durante la Conferenza di Berlino (1884), proprio grazie all'appoggio francese.

6 - LA DECADENZA DEL SISTEMA BISMARCKIANO

Nell'ultima fase del suo incarico Bismarck si era impegnato in una serie di riforme sociali: innanzitutto il primo sistema previdenziale al mondo, seguito poi dall'istitutzione di una serie di assicurazioni, contro le malattie, gli infortuni e la vecchiaia. Tuttavia queste misure non bastarono a scongiurare la crisi. Un primo sentore della crisi fu causato dal cambio di governo francese, con un nuovo esecutivo non molto favorevole a conservare l'alleanza con la Germania stipulata a Berlino.  In occasione della crisi diplomatica tra Russia e Austria Bismarck spinse l'Austria a riconciliarsi proprio con la Granz Bretagna e abbandonò il suo sogno imperialista per non distrubare il colonialismo inglese in Africa, non potendo più contare sull'appoggio francese. La seconda avvisaglia di crisi proveniva dal front politico interno. Paventando un imminente attacco francese Bismarck cercò invano di far approvare in Parlamento la legge sul riarmo: non riuscendoci, scuolse il Reichstag e indisse nuove elezioni, riottenendo la maggioranza e riuscendo a far approvare la legge. In questo frangente Bismarck fu aiutato da una lettera di papa Leone XIII che confermava ufficialmente il suo appoggio al Cancelliere, appoggio in cambio del quale Bismarck revocò molte delle Leggi di Maggio con una conseguente moderazione del Kulturkampf. Sul fronte internazionale Germania e Russia firmano il Trattato di contro-assicurazione. Si trattava di un patto di non belligeranza, che impegnava la Germania a non dichiarare guerra alla Russia se non in caso di un attacco russo all'Austria e vincolava la Russia a non attaccare la Germania se non in caso di attacco tedesco alla Francia. Questo accordo sancisce anch la fine del Patto dei Tre Imperatori.
La crisi del sistema bismarckiano si acuisce con la morte di Guglielmo I. Dopo una breve parentesi di regno dell'erede Federico, alla morte di questi sale al trono Guglielmo II. Il giovane Kaiser non aveva intenzione di lasciarsi guidare dal Cancelliere e lo scontro tra i due si fece aspro nel 1890, quando Guglielmo II fece approvare una serie di riforme sociali senza l'approvazione di Bismarck. Alle successive elezioni si affermano i socialdemocratici, mentre i conservatori filo-bismarckiani e i nazionalisti liberali ottengono un consenso inferiore. Bismarck restò isolato: molti suoi ministri lo abbandonarono e anche il tentativo di un'alleanza coi cattolici dello Zentrum fallì, sia a causa della netta opposizione dei conservatori sia per l'opposizione di molti cattolici. Bismarck fu costretto a rassegnare le sue dimissioni: al suo posto Guglielmo II nominò cancelliere Leo von Caprivi.

LA TERZA REPUBBLICA FRANCESE
DALLA COMUNE ALL'AFFARE DREYFUS

1 - LA FINE DEL SECONDO IMPERO E LA COMUNE

Il 3 settembre del 1870 arriva a Parigi la notizia della sconfitta di Sedan e della cattura di Napoleone III. Approfittando del vuoto di potere il generale orleanista Adolphe THIERS tenta, il giorno seguente, un colpo di stato con l'appoggio del Parlamento, che però fallisce. Viene quindi costituito un governo provvisorio, di difesa nazionale, guidato dal generale TROCHU, col compito di guidare le ultime fasei della guerra con la Prussia, in assenza dell'imperatore. Il 19 settembre l'esercito prussiano aveva ormai accerchiato Parigi e i membri dell'esecutivo erano stati costreti alla fuga. Il 28 gennaio 1871 fu firmato l'armistizio tra Francia e Prussia, ma Bismarck non voleva trattare con un esecutivo provvisorio, così impose alla Francia l'elezione di una nuova Assemblea Nazionale: le elezioni furono vnte dalla destra orleanista. La nuova Assemblea affidò a Thiers il compito di presiedere l'esecutivo e votò a favore della pace con il neocostituito Reich, a cui furono cedute Alsazia e Lorena unitamente al pagamento di 5 miliardi di franchi come debito di guerra. La reazione popolare alla sconfitta fu però violentissima. Infatti l'armistizio con la Prussia e la pace con la Germania avevano acuito la crisi sociale e politica, che sfociò in una sommossa popolare il 18 marzo del 1871, quando il governo cercò di prendere il controllo dei cannoni nel terrapieno di Montmartre: i ribelli - nel timore di un ritorno dell'ancien règime - costrinsero con le armi il Governo orleanista e filo-monarchico a lasciare la capitale, esautorarono il Parlamento e sostiuendolo, il 26 marzo, con un nuovo governo cittadino chiamato La Comune, che adottò al posto del tricolore francese la bandiera rossa. Si trattò di un governo dichiaratamente socialista ed egualitario, che durò solo 54 giorni. Tra le novità introdotte si ricordano:
1) l'abolizione dell'esercito permanente sostituito dai cittadini armati;
2) la separazione tra Stato e achiesa e la completa laicizzazione dello Stato;
3) la gratuità e la laicità della pubblica istruzione;
4) l'elettività dei magistrati;
5) la promozione dell'associazionismo operaio e la retribuzione dei pubblici funzionari con un salario minimo.
L'esperienza comunarda fu interrotta dalla feroce repressione dell'esercito, guidato dal generale MAC MAHON, che il 21 maggio entrò a Parigi. Circa ventimila parigini furono massacrati con processi sommari e fucilazioni indiscriminate, molti riuscirono a fuggire all'estero, altri furono catturati e condannati finche l'ordine non fu ristabilito. Il successivo 2 luglio furono indette nuove elezioni che videro la vittoria dei repubblicani, scongiurando così definitivamente il timore di un possibile ritorno della monarchia.

2 - LA PRIMA FASE (1871-1879)

Il 31 agosto 1871 al generale Thiers, orleanista, già capo dell'esecutivo, vengono attribuiti dal Parlamento anchei poteri di Presidente della Repubblica. Thiers esordisce con una politica rassicurante, volta a ristabilire l'immagine del Paese a livello internazionale. Tuttavia le sue dichiarazioni di volere una repubblica conservatrice provocarono una caduta del consenso e fu battuto in Parlamento. Dopo la sua destituzione, avvenuta il 24 maggio 1873, fu nominato Presidente il comandante dell'esercito, Patrice Mac Mahon, legittimista. Al contrario degli orleanisti, che pur essendo filo-monarchici erano comunque fedeli alla forma repubblicana, i legittimisti erano sostenitori della restaurazione monarchica. Convinto assertore del ruolo centrale della Chiesa Cattolica e del ruolo delle classi dirigenti, Mac Mahon si impegnò subito sul fronte internazionale allo scopo di riaccreditare l'immagine della Francia. I suoi poteri furono prolungati di sette anni, ma una serie di accordi interni tra repubblicani e bonapartisti, vincitori delle elezioni, con le altre forze parlamentari, portarono alla vittoria - per un solo voto - della repubblica, che fu proclamata il 30 gennaio 1875, a cui seguì una serie di leggi costituzionali per supportare la forma repubblicana. Nelle successive elezioni legislative i repubblicani ottennero la maggioranza, e la posizione di Mac Mahon fu compromessa. Mac Mahon cercò invano di sciogliere la Camera dei Deputati ma l'ulteriore raggiungimento della maggioranza repubblicana al Senato lo costrinse definitivamente alle dimissioni il 30 gennaio 1879. Al suo posto fu nominato presidente Jules GREVY, che il successivo 4 febbraio nominò a capo dell'esecutivo William Henry Waddington.

3 - LA SECONDA FASE (1879-1889)

L'affermazione repubblicana alle successive elezioni del 1881 conferirono una maggiore stabilità alla presidenza Grevy. Con la collaborazione del primo ministro Jules FERRY, Grevy dette il via a un grande disegno riformistico, che era iniziato già al suo insediamento con alcune disposizioni atte a rinsaldare le fondamenta della Repubblica: il ritorno delle due Camere nella Capitale, l'adozione della Marsigliese come inno nazionale e l'introduzione della data dell'assalto alla Bastiglia come giorno di festa nazionale, oltre all'amnistia per gli ex-comunardi. A queste riforme di carattere istituzionale ne seguirno altre più radicali, volte a fare della Francia un paese laico e anticlericale: innanzitutto la promozione dei diritti dell'uomo, la libertà di pubblica assemblea, la libertà di stampa e di associazione sindacale; quindi l'espulsione dei Gesuiti e delle congregazioni maschili non autorizzate, il ripristino del divorzio, la laicizzazione di ospedali e scuole, la gratuità e l'obbligatorietà dell'istruzione primaria e la separazione dell'insegnamemto religioso dalle altre materie. Grevy fu rieletto nel 1885 e la sinistra repubblicana e radicale continuarono a rafforzarsi, tanto da consentire la formazione di ulteriori esecutivi col medesimo orientamento politico. In questi esecutivi il dicastero della Guerra fu affidato al generale Georges BOULANGER. Era molto stimato dalla sinistra radicale da quando, in occasione di uno sciopero di cui si chiedeva una repressione forzata, dichiarò che l'esercito non era al servizio dei borghesi. Alfier del nazionalismo, Boulanger si trovò coinvolto in una crisi con la Germania, risolta poi in modo diplomatico da Grevy, che rischiò di provocare una nuova guerra con i Tedeschi. Constatando l'incapacità dei radicali di gestire una situazione di questo tipo, il Parlamento votò la sfiducia al Governo per destituire forzatamente Boulanger dal suo incarico. Boulanger perse dunque il ministero ma anche il comando dell'esercito con l'accusa di insubordinazione. Tuttavia il generale raccolse intorno a sè un gran numero di fanatici nazionalisti: nonostante le sue scarse capacità di oratore fu eletto alla Camera, dove cercò di avviare una serie di riforme, monarchici e bonapartisti lo appoggiarono. Nel 1887 Grevy si dimise - per motivi non legati alla politica - e fu eletto Sadi CARNOT, ma il timore era quello di un possibile colpo di stato. Boulanger era infatti molto popolare poiché cavalcava il revanscismo anti-tedesco (gli fu dedicata anch una canzone "C'est Boulanger qu'il faut", C'è bisogno di Boulanger) e gli fu proposta la presidenza, che Boulanger accettò. L'intenzione del generale non era però quella di attendere le successive elezioni ma di tentare un vero e proprio colpo do stato: questo gli alienò il sostegno dei repubblicani, mentre resisteva quello monarchico, anche se i monarchici sapevano ch Boulanger non avrebbe restaurato la monarchia. Il gennaio 1889 sembrava il mese giusto per il colpo di stato ma il generale perse tempo. Colpito da un mandato di arresto per tradimento fu costretto alla fuga e proprio la fuga compromise la sua immagine agli occhi dei seguaci. Privo di sostenitori e in esilio, Boulanger si suicidò nel 1891.

4 - GLI SCANDALI DI FINE SECOLO

Nell'ultimo decennio del XIX secolo la Terza Repubblica fu scossa da due grandi scandali: lo scandalo del Canale di Panama e l'Affare Dreyfus, entrambi Connotati da un forte sentimento di antisemitismo. Del primo furono protagonisti alcuni deputati, accusati di aver concesso un prestito obbligazionario alla compagnia che gestiva in quel periodo - fine anni Ottanta - l'apertura del Canale di Panama. L'accordo sotterraneo, che metteva in evidenza il collegamento tra il mondo politico e quello degli affari, fu smascherato da un giornalista, Dumont, e dal giornale di fede boulangista La Cocarde, che dettero il via a una campagna stampa violentissima, il cui esito fu il necessario ricambio di buona parte della classe politica dell'epoca. Il caso Panama scoppiò proprio nel momento in cui i repubblicani e i radicali avevano raggiunto un consenso molto elevato, tanto da avviare un comune progetto economico di ispirazione protezionista. Il nuovo esecutivo nominato dal parlamento aveva una connotazione filo-cattolica, e questo consentì una nuova politica sociale oltre a una mitigazione delle precedenti riforme. Nel 1894 scoppiò però un nuovo caso. Ne fu protagonista un ufficiale ebreo dell'esercito francese, Alfred FREYFUS, accusato di alto tradimento. La notizia sarebbe passata quasi inosservata se non fossero stati presenti due elementi importanti: Dreyfus era non solo ebreo ma anche alsaziano, e questo aspetto finì col riaccendere il snetimento nazionalosta anti-tedesco, considerato che l'Alsazia era stata ceduta da più di 20 anni al Reich. Dreyfus fu processato frettolosamente e condannato all'ergastolo. Due anni dopo un altro ufficiale dell'esercito, il colonnello Picquart, scoprì che il documento che accusava Dreyfus era inrealtà un apocrufo. Picquart informò ripetutamente i suoi superiori, che non solo lo ignorarono, ma, dopo avergli intimato di tacere, lo trasferirono in Tunisia. Per mettere a tacere la cosa furono prodotte altre false prove contro Dreyfus ma nel 1897 Picquart riuscì a diffondere le notizie in suo possesso, scatenando così l'opinione pubblica, che si divise da subito in dreyfusiani e anti-dreyfusiani. I maggiori sostenitori di Dreyfus furono gli scrittori e giornalisti Emile ZOLA de L'Aurore e Jean JAURÈS de La Petite Republique. Zola pubblico sul auo giornale il famoso editoriale intitolato "J'accuse", una lettera aperta al preidnete della Repubblica Felix FAURE in cui si denunciavano le illegalità e le irregolarità del processo. Zola fu esiliato, la stampa antisemita, specie i giornali La Croix e LmIntransigente, si scagliarono contro Dreyfus con una campagna diffamatoria che accusava gli ebrei di un complotto internazionale. Nonostante le diffamazioni il fronte anti-dreyfusisno sembrava in minoranza, tuttavia la richiesta di una revisione del processo non venne accolta. La notizia dava il colpo di grazia alla situazione di disordine sociale del Paese che culminò in un tentativo di colpo di stato nel 1899 - pochi giorni dopo la morte improvvisa del presidente Faure - che però fallì. Il gesto convinse le autorità alla decisiva revisione del caso Dreyfus: dopo una prima riduzione della pena dell'ergastolo a dieci anni di reclusione, l'ex ufficiale fu riabilitato nel 1906. Conseguenza del caso fu la riunificazione delle sinistre e la ripresa della politica anticlericale.

L'INGHILTERRA VITTORIANA DOPO IL 1870
GLADSTONE, DISRAELi E SALISBURY

1 - GLI ASPETTI CONTROVERSI DEL VITTORIANESIMO

L'epoca vittoriana copre tre quarti del XIX secolo e coincide con il grande sviluppo economico, culturale, industriale e coloniale del Regno Unito. A dispetto dell'apparente benessere del paese e del forte impatto culturale, bisogna sottolineare che il vittorianesimo ebbe come conseguenze gravi forme di disagio sociale, basate soprattutto sul pauperismo delle classi inferiori, sul progressivo allargamento della forbice sociale tra le classi e sull'impiego di manovalanza minorile nelle fabbriche. Lo sviluppo economico del Regno Unito, anche grazie alla se onda rivoluzione industriale, aveva visto un profondo mutamento degli assetti istituzionali. Il potere politico e le banche condizionavano e gestivano lo sviluppo delle industrie: ormai le banche si erano ttasformate in istituti di credito che non si limitavano all'investimento di capitali ma estendevano i propri servizi alla concessione di prestiti alle imprese, entrando di diritto nella gestione economica delle industrie stesse.  Il capitale eccedente veniva reinvestito all'estero, spesso in zone sottosviluppate: il governo fu molto attento a non lasciarsi coinvolgere nella Guerra di Secessione americana, mentre concedeva prestiti a paesi in via di sviluppo, che erano obbligati poi a comprare i macchinari industriali inglesi, creando una dipendenza commerciale che si distingueva dal commercio triangolare del XVIII secolo. Infatti anche gli altri inperi europei erano interessati ai nuovi mercati, e questa nuova politica coloniale finì col dividere in mondo in zone economiche sfruttate dai diversi paesi. La "questione sociale" interna al paese riguardava sopratutto tre piaghe: il lavoro minorile, la prostituzione e la povertà. I bambini erano impiegati frequentemente negli opifici tessili - data la loro conformazione fisica servivano a raccogliere le spolette di cotone che eventualmente cadevano sotto i telai - e nelle miniere - per la stessa ragione, perchè potevano infilarsi in tunnel strettissimi dove un adulto non avrebbe potuto muoversi - ma anche come domestici. La propaganda mostrava all'opinione pubblica che il proletariato era felice, ma nella seconda metà del secolo vennero denunciati i maltrattamenti e il forte senso di disagio del ceto popolare, escluso dalla vita politica e privato di qualsiasi privilegio. Nel 1832 una riforma elettorale aveva esteso il diritto si voto anche all'alta borghesia terriera e industriale ma escludendo la media borghesia e il proletariato. Nel 1866 William GLADSTONE aveva proposto una nuova riforma che estendeva di poco il limite di reddito necessario per essere ammessi alle urne. Gladstone era pero anche dichiaratamente favorevole a concedere il diritto di voto alla classe operaia. La cosa non piacque all'opposizione che bocciò la proposta, sostenendo che la classe operaia non possedesse le necessarie qualità morali e intellettuali per godere di tale diritto. La reazione popolare divampò, dapprima in tono moderato, poi diffusa ai vari "borough" e coinvolgendo un sempre maggior numero di lavoratori. Nel timore che  la protesta si trasformasse in insurrezione un altro statista, Benjamin DISRAELI, promosse un nuovo progetto di riforma che estendeva il diritto si voto a tutti i cittadini maschi legalmente residenti nei borghi. La proposta, che escludeva di fatto i lavoratori agricoli, passò.

2 - IL PRIMO GOVERNO GLADSTONE

Le elezioni del 1868 videro l'affermazione dei liberali. La working class che votava per la prima volta non espresse dei propri rappresentanti, In quanto si sentiva già soddisfatta del miglioramento delle sue condizioni. L'esecutivo fu quindi affidato a GLADSTONE che vi fuse liberali e radicali. La prima priorità di Gladstone era l'istruzione. Prima del 1870 non esisteva infatti nel Regno Unito una scuola pubblica  e aconfessionale, le scuole erano infatti private e da sempre in mano alla Chiesa d'Inghilterra, e ricevevano un sussidio. Con l'introduzione del suffragio universale maschile diventava però urgente  che gli aventi diritto al voto sapessero leggere e scrivere: solo la metà dei bambini sapeva effettivamente farlo e la qualità dell'insegnamento era piuttosto mediocre. Nel 1870 viene dunque varata la proposta di una Legge sull'Educazione. Il disegno di legge prevedeva l'istituzione di scuole pubbliche e laiche, suscitando la netta opposizione del Partito Conservatore. Per evitare un annoso conflitto con la Chiesa Anglicana fu deciso l'aumento dell'indennità in favore delle scuole confessionali per garantirne la sopravvivenza; tuttavia fu aggiunto un emendamento che vietava l'insegnamento strettamente religioso, anche nelle scuole anglicane. Nel 1880 l'istruzione primaria fu resa ufficialmente obbligatoria e nel 1891 diventò gratuita. La riforma fu estesa presto anche all'istruzione di grado superiore. Le università avevano infatti gli stessi problemi relativi alla qualità della didattica delle scuole primarie. La riforma incontrò la resistenza degli atenei più blasonati come Oxford e Cambridge, gelosi della loro indipendenza e autonomia, tuttavia anche l'insegnamento universitario fu reso aconfessionale e furono emanate le Leggi di Prova che avolivano le prove  religiose imposte dalla Chiesa Anglicana per l'ammissione ai corsi. Furono inoltre ammesse anche le donne, anche se non tutte le università ne riconoscevano l'appartenenza. Quella dell'istruzione fu sicuramente la riforma più importante del primo ministero Gladstone ma non l'unica:
a) contro il clientelismo, che permetteva l'accesso ai ruoli impiegatizi dei funzionari "appoggiati" da membri del Parlamento, fu emanato un progetto di abolizione dell'ingresso di favore, sostituito dai liberi concorsi;
b) contro la compravendita delle cariche dell'esercito  fu proposta una legge di abolizione, duramente osteggiata, che passò solo per ordine reale;
c) nel 1871 vengono legalmente riconosciute le associazioni dei lavoratori, anche se col veto sulle manifestazioni, veto che fu abrogato quattro anni dopo dal governo di Disraeli.

3 - DISRAELI

Nel 1874 la coalizione liberal-radicale che sosteneva Gladstone fu sconfitta alle elezioni - le prime a scrutinio segreto - e a Gladstone succedette Benjamin DISRAELI. La a onfitta di Gladstone è da attribuirsi a molte cause, probabilmente l'esaurimento di quella spinta riformista che aveva contraddistinto il suo mandato, ma anche la contrarietà di buona parte dell'elettorato, sia quello dell'upper class che non aveva visto di buon occhio l'ammodernamento istituzionale, sia quello della working class che era rimasto deluso per i limiti imposti alle associazioni sindacali, legalmente riconosciute ma col divieto di manifestare. Disraeli si impegnò subito a migliorare proprio le condizioni, soprattutto quelle igienico-sanitarie, della classe operaia, oltre a una Legge sulla Sanità Pubblica nel 1875. In politica estera Disraeli fu uno dei massimi protagonisti del colonialismo inglese: nel 1875 nominò la regina Imperatrice d'India, tre anni dopo invece acquistò diverse azioni del Canale di Suez per garantire al suo paese uno sbocco privilegiato sull'Oceano Indiano, quindi si impegnò nel conflitto tra Russia e Turchia. Nonostante i successi in campo internazionale proprio la spregiudicata politica coloniale gli causò un calo di popolarità, aggravata dalla crisi dell'agricoltura, eventi che lo portarono alla sconfitta elettorale nel 1880. Il governo passò dunque per la seconda volta in mano a Gladstone.

4 - IL SECONDO GOVERNO GLADSTONE

Gladstone era salito al potere senza un programma ben preciso, basando la sua campagna elettorale solo sulla critica alla politica estera di Disraeli.  Era un momento piuttosto difficile a causa della divisione all'interno dei conservatori, spaccati in una corrente  tradizionalista, a cui apparteneva lo stesso Gladstone, una di ispirazione quasi socialista capeggiata da Chamberlain e una democratica di cui era capo Lord Churchill (padre di Winston Churchill), quarto partito del Regno Unito. Il vero successo del secondo mandato di Gladstone fu la Terza Legge Elettorale del 1884 che estese il suffragio anche ai lavoratori reaidenti nelle campagne, quindi alla manovalanza rurale e ai minatori. Occorre sottolineare che questo fu reso possibile non da una richiesta dei lavortori, incapaci di darsi ancora una vera organizzazione sindacale unitaria, ma dalle stesse organizzazioni industriali. La decisione fu presa sopratutto per dare una nuova spinta all'agricoltura, settore in crisi a causa del progressivo avanzare dell'industrializzazione, che richiamava nelle città un sempre maggior numero di lavoratori rurali, col conseguente abbandono delle campagne, l'ulteriore assenza di misure protezionistiche ne aveva accelerato la decadenza. La Legge Elettorale fu appeovata senza difficoltà alla Camera dei Comuni, mentre incontrò diversi ostacoli alla Camera dei Lord, risolte grazie all'abilità diplomatica di Gladstone.
L'anno successivo tuttavia Gladstone fu costretto alle dimissioni dopo che la coalizione che lo aveva sostenuto fu travolta dal problema delle colonie e dalle proteste sempre crescenti dei dissidenti irlandesi  dell'Home Rule: al suo posto fu eletto Lord SALISBURY.

5 - lA DECADENZA DELL'EPOCA VITTORIANA

Durante il governo di Salisbury il Paese fu scosso da forti tensioni sociali che sfociarono in diversi scioperi. I lavoratori non avevano infatti ancora raggiunto una solida organizzazione, e le Unioni erano ancora frammentate e prive di un valido progetto. Nel 1884 si costituisce a Londra un'associazione culturale di ispirazione socialista, la Fabian Society, a cui aderirono siversi intellettuali. Il socialismo fabiano non fu un vero movimento rivoluzionario, come espresso dall'etimologia del nome, che traeva origine da quello di Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore na un movimento di idee volte al progressivo miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice. Tra le maggiori proposte della Fabian Society quella di un'alternativa ai mezzi di produzione per sottrarre il controllo dell'industria alla borghesia capitalista, e misure straordinarie per l'educazione e la sanità in favore delle classi lavoratrici. Il suo declino coincise con la formazione del Labour Party nel 1906. Nel corso del decennio 1880/1890 erano nate anche altre organizzazioni a tutela dei lavoratori poveri e sindacati per la manodopera non qualificata. A questo punto iniziarono diversi scioperi che coinvolsero diversi settori produttivi, destando l'interesse dei ceti agiti. Dopo una crisi di governo nel 1892 per il basso consenso, Salisbury tornò al potere anche grazie alla progressiva decadenza dei liberali, che privarono il suo governo di una solida opposizione.. Rassegnò le sue dimissioni nel 1901, anno della morte della Regina Vittoria, e morì l'anno successivo. 

L'ITALIA UMBERTINA
LA CRISI DI FINE SECOLO

1 - IL PRIMO GOVERNO CAIROLI

Il 1878 si apre con la scomparsa di due grqndi protagonisti del Risorgimento, il re d'Italia, Vittorio Emanuele II, a cui succedette il iglio zumberto I, e il papa Pio IX, a cui fece seguito l'elezione di Leone XIII. Il retno di Umberto si apriva con diverse questioni ancora aperte: la questione romana, la presenza di schieramenti repubblicani e anti-unitari, l'irredentismo dei patrioti che rivendicavano alcuni territori ancora in mano agli austriaci, la situazione economica  stagnate, lo scarso prestigio internazionale di cui godeva l'Italia e la questione sociale che richiedeva riforme urgenti per le classi meno abbienti. È importante sottolineare come Umberto fosse molto diverso dal padre, in quanto giurò sullo Statuto Albertino impegnandosi a rispettare la Costituzione, violando quel principio di "non est potestas nisi a Deo" che caratterizzava quasi tutte le corone europee. Il suo insediamento coincise con le dimissioni del leader della sinistra storica, Agostino Depretis, a cui succedette nell'incarico il leader della sinistra moderata, Benedetto Cairoli. 
Il primo intervento diplomatico del nuovo esecutivo fu in merito alla crisi balcanica che si era aperta a causa della guerra tra Russia e Tuechia, in seguito alla quale Bismarck aveva promosso il Congresso di Berlino. Cairoli intendeva approfittare dell'occupazione austriaca in Bosnia per riottenere dall'Austria il Trentino, disegnando due diverse strategie di negoziazione a seconda delle de isioni del Congresso: nel caso in cui l'occupazione fosse stata infatti ratificata, il ministro degli Esteri Corti avrebbe do uto perorare la causa per la cessione del territorio irredento, mentre in caso contrario l'Italia avrebbe dovuto votare a favore dell'occupazione temporanea. Il Congresso affidò la Bosnia all'Austria ma i delegati italiani non avevano scelta: infatti tutti i delegati europei avevano votato a favore del provvedimento e una ricusazione avrebbe significato innescare una crisi internazionale. Così il governo si limitò a una semplice richiesta di chiarimenti, che confermò l'egemonia austriaca: a questo punto, per non compromettere le relazioni diplomatiche con Vienna e con gli altri paesi europei, l'Italia fu costretta a recedere ai suoi propositi. Il Congresso pensava di risarcire comunque l'Italia con Tripoli ma la delegazione italiana non accettò in quanto si trattava di una proposta inferiore e che avrebbe potuto creare una crisi con altre potenze: l'insuccesso fu accolto da manifestazioni di piazza che degenerarono in tumulti. Il clima di ostilità era ben testimoniato dai due tentativi di regicidio, il primo sventato sul nascere, il secondo effettivamente tentato, che erano stati organizzati negli ambienti anarchici. Il più pericoloso fu quello di Napoli, del 17 novembre 1878, di cui fu protagonista il giovane anarchico lucano Luigi Passannante, il quale durante la visita dei reali a bordo di una carrozza scoperta (in cui sedeva anche Cairoli) si lanciò verso il re armato di coltello gridando "viva la repubblica universale! " e inneggiando al patriota Felice Orsini, che aveva tentato di uccidere Napoleone III. L'attentato fu applaudito da molti socialisti e anarchici del periodo, tra cui anche il poeta Giovanni Pascoli. Passannante fu condannato a morte ma il re commutò la pena in un ergastolo, in quanto la condanna a morte doveva applicarsi solo in caso di un effettivo regicidio. Cairoli, che aveva cercato di fare da scudo al sovrano nel tentativo di assassinio, fu insignito della medaglia al valor militare, ma in realtà l'episodio di Napoli finì col peggiorare la sua posizione  per l'assenza di sicurezza e Cairoli fu costretto a dimettersi. Umberto affidò l'incarico di Primo Ministro a Depretis.

2 - IL SECONDO GOVERNO CAIROLI

Il nuovo governo durò pochi mesi: battuto alla Camera nel luglio 1879, Depretis fu costretto a dimettersi e la guida dell'esecutivo fu nuovamente affidata a Cairoli. Cairoli tuttavia fu costretto, in quanto privo della maggioranza necessaria, a chiedere aiuto proprio a Depretis, che fu nominato ministro dell'Interno. Primo provvedimento del secondo governo Cauroli fu la revoca della tassa sul macinato, che aveva permesso di raggiungere il pareggio di bilancio ma che aveva gravato i generi di prima necessità come il pane di un costo insopportabile per la popolazione, creando forti tensioni sociali. Era stato lo stesso re Umberto ad auspicare la revoca della tassa oltre che di altri provvedimenti. Il Parlamento approvò quindi  nel 1880 la riduzione progressiva della tassa sul macinato, che fu poi  definitivamente abolita nel 1884. In politica estera invece il vero obiettivo di Cairoli era la partecipazione dell'Italia alla campagna di colonizzazione, allo scopo di rilanciare la sua immagine a livello internazionale. La colonia su cui l'Italia aveva investito le sue aspettative era la Tunisia, che era stata già vincolata dalla Francia. Cairoli, che era contrario a una strategia di occupazione, aspettava il "placet" della Gran Bretagna, interessata a limitare lo strapotere francese nell'Africa del Nord, ma mentre l'Italia attendeva la Francia occupava forzatamente il territorio tunisino. L'ennesimo fallimento denotava la scarsa considerazione di cui il Paese godeva a livello internazionale. 
Era dunque necessario un cambiamento politico, di cui Cairoli era consapevole, sia in ambito internazionale, con un avvicinamento a Germania e Austria, sia in ambito locale con un nuovo esecutivo. Cairoli rassegnò le sue dimissioni nel 1881 e prese le distanze dalla vita politica. Il governo tornò ancora nelle mani di Depretis.

3 - L'ULTIMO GOVERNO DEPRETIS

Il nuovo governo Depretis aveva due obiettivi: continuare la serie di riforme sociali introdotta dal precedente esecutivo e portare l'Italia fuori dall'isolamento politico internazionale. Anche Depretis come Cairoli non godeva di una maggioranza piena: per questo motivo fu costretto alla spregiudicata politica del trasformismo, che finì non solo per annullare la differenza ideologica tra Destra e Sinistra Storica ma limitò l'efficacia delle riforme portate avanti dalla coalizione. In politica interna la riforma più importante fu quella elettorale, che estese il suffragio ai maschi sopra i 21 anni (invece che 25) e con un reddito di 19 lire annue (invece che 40). In politica estera le priorità di Depretis erano il rilancio della politica coloniale italiana, fallimentare dopo lo "schiaffo di Tunisi" e la ricerca di un'alleanza con Germania e Austria. 
A interessare Depretis era sopratutto l'Austria, in quanto Leone XIII stava facendo pressioni su diverse monarchie europee per un'alleanza diplomatica anti-italiana, allo scopp di ripristinare il vecchio Stato Pontificio. Depretis suggerì dunque ai reali una necessaria visita alla corte viennese. L'alleanza con un paese cattolico e conservatore come l'Austria era fondamentale e avrebbe messo l'Italia al riparo da insidie separatiste e irredentiste, oltre a costituire una valida sponsorizzazione politica in Europa. L'incontro tra i reali fu positivo: lo stesso zumberto fu insignito da Francesco Giuseppe di un titolo simbolico a comandante onorario del 28esimo Reggimento di Fanteria - che gli causò un calo di popolarità in patria, essendo il reparto in questione il protagonista della battaglia di Novara e dell'occupazione di Brescia. Il primo ministro austriaco, KALNOKY, di idee conservatrici e molto legato al papa, non vedeva di buon occhio la possibilità di un accordo tra Austria e Italia, accordo che era invece caldeggiato da Bismarck, preoccupato della - non remota - eventualità che l'Italia entrasse nell'alleanza tra Gran Bretagna, Francia e Russia. L'influenza di Bismarck convinse quindi Francesco Giuseppe e il suo cancelliere a iniziare le trattative con la diploma8- italiana: il primo atto di quella che sarà la Triplice Alleanza fu firmato il 20 maggio 1882. L'accordo prevedeva un reciproco soccorso tra le tre potenze, allontanando l'Italia dalla Francia e frenando in un qualche modo l'irrednrtismo anti-austriaco. Tuttavia l'accordo scatenò una nuova serie di tensioni sociali, che culminarono in un attentato, fallito, all'imperatore Francesco Giuseppe durante una sua visita a Trieste.
Contemporaneamente il governo italiano rilanciava la politica coloniale in Africa, con l'occupazione di Eitrea e Somalia e l'acquisto della baia di Assab dall'armatore Rubattino, a cui sarebbe dovuta seguire l'occupazione di Massaua, utile avamposto per iniziare l'avanzammo nell'entroterra sudanese: la Gran Bretagna però si oppose fermamente, bloccando di fatto l'Italia nel Corno d'Africa. L'Italia cercò tuttavia ancora un'ulteriore occupazione forzata di Asmara ma le truppe italiane furono sconfitte nel gennaio 1887 a Dogali dall'esercito etiope. La sconfitta in Abissinia fece crollare le quotazioni della sinistra, ma Depretis riuscì comunque a ricostruire una maggioranza (la cosiddetta Pentarchia) con l'aiuto di Crispi e Zanardelli.  Depretis morì proprio quell'anno e a succedergli fu Francesco Crispi.

4 - L'ITALIA CRISPINA E LA CAMPAGNA D'AFRICA

La politica interna del Crispi coincideva con uno dei periodi più difficili della storia italiana, poi culminato nella crisi di fine secolo. È importante sottolineare come per la prima volta il capo del governo è un effettivo Presidente del Consiglio dei Ministri, consiglio che non viene più presieduto dal re, il quale si limita a ricevere il capo del gabinetto al termine della riunione dell'esecutivo. Durante il governo crispino scoppia la rivolta dei Fasci Siciliani dei Lavoratori e i Moti Insurrezionali della Lunigiana, che indussero il governo alla cosiddetta "svolta radicale" con la proclamazione dello stato d'assedio e lo scioglimento di tutte le organizzazioni sospette: il Partito Socialista, le Camere del Lavoro e le Leghe Operaie.
Crispi era, a differenza di Depretis, un convinto sostenitore della politica coloniale africana, tanto da inviare subito in Eritrea un corposo contingente di ventimila uomini al comando del generale Baldissera. Crispi intendeva approfittare della lotta per il potere tra il Negus Giovanni IV e Menelik. Alla morte del Negus nel 1889 Menelik salì sul trono, destituendo il legittimo ras, e si autoproclamò Imperatore d'Etiopia, perorando l'aiuto italiano. Il 2 maggio 1889 fu firmato il Trattato di Uccialli, che riconosceva di fatto i territori italiani in Eritrea ma imponeva anche - grazie a una traduzione non corretta dell'art. 17 - il protettorato italiano sull'Etiopia in cambio di 4 milioni di lire. La cosiddetta beffa di Uccialli era destinata a essere scoperta quando, nel 1893, Menelik - ignaro del falso accordo - aveva trattato con la Francia ricevendo una perentoria richiesta di chiarimento da parte del govenro italiano. Per tutta risposta l'imperatore iniziò la guerra all'Italia. Crispi inviò subito in Africa un nuovo esercito, guidato stavolta dal generale Baratieri, che si unì alle truppe locali di ascari ma che sottovalutò la forza dellmesercito etiope. Nel 1895 l'esercito italiano fu sterminato nelle battaglie di Amba Alagi e Macallè e successivamente nella battaglia di Adua (1896). La sconfitta di Adua costò l'incarico a Crispi che fu sostituito da Di Rudinì: fu Di Rudinì a firmare la Pace di Addis Abeba che annullava il Trattato di Uccialli restituendo la sovranità all'Etiopia ma riconosceva i possedimenti italiani precedentemente occupati. La sconfitta di Adua segnava in definitiva la fine della sinistra storica al governo del Regno d'Italia.

5 - LA CRISI DI FINE SECOLO

Gli ultimi due governi dell'Italia umbertina furono quelli presieduti da Di Rudinì e da Pelloux. La monarchia era in crisi già dalla fase crispina, sia a causa del disastro di Adua sia a causa di uno scandalo, quello della Banca Romana, scoppiato nel 1893, che aveva visto il coinvolgimento dello stesso Umberto I, accusato di aver cntratto diversi debiti coperti attraverso i fondi dell'ex Banca dello Stato Pontificio. Spia della tensione sociale era stato anche il secondo attentato subito da Umberto nel 1897 ad opera dell'anarchico Pietro Acciarito. Malgrado Acciarito avesse confessato di aver agito da solo, il tentato regicidio fu ancora una volta attribuito a un complotto nato in ambienti anarco-socialisti e repubblicani. Il 7 maggio 1898 a Milano il popolo manifestò pubblicamnete il proprio disagio per il rincaro del prezzo dei cereali e sopratutto del grano, manifestazione che passò alla storia come protesta dello stomaco. Il generale Fiorenzo Bava Beccaris ordinò ai soldati, intervenuti per reprimere la manifestazione, di sparare ad alzo zero sulla folla inerme. Per ul massacro compiuto il generale ricevette anche un'onorificenza da parte del re, che acuì ulteriormente la tnsione sociale. Il governo Pelloux rispose quindi con una Politica più autoritaria che limitava le libertà di stampa e di riunione, e scioglieva di fatto diverse organizazioni socialiste, cattoliche e radicali. Ne fecero le spese anche politici come Turati e Costa, incarcerati per aver appoggiato e difeso la manifestazione di Milano. In Parlamento i socialisti - applicando la tecnica dell'ostruzionismo - sfiduciarono il governo Pelloux, obbligandolo allo sciogliemmo delle Camere e a indire nuove elezioni. La netta vittoria della sinistra indusse il re ad affidareil nuovo esecutivo nelle mani di Saracco. Il 29 luglio 1900, mentre si trovava in visita a Monza per presenziare a una cerimonia di premiazione, il re Umberto I subì l'attentato fatale che gli costò la vita, per mano dell'anarchico Gaetano Bresci. L'attentato fi accolto cn molto scalpore dal Paese, tanto che i circoli anarchici e socialisti si affrettarono subito a prendere le distanze da Bresci, lasciando intendere che si trattava di una sua iniziativa personale e non collegabile a nessun gruppo politico attivo in Italia.

L'IMPERO AUSTRO-UNGARICO (1867-1900)
L'IMPERO RUSSO DAL 1870 AL 1900

1 - L'UNIFICAZIONE DI AUSTRIA E UNGHERIA

Dopo la guerra austro-prussiana del 1866 e la sconfitta austriaca a Sadowa - vittoria politica di Bismarck che di fatto sottraeva agli austriaci l'egemonia nella Confederazione - Francesco Giuseppe sentì la necessità di un avvicinamento all'Ungheria, sopratutto dopo l'invasione prussiana della Boemia. Così il 1867, dopo diverse trattative, vede siglato il cosiddetto AUSGLEICH (compromesso) tra le due corone, che formavano un unico Impero, suddiviso però in due autonomie territoriali, la CISLEITANIA (Austria) e la TRANSLEITANIA (Ungheria), separate dal punto di vista amministrativo. Con la pace di Praga l'Austria rinunciava quindi a ogni progetto espansionistico verso gli stati tedeschi, che nel 1871 avrebbero dto vita alla Germania, ripiegando verso i Balcani, area contesa dalla Russia. L'occupazione della Bosnia fu il primo atto dell'avanzata austriaca, ratificata dal Congresso di Berlino. Tuttavia, nel timore di un attacco russo, l'Austria fu costretta ad allearsi proprio con la Germania, dando vita nel 1879 alla Duplice Alleanza - estesa nel 1882 anche all'Italia come Triplice Alleanza - che avrebbe protetto l'Impero Austro-Ungarico in caso di invasione russa. Un altro importante passo fu nel 1881 l'alleanza con la Serbia, che chiese la protezione austro-ungarica. Nello stesso anno, il patto fa i tre imperatori riconosceva la zona di influenza austro-ungarica sui Balcani occidentali e divideva di fatto tra Russia e Austria le aree di influenza territoriale, con un accordo preventivo di consultazione sull'eventuale espansione nel decadente Imepro Ottomano; per contro alla Russia fu riconosciuta la sua posiziona negli Stretti del Bosforo, dei Dardanelli, e del Mar di Marmara, sbocchi strategici sul Mediterraneo. Bismarck intendeva evitare che l'Austria fosse coinvolta in controversie territoriali, alimentate dagli irredentismi locali: per questo convinse Vienna a estendere la Duplice Alleanza all'Italia, malgrado la diffidenza del primo ministro Kalnoky, e a un accordo con la Romania. Tuttavia gli accordi tra Austria e Italia risultarono generici e molto ambigui, e l'Italia riuscì a strappare una preziosa clausola che avrebbe dovuto garantire all'Italia un risarcimento in caso di un cambiamento nella situazione balcanica: fu probabilmente il mancato rispetto di questa clausola - inserita di fatto nel 1887 al rinnovo della Triplice Alleanza - a determinare gli attriti tra i due paesi prima della Grande Guerra. Sul fronte balcanico i rapporti tra Austria e Russia si raffreddarono a causa dei deu Accordi Mediterranei, che avevano precluso alla Russia l'accesso agli Stretti. Nel tentativo di evitare una crisi internazionale il nuovo primo ministro Goluchovski, succeduto a Kalnoky, avviò le trattative bilaterali con la Russia, che ebbero come conseguenza l'esclusione dell'Italia dai Balcani e la garanzia della neutralità russa in caso di conflitto tra Italia e Austria..

2 - LA CRISI DELl'IMPERO RUSSO

Il 1870 segna l'inizio della decadenza dell'Impero Russo. La mutata geografia politica europea, la presenza di tendenze anarchiche e populiste, i forti contrasti etnico-religiosi, e soprattutto una profonda depressione sociale ed economica, avevano finito col determinare la crisi che avrebbe portato l'impero alla dissoluzione. L'assassinio dello zar Alessandro II nel 1881 era la spia del malessere sociale che coronava una linea politica autoritaria ma incerta  sui propri obiettivi. Il disagio si era diffuso in Russia già negli anni Venti del XIX secolo, con la formazione di circoli culturali - la cosiddetta "intelligencja" - costituiti dapprima da giovani aristocratici, e poi estesi anche ai giovani borghesi, con idee progressiste e con una marcata preoccupazione per la situazione del loro paese. Negli anni Tenta si forma il circolo degli Slavofili di Mosca, espressione della nobiltà terriera russa, costituito da diversi intellettuali dell'epoca: l'obiettivo era quello di tutelare il patrimonio culturale russo, avviando un programma di riforme che discostasse la Russia dai modelli liberali delle corti europee, che gli slavofili disprezzavano. Pur essendo contrari alla servitù della gleba essi riconoscevano l'autocrazia dello zar, a cui spettava il compito di realizzare queste riforme sociali, preservando la tradizione della "obscina" ossia la comunità rurale russa, che ancora credeva in una sorta di agricoltura nomade: tale pratica, che escludeva ogni pretesa di privatizzazione delle terre, era stata soppressa quando il feudalesimo russo aveva introdotto profonde modifiche nel lavoro contadino, rendendo stanziali i contadini e obbligandoli a prestazioni gratuite e all'esazione delle decime. Questa consuetudine era stata ripresa nel progetto di riforme degli slvofili che pensavano in questo modo di arginare eventuali ventate rivoluzionarie del mondo agricolo. Contrapposti agli slavofili erano gli occidentalisti, favorevoli a uno sviluppo capitalistico del paese, che caldeggiavano un programma di riforme che abolisse il feudalesimo e l'autocrazia zarista, e che garantisse le libertà individuali. Parallelamente a questi circoli si sviluppò una corrente democratica e rivoluzionaria, sostenuta da diversi intellettuali che chiedevano la liberazione dei contadini e sposavano la prassi rivoluzionaria. La diffusione delle idee del socialismo utopistico in Francia, negli anni Quaranta, ebbero quindi una risonanza presso i circoli radicali che guardavano a un rinnovamento sociale. Il movimento si fece sentire maggiormente dopo il 1855, concluso il regno di Nicola I, all'avvento del figlio Alessandro. Nel 1861 fu emanato un nuvo Statuto che di fatto aboliva la servitù della gleba ma vincolava i contadini al villaggio, attraverso una serie di obbloghi che ricalcavano lo stesso schema del sistema feudale, con decime e corevèe, senza che la posizione economica dei lavoratori fosse effettivamente migliorata. Lo scopo della riforma era quello di liberare formalmente i contadini ma di evitare ogni tipo di organizzazione e di disordine sociale. Nelle campagne finì per ricrearsi lo stesso meccanismo di stratificazione tipico della società urbana, con una borghesia terriera, i kulaki, una media borghesia contadina e un proletariato rurale. Diversi giovani intellettuali russi si trasferivano nlle campagne per fare la vita dei contadini, allo scopo di essere identificati come guide delle masse rurarli. Ma il progetto non attecchì e il Governo iniziò una serie di azioni repressive volte a contenere un eventuale rigurigito rivoluzionario. Le misure repressive però inasprirono ancora di più il clima politico, fino a renderlo instabile, tanto che nel 1881 lo stesso zar fu messo a morte. 
La risposta del nuovo zar, Alessandro III, fu una decisa svolta autoritaria che compromise per sempre la stabilità dell'istituzione imperiale.  Oltre a rafforzare i controlli nelle campagne, il Governo aumentò ulteriormente la burocrazia e il potere del capitale. La situazione divenne irreversibile alla fine del secolo quando salì al potere l'ultimo zar, Nicola II, che sarà rovesciato nel 1917 durante la Rivoluzione Russa. Appena insediato sul trono il nuovo zar dovette fare i conti con una serie di scioperi degli operai e con diverse manifestazioni studentesche. In questo periodo si diffondono le idee di Marx grazie a Plechanov, che però spostò l'assetto rivoluzionario sul movimento operaio piuttosto che sul versante rurale, comsiderando l'industria il vero motore del paese. Nel 1898 si forma il Partito Operaio Socialdemocratico, seguito due anni dopo dal Partito Socialista Rivoluzionario, che diventerà il primo partito del paese. Ogni tentativo di protestare veniva represso duramente  dalla guardia imperiale.
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