lunedì 25 aprile 2016

1A - U4

1A - U4
Platone

PLATONE - LEZIONE 19
Biografia e “corpus platonicum”

19.1 - Platone è il primo filosofo sistematico della storia della filosofia occidentale. Nasce ad Atene, respirando la politica soloniana, ed entrando in contatto con il clima di decadenza delle poleis, di cui la morte di Socrate fu amara testimonianza. Probabilmente i due grandi incontri che hanno cambiato la vita di Platone furono quello col maestro Socrate, avvenuto quando Platone era poco più che diciottenne - e che orientò in un senso anche politico la missione del filosofare platonico - e quello con Cratilo, filosofo scettico, di scuola eraclitea, che aveva dato al problema del divenire una prospettiva ancora più marcata (sosteneva infatti che non solo non possiamo bagnarci due volte nello stesso fiume ma neanche una, poiché l’acqua che bagna il nostro piede non è la stessa che bagna il tallone). Successivamente alla scomparsa del maestro Platone entra in contatto con diversi studiosi di matematica, di scuola pitagorica ed euclidea, la cui influenza favorirà la fondazione e lo sviluppo dell’Accademia, e a Siracusa con il tiranno Dionigi e con il di lui genero Dione, figure importanti che ispirarono uno dei cardini caratteristici del credo politico di Platone, il sovrano-filosofo. 

19.2 - Il corpus platonico consiste di 36 scritti, in forma di Dialoghi, divisi, secondo la composizione classica in nove tetralogie. Benché sia considerato il primo filosofo sistematico Platone non ha dato alle sue opere un carattere realmente di sistema, le teorie non appaiono infatti descritte in modo chiaro e ordinato. A queste teorie vanno aggiunte anche le dottrine non scritte, le àgrafa dògmata, che rivelano l’eredità del metodo didattico socratico, fondato sul dialogo, in cui il problema restava “aperto” a ulteriori sviluppi. Normalmente si suddividono le opere platoniche in tre periodi: il primo è detto socratico, o giovanile, e coincide con il riferimento alla figura del maestro; il secondo è detto della prima maturità. e coincide con la fondazione dell’Accademia; il terzo è chiamato della seconda maturità o della vecchiaia, e concerne tematiche già sviluppate e riprese dal filosofo.

19.3 - Agli inizi del secolo XIX Schleiermacher, uno dei più famosi critici e studiosi del corpus platonico, mise in evidenza il carattere ermeneutico delle opere di Platone, evidenziando in pratica tre aspetti: il contenuto dei dialoghi come forma d’arte, l’assenza di un sistema, e la funzione scenografica e drammaturgica di ogni dialogo. Questi aspetti mettono in luce la singolarità dialettica di ogni dialogo platonico, che non può essere incasellata in un sistema dottrinale ordinato e complesso. Ulteriori studi, negli anni Sessanta del XX secolo, hanno voluto valorizzare le cosiddette opere non scritte di Platone, che ci permettono di affiancare alla figura del Platone essoterico, pubblico, divulgativo, un Platone esoterico, volto quindi a un tipo di insegnamento fondato esclusivamente sull’oralità come faceva Socrate, e riservato a pochi. Proprio in queste opere non scritte e trasmesse oralmente troviamo il vero Platone, in cui gli interessi scientifico-matematici di ispirazione pitagorica prevalgono su quelli etico-politici.

PLATONE - LEZIONE 20
L’intenzionalità della conoscenza e il problema del linguaggio: il Carmide e il Cratilo

20.1 - A influenzare Platone non ci fu solo la morte di Socrate, ma è evidente come sia proprio il suo rapporto con il maestro a condizionare buona parte dei temi dei dialoghi del periodo giovanile, detto appunto anche socratico proprio perché dominato dalla figura di Socrate. Ma a dividere i due filosofi è proprio il metodo di ricerca. Socrate usa una prospettiva analitica e induttiva, che non gli consente di cogliere la realtà in maniera realmente universale, intuendo le forme pure, i concetti, ma allontanandosi dalla totalità. Per Socrate ciò che è oggettivo è determinato, concluso. Il metodo platonico sfrutta la dialettica allo scopo di giungere a una conoscenza realmente universale della realtà, senza fermarsi quindi alle opinioni. In questo senso Socrate si limita ad associare conoscenza e virtù, Platone va oltre e cerca di spiegarne le condizioni, i principi, i fondamenti della vita morale. Questi sono i temi che ricorrono proprio nei dialoghi socratici, tra cui prevalgono due problemi fondamentali: la soggettività, intesa come l’intenzionalità del conoscere (la direzione verso cui tende la ricerca, la coscienza) e l’interpretazione dei segni e dei simboli che la costituiscono (la nascita quindi del linguaggio). I due dialoghi in cui appaiono meglio questi due punti nodali sono il Carmide e il Cratilo.

20.2 - Il Carmide non si discosta molto dai temi degli altri dialoghi del periodo ma è interessante poiché qui Platone spiega l’intenzionalità del conoscere, il conoscere rivolto a un oggetto fuori da noi. Si presentano qui due prospettive, una riguarda l’oggetto in se stesso e l’altra il soggetto che conosce l’oggetto. Possiamo studiare solo l’oggetto o anche il soggetto che conosce l’oggetto? E questa conoscenza a cosa ci serve, che risultati ci dà? Possiamo mettere in evidenza tre problemi: a) la conoscenza di se stessi; b) la conoscenza dell’oggetto; c) la conoscenza dell’effetto. Tra queste assume rilevanza proprio la coscienza dell’oggetto. Infatti noi possiamo anche fare qualcosa senza esserne consapevoli - per esempio un gesto qualsiasi che fa stare bene una persona - oppure agire senza immaginare gli effetti che la nostra azione potrebbe generare. Inoltre la conoscenza di noi stessi risulterebbe vuota se allontanata dall’oggetto, infatti noi possiamo vedere ciò che viene visto e non la vista in se stessa. La conoscenza fondamentale è quindi quella dell’oggetto. Socrate aveva posto il suo “conosci te stesso” alla base della conoscenza, ma senza rivelarne l’oggetto: Platone intende superare questo ostacolo riunendo, senza identificarle, conoscenza di se stessi e conoscenza dell’oggetto. Possiamo dunque conoscere noi stessi, dice Platone nel Carmide, in relazione all’oggetto verso cui intenzionalmente la nostra coscienza tende, ma non possiamo staccare la coscienza dall’oggetto, poiché non potremmo valutarla in modo empirico se svuotata da qualsiasi contenuto oggettivo.

20.3 - Nel Cratilo si scontrano due tesi, una naturalista e una convenzionalista. Secondo la prima i nomi delle cose sono naturali, ossia fanno parte delle cose stesse, e non cambiano, mentre secondo i convenzionalisti i nomi delle cose hanno un valore appunto convenzionale. Entrambe le posizioni sono ovviamente fallimentari, e mostrano limiti evidenti, tanto che Platone oppone due concezioni alternative, una strumentalista e una rappresentativa. La prima concezione - che è potremmo dire una variante del convenzionalismo - vede il linguaggio come uno strumento, ossia diamo i nomi alle cose in base al loro uso. La seconda - che possiamo dire a sua volta un’estensione del naturalismo - considera il linguaggio come un modo per descrivere gli oggetti, imita e rispecchia le cose per come esse appaiono a noi che le conosciamo. Ma Platone mette in evidenza che anche queste due concezioni non soddisfano la conoscenza, poiché conoscere il nome delle cose non significa conoscere le cose come sono in se stesse. Noi delle cose conosciamo ciò che i nostri sensi colgono e sono questi aspetti a consentirci di assegnare alle cose un nome. Pertanto, a differenza dei Sofisti, Platone ritiene che non siano le parole a creare gli oggetti, ma si tratta della nostra capacità di comprendere la realtà oggettiva a dar loro consistenza e circostanza.

PLATONE - LEZIONE 21
La conoscenza come ricerca assoluta
Il Menone

21.1 - Nel Carmide Platone mette in evidenza l'aspetto dell'intenzionalità della conoscenza, intesa come direzione del conoscere dal soggetto all'oggetto, avvertendo che questo meccanismo non è un processo naturale e immediato, ma nasce dall'esercizio di un'attività ben precisa che ruota intorno all'oggetto che si vuole conoscere. Soggetto e oggetto non sono la stessa cosa, ma sono ben distinti tra loro, tra essi non esiste un'identità, ma un rapporto. Nel Menone Platone si domanda essenzialmente come si fa a sapere se la direzione di questa attività è giusta. Per conoscere un oggetto è necessario prima di tutto che ciò che conosciamo sia realmente ciò che noi vogliamo conoscere e non un'altra cosa e in secondo luogo è necessario che ciò che vogliamo conoscere sia stabile e permanente. L'elemento che ci consente una conoscenza stabile delle cose è la loro DEFINIZIONE, elemento che già si trova nella filosofia di Socrate e che permette di ridurre le cose alla loro essenza. Platone fa derivare dalla matematica pitagorica il concetto di FORMA IDENTICA (eidos) e usa il concetto di ESSENZA (ousia) per indicare la forma regolare, ciò che non cambia in nessun caso: più elementi condividono la stessa realtà oggettiva e sono contraddistinti da un predicato comune che li rappresenta. Ma questa proceduta conoscitiva può essere attribuita solo alle cose e non al soggetto che le conosce che, essendo pensiero e attività, sfuggirebbe quindi a qualsiasi accezione definitoria. È proprio tale impossibilità a consentire a Platone di superare il cosiddetto argomento eristico dei sofisti, secondo cui ogni conoscenza è vana poiché non si può conoscere ciò che già si conosce e, riguardo ciò che non si sa, è superfluo porsi il problema della conoscenza.  Infatti il sofista accoglie come conoscibile solo l'ente già compiuto e definito, rifiutando di coglierne il divenire e fermando dunque la propria ricerca all'atto. La relazione conoscitiva è un processo dinamico che legittima, nell'essenza della coscienza, il significato delle cose. L'elemento che conferisce stabilità e permanenza agli oggetti della coscienza è la MEMORIA. Il ricordare è l'essenza stessa della coscienza, è l'elemento che conferisce identità ai suoi elementi. Il sapere (episteme) è un imparare (mathesis) a ricordare e la sua essenza è il ricordo (anamnesis). All'argomento eristico dei Sofisti Platone oppone dunque la teoria della reminiscenza: conoscere è ricordare. Sarebbe però molto riduttivo identificare la memoria come un semplice strumento chiarificatore che trasporta un oggetto da uno spazio scuro a uno spazio chiaro in cui si manifesta. Per Platone il ricordare significa non tanto recuperare un oggetto della memoria quanto fare riferimento alla verità: ricordare significa platonicamente conoscere il VERO. Se lo scetticismo eristico aveva insistito sull’inutilità di conoscere il vero, la teoria della reminiscenza di Platone identifica la memoria come l’atto di dare un valore, un significato, alla conoscenza, in pratica corrisponde all’atto di dare una FORMA. La parola verità in greco si dice “aletheia”, a sua volta parola composta dalla particella privativa a (alfa) e dalla parola lethe, oblio. Letteralmente potrebbe essere tradotta come assenza dell’oblio. La parola lethe deriva da un verbo greco, lanthano, che significa nascondere. La parola aletheia assume quindi un preciso significato: non oblio, non nascondimento. Infatti l’essere, nella realtà oggettiva, viene nascosto dalla molteplicità, cioè dalla pluralità di cose imperfette presenti nel reale, e dal divenire, cioè il processo d’inevitabile cambiamento che si verifica in tutte le cose. Questo fa sì che l’essere appaia e scompaia e, quando parliamo di verità, parliamo di manifestazione dell’essere. Il ricordo per Platone è appunto l’esplicitazione di questa verità, ossia la manifestazione del vero essere.  La verità non è un dato, ma un compito che unisce la forma oggettiva e l’atto soggettivo. Una figura qualsiasi di per sé non ha alcun senso se risulta sconosciuta alla nostra coscienza: una forma deve sempre essere vista, cioè riconosciuta oggettivamente (per esempio: la porta rettangolare). Allo stesso modo il pensiero non possiede alcuna prerogativa creatrice: il pensiero non costruisce gli oggetti e, il fatto che noi non siamo in grado di riconoscerli, non significa che non esistono o che essi nascano dal nulla quando li riconosciamo. Platone opera qui un interessante superamento del pensiero parmenideo, che concepiva l’essere come un’assenza del non essere. L’essere assume infatti un significato nel momento in cui viene ri-conosciuto, cioè identificato mediante la forma oggettiva a esso collegata, ma questa forma esiste a prescindere dall’intenzionalità della nostra coscienza, tanto che il conoscere platonico è una rievocazione di qualcosa che esiste già a prescindere dal rapporto diretto agli oggetti della coscienza. Famoso esempio usato da Platone è quello dello schiavo di Menone.

21.2 - Secondo la teoria della reminiscenza il conoscere è un processo attivo che comincia quando si instaura una relazione tra la coscienza e l’oggetto. Non è l’oggetto protagonista del processo, ma il soggetto che conosce. Si tratta del superamento dell’oggettivismo, secondo cui sapere è un processo passivo che consiste nella semplice raccolta di nozioni. Platone accoglie la differenza sostanziale, già considerata da Socrate, tra il piano oggettivo del reale e quello soggettivo della coscienza: sono due piani diversi, con strutture diverse e caratteristiche diverse. Per mettere insieme questi due livelli di realtà è necessario che l’anima sia IMMORTALE e che sopravviva al corpo dopo la morte. Questa caratteristica permette d’identificare la conoscenza come una anamnesi, cioè un ricordo: non esiste nulla, scrive Platone, che l’anima non abbia già appreso. Inoltre permette di orientare la conoscenza non al semplice dato, ma allo sviluppo, al processo, che conduce alla sua scoperta. Se ci fermassimo alla sola intuizione del dato, infatti, esso si svelerebbe, ma poi tornerebbe a scomparire, magari perdendosi per sempre, invece il processo conferisce al conoscere un valore preciso, conservandone il significato. L’anima dunque dev’essere non solo immortale, ma anche PREESISTENTE alle cose stesse, perché il conoscere è una continua ricerca del vero e dell’essere. Queste due caratteristiche sono tali in funzione della reminiscenza, che funziona da mediazione tra l’anima e le cose reali. Platone si allontana da qualsiasi contesto poetico o religioso, in quanto questi elementi hanno per lui solo un valore introduttivo, e si concentra invece sugli aspetti funzionali della teoria della reminiscenza. Nel dialogo Menone Platone mostra chiaramente come il conoscere sia un processo veramente attivo, non una semplice raccolta di dati ottenuti dall’esperienza sensibile, ma uno sforzo di ricerca che parte proprio dall’esperienza sensibile. Nell’episodio più famoso Socrate chiede al protagonista di chiamare uno dei suoi servi, chiaramente ignorante di matematica. Guidato da Socrate, il servo riesce a costruire il quadrato sull’ipotenusa, si trattava evidentemente della dimostrazione del teorema di Pitagora, scoprendo che corrisponde alla somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo. Socrate invita quindi Menone a cogliere come il servo non abbia imparato in base ai dati forniti dal maestro, ma ha ricordato, come se avesse conseguito la conoscenza da sé stesso. Le domande che emergono sono: 
in che senso lo schiavo ha acquisito la conoscenza matematica da sé? 
che tipo di conoscenza ha acquisito? 
con quale metodo?

Alla prima domanda possiamo rispondere che lo schiavo non ha appreso la soluzione del problema da Socrate, ma ha acquistato attraverso Socrate il giusto modo di procedere, per confutazione, e al termine del processo ha avuto consapevolezza che la conoscenza ottenuta è valida. Da se stesso lo schiavo ha appreso la COSCIENZA DELL'OGGETTO, da Socrate ha appreso la COSCIENZA PROBLEMATICA. Questo doppio canale, problematico e oggettuale, esprime il significato di un'indagine attraverso ipotesi. L'ipotesi è un'affermazione né vera, né falsa. Il ragionamento ipotetico non offre garanzie di verità, si tratta infatti di un giudizio sospeso, in attesa di essere confermato. Il presupposto razionale è dato però proprio dal suo limite, che obbliga il soggetto conoscente a cercare una strategia per giungere al vero. Platone integra il metodo socratico con un ulteriore metodo d’indagine di tipo DIALETTICO, che perviene alla conoscenza mediante tre fasi:
a) METODO ANALITICO - basato sul carattere negativo della dialettica (A non è  B) serve a individuare ed eliminare le ipotesi false;
b) METODO APAGOGICO (= per riduzione all'assurdo) - prima fase dell'uso positivo della dialettica, serve a dimostrare indirettamente la verità delle premesse di un ragionamento;
c) METODO ESPOSITIVO (o IPOTETICO-DEDUTTIVO) - è la seconda fase dell'uso positivo della dialettica, usa una dimostrazione ancora indiretta, ma basata su prove.
Platone, a differenza di altri filosofi, usa il termine DIALETTICA nel senso scientifico, col preciso significato di pervenire a una soluzione mediante il ragionamento. Ma una soluzione del problema, a questo punto, è solo un'OPINIONE VERA (in greco: doxa alethès) che Platone è ben attento a distinguere dalla CONOSCENZA RAZIONALE (in greco: epistème) che rispetto alle opinioni vere ha la caratteristica della stabilità e della scientificità. La differenza tra epistème e doxa consiste proprio nel fatto che solo la prima può vantare un legame necessario col vero, come, scrive Platone, le statue di Dedalo che gli Ateniesi pensavano che potessero vedere e fuggire, tanto che venivano legate. L'elemento che conferisce stabilità all'epistème è il ragionamento causale, ossia la coscienza della CAUSA. Questa consapevolezza sottrae l'oggetto all'oblio e permette alla coscienza di passare dal mondo degli oggetti al mondo delle relazioni tra gli oggetti.
Si compie in questo modo il superamento di Socrate mediante il fondamento di una vera ONTOLOGIA (discorso, studio sull'essere) che vede l'oggetto non più come un dato, ma come un compito che "mette in moto" la ricerca della causa. E solo in questa accezione che la virtù può essere insegnata.

PLATONE - LEZIONE 22
Psicologia e antropologia
Il Fedone

22.1 - Esaminando i primi tre dialoghi abbiamo chiarito che la conoscenza consiste nella relazione tra soggetto e oggetto, in cui l’oggetto è posto di fronte al soggetto, e abbiamo detto che si tratta di un processo attivo e non passivo, poiché non parte dall’oggetto, ma ha il soggetto come protagonista. Adesso Platone deve spiegare non solo cosa sia realmente l’oggetto, ma soprattutto chi è il soggetto conoscente, o meglio, la coscienza (o anima) che si dirige all’oggetto. Nel Menone abbiamo visto come si attiva la conoscenza, nel Fedone Platone spiega cosa è l’anima. Lo fa cominciando dalla morte di Socrate, raccontata da Fedone a un gruppo di ammiratori del maestro, ma lo scopo non è apologetico, bensì è volto a mostrare proprio il destino dell’uomo dopo la morte. Già nel Menone Platone dice che l’anima è immortale, a sostegno della reminiscenza: nel Fedone non solo l’immortalità viene ribadita come carattere essenziale dell’anima, ma la stessa reminiscenza costituisce una delle prove che ne testimoniano l’immortalità. Nella psicologia platonica si afferma quindi un dualismo, già presente nelle dottrine misteriche orfiche e pitagoriche, quello tra l’anima, incorporea, immortale, perfetta, e il corpo, corruttibile, imperfetto e mortale, dove la perfezione della stessa anima viene testimoniata da questo circolo (il cerchio è simbolo di perfezione) immortalità-reminiscenza-immortalità.
Questo dualismo anima-corpo produce due effetti, uno di tipo etico e morale e uno di tipo logico e conoscitivo. L’aspetto etico riguarda proprio la perfezione dell’anima, che preserva la sua purezza fuggendo dal carcere del corpo, come nella metempsicosi pitagorica: in questo senso la morte del corpo non è affatto un male, anzi, è auspicabile proprio per liberare l’anima dal carcere fisico. L’aspetto logico riguarda la conoscenza razionale o episteme, in cui proprio l’immortalità dell’anima serve ad accedere alle forme perfette, intelligibili e immateriali delle cose. Ma questo aspetto ha prodotto anche un’altra conseguenza, ossia la confutazione di due teorie che sono state discusse anche in tempi più recenti, la teoria EPIFENOMENISTICA della coscienza, che concepisce la vita mentale come un fenomeno secondario e superficiale che “accompagna” la realtà, e la teoria MECCANICISTICA della natura, che spiega la realtà esclusivamente in base ai movimenti spaziali e corporei che ne fanno parte, collegati tra loro come una rete. In altre parole: questo aspetto conferisce realtà al pensiero e nega quelle teorie che si limitano a spiegare il reale prescindendo dalla coscienza, appunto l’opposto della concezione platonica in cui il soggetto, come si è visto nel Menone, è il protagonista del processo conoscitivo.

22.2 - Dopo aver considerato la teoria principale della superiorità dell'anima immortale e del suo affrancamento dal carcere fisico, Platone prende in esame tre argomentazioni a dimostrazione dell'immortalità dell'anima.

PRIMO ARGOMENTO: ARGOMENTO DEI CONTRARI - Si tratta di un argomento di derivazione eraclitea. Ogni cosa si origina e si definisce dal proprio contrario: la vita genera la morte, la morte genera la vita, in un ciclo continuo in cui vita e morte si alternano. Questo ciclo, osserva Platone, non può mai avere una fine: se avesse fine non ci sarebbe mai vita, poiché la morte sarebbe la fine di tutto. Inoltre questo ciclo ha bisogno di un substrato, di un pilastro che dia stabilità all'alternanza dei due termini. Questo elemento è appunto l'anima immortale. La morte esiste solo come trasformazione e non come negazione.

SECONDO ARGOMENTO: ARGOMENTO DELLA REMINISCENZA - Nel Menone Platone dice che conoscere è ricordare. Perché ciò avvenga è necessario che l'anima non solo sia immortale, ma che sia anche intelligente, cioè che possa cogliere le forme perfette delle cose. Gli empiristi possono ribattere che la conoscenza è data solo dall'esperienza. In realtà però non tutto deriva dalla conoscenza sensibile, per esempio i concetti di uguaglianza, di somiglianza, di differenza. In questo argomento Platone per la prima volta parla delle IDEE, le forme perfette di cui le cose sono copia e che permettono a Platone di superare la prospettiva oggettuale della relazione tra soggetto e predicato per cogliere invece l'ESSENZA come predicato ultimo che ci consente di identificare e raggruppare le cose. Le forme identiche della matematica e della geometria, seppur perfette, fanno parte del mondo degli oggetti e la loro comprensione è legata agli oggetti. Le idee sono forme pure e preesistenti alle cose. Per esempio: dal punto di vista oggettivo noi possiamo associare le cose per colore, forma, tipologia, dicendo che si assomigliano. Ma dal punto di vista soggettivo è necessario che ci sia l'idea della somiglianza, il cui significato deve essere permanente.

TERZO ARGOMENTO: ARGOMENTO DELLA SEMPLICITÀ - L'anima è semplice, come le idee, e quindi è UNICA. Questo la rende incorruttibile, non essendo unione di aggregati, l'anima non si disgrega.

Dopo aver esposto i tre argomenti a sostegno della tesi della preesistenza dell'anima, nel dialogo intervengono due personaggi, allievi del pitagorico Filolao, che si chiamano Simmia e Cebete, e che espongono le due teorie contrarie, quella EPIFENOMENISTA e quella MECCANICISTA.

La prima teoria è di carattere biologico e si ricollega alla tradizione medico-fisiologica delle scuole pitagoriche, secondo cui la salute del corpo dipende dall'equilibrio costituzionale (ISONOMIA) dell'organismo. Significativo è il paragone con le corde di uno strumento musicale: se le corde sono rotte, la musica non potrà esistere. Secondo questa teoria, detta anche dell'anima-armonia, l'anima è un prodotto del corpo e quando il corpo muore, anche l'anima segue la sua sorte.

La seconda teoria è invece di carattere logico-materialista e in pratica sostiene che, a causa della trasmigrazione, l'anima si deteriora perdendo energia vitale fino ad annullarsi completamente.

Si obietta all'epifenomenismo sostenendo che accettare la reminiscenza significa che l'anima non potrebbe avere nulla a che fare col corpo, e che sopratutto la coscienza è un fenomeno individuale che differenzia gli uomini. Al meccanicismo invece si obietta distinguendo i due ambiti, mente e corpo, che hanno leggi diverse e quindi non possono produrre gli stessi effetti. Non è perciò ammissibile né una derivazione dell'anima dal corpo, né la sua riduzione a fenomeno naturale che, come tutti i fenomeni naturali, si esaurisce.

22.3 - I tre argomenti definiti da Platone mettono dunque in evidenza il presupposto immortale dell'anima, ma ancora non ci dicono cosa è l'anima. Di questo aspetto si occupa il quarto argomento, di carattere ontologico-metafisico, che fa derivare l'essenza dell'anima dal postulato dell'esistenza delle idee. Ogni cosa esistente, dice Platone, ha dei predicati, che sono di natura ESSENZIALE o RELATIVA. Un predicato essenziale non cambia mai, resta invariato (per esempio l'essere un uomo) mentre il predicato relativo è mutevole (per esempio la statura di un uomo). E il predicato essenziale dell'anima è la VITA.
Dire che l'anima è mortale è come dire che il ferro è di legno, che la neve è calda, che il numero 3 è pari, ossia una contraddizione. Se si ammettesse una contraddizione, evidentemente l'oggetto perderebbe ogni significato. Un conto è dunque parlare di una relazione tra soggetto e predicato e un conto è quando il predicato sia PARTE ESSENZIALE del soggetto. Esiste dunque un legame molto stretto tra anima e vita, che si traduce in tre conseguenze:
1) l'anima è IDEALE e non ha nulla a che fare col mondo naturale;
2) l'anima è AUTOCINETICA, ossia si muove da sé, è indipendente dal corpo;
3) l'anima è sede del logos, del pensiero razionale e come tale AUTOCOSCIENZA e unità essa stessa della coscienza: tutte le percezioni sono unificate all'interno del soggetto. Dal punto di vista logico queste quattro argomenti non possono essere veramente considerati delle prove vere e proprie, sia perché la conclusione non si può separare dalle premesse, sia a causa della sostanziale natura ideale dell'anima platonica, che ovviamente esclude ogni presupposto fisico e oggettivo. Da un punto di vista etico, l'immortalità dell'anima è fondamentale per la condotta della vita. Se l'anima infatti fosse mortale, gli uomini sarebbero condannati ad avere una sola occasione di vita e i malvagi morirebbero malvagi (NOMINALISMO ETICO). Invece, proprio perché l'anima è immortale, gli uomini sono spinti alla cura di sé e alla purificazione (UNIVERSALISMO ETICO) e a far dipendere il loro futuro dal tipo di direzione che essi daranno alla propria condotta morale.

PLATONE - LEZIONE 23
Le passioni e l’amore
Il Simposio e il Fedro

23.1 - L’attività che dirige la coscienza verso la forma ideale degli oggetti implica l’intenzionalità dell’anima e la trascendenza del mondo. A differenza di altri filosofi, Platone ritiene che le cose esistano a prescindere dalla nostra attenzione verso di esse (anti-soggettivismo) ma bisogna anche sottolineare che per Platone, e anche per Socrate, conoscere non equivale a contemplare in maniera astratta le cose: come abbiamo visto nel Carmide la conoscenza implica una tensione della coscienza verso un oggetto esterno a essa. La forma che dà forza a questa tensione, al desiderio, è l’amore o EROS, cioè la forza che attrae, che aggrega gli elementi. Il Simposio inizia con una riunione conviviale - donde il titolo del dialogo - per festeggiare la vittoria in una gara di poesia. Nel corso del banchetto, come era usanza, il protagonista Fedro ottiene da Socrate il permesso di introdurre un tema di discussione per intrattenere gli ospiti, che è appunto la scienza dell’amore. La discussione parte da un ambito materiale e arriva allo spirituale, inizia dalle passioni per giungere a un concetto di amore come aspirazione alla bellezza e alla verità. Ma va detto che nel dialogo non vengono escluse forme imperfette di amore  a vantaggio di quelle perfette, se l’amore corporeo è visto come una forza vitale e generatrice, che conduce all’ambizione, all’ardimento, al coraggio, l’amore celeste si rivolge alle anime, alla sobrietà, per accogliere l’intelligenza e la virtù. Lo stesso sapere naturale, quello che ha ispirato la scienza eraclitea e pitagorica, mette in evidenza l’amore come coincidenza degli opposti. Nessuna di queste tesi riesce però a rispondere alla vera domanda del dialogo: come nasce l’amore, ossia, quale CAUSA spinge le cose ad attrarsi, quale forza motrice dà il via al desiderio. Innanzitutto bisogna distinguere l’eros, cioè il cosiddetto amore passionale, dall’AGAPE (questa parola non compare in Platone poiché risale al primo Cristianesimo), ossia l’amore che si offre al prossimo senza aspettarsi nulla in cambio, e dalla PHILIA, l’amicizia, che è una forma di amore simile all’eros poiché esige di essere ricambiata. L’intervento di Aristofane nel dialogo guida quindi la conversazione alla ricerca dell’essenza del desiderio.
Aristofane racconta che un tempo gli esseri umani erano unici, cioè androgini, ma poi Zeus per punirli li separò e da allora ognuno cerca la sua metà perfetta: questo desiderio si chiama amore e il suo soddisfacimento si chiama felicità. Il racconto di Aristofane porta il dialogo a una svolta decisiva, mettendo in evidenza due aspetti, il primo è la percezione, nell’amore, di una mancanza, di una insufficienza, che deve essere colmata; il secondo riguarda la natura SIMBIOTICA degli uomini per la quale ognuno di noi è la metà perfetta di un unico ente: Platone usa proprio la parola SYMBOLON, simbolo, che deriva dal verbo greco SYNBALLO (metto insieme, unisco), nel preciso significato di un segno di riconoscimento, cercato da una metà che cerca l’altra sua metà per riunirsi in un tutto unico: la mancanza di questa metà conduce a una ricerca instancabile della propria metà perfetta. Si tratta di un concetto significativo ma ancora superficiale: Aristofane ci dice infatti che l’eros è in pratica la ricerca di qualcosa che non abbiamo, e ci porta verso la soddisfazione di un desiderio.
Osserva Platone - facendo parlare il suo maestro Socrate - che Eros non è un dio e nemmeno un mortale. Egli è figlio di PAROS (abbondanza) e di PENIA (povertà). Eros è il vero filosofo che non è mai sazio di sapere, poiché non ha ancora raggiunto la sapienza: in questo senso Socrate corregge Aristofane, spiegando che l’amore non è la soddisfazione di un desiderio ma è lo stesso desiderio. A ispirare la prospettiva socratica, durante il simposio conviviale in onore di Agatone, è il logos maieutico di Diotima di Mantinea - forse invenzione letteraria di Platone - una sacerdotessa del V secolo che del giovane Socrate fu maestra della filosofia dell'eros e che aveva anche il merito di aver ottenuto dagli dei di poter posporre di dieci anni la pestilenza che avrebbe colpito Atene. È proprio Diotima a evidenziare come Eros non sia un dio o un essere morale ma proprio un demone, come lo intendeva Socrate, nel senso di impulso ad agire. È quindi la stessa Diotima a trovare la mediazione tra le posizioni contraddittorie dei simposiasti, ponendo in evidenza le diverse gradazioni dell'eros fino al momento più elevato della bellezza in sé e della kalokagathìa (dal greco καλός καi αγαθός, kalòs kai agathòs, cioè bello e buono) ossia l'aspirazione alla bellezza e alla virtù come scopo nella vita. Ma il discorso di Diotima si interrompe nel dialogo per l'ingresso del komos (il corteo dionisiaco) di Alcibiade, che allontana la serietà del discorso (verrà ripreso nel Fedro) in un'atmosfera di sfrenatezza e di ebbrezza. Questa situazione dà una svolta al dialogo, con la dichiarazione d'amore omosessuale del giovane eromenos (bello) Alcibiade) per il vecchio erastes (brutto) Socrate, che Platone motiva nell'attrazione della bellezza intellettuale. L’uomo dunque non raggiungerà mai l’oggetto del suo desiderio poiché se così fosse l’amore smetterebbe di esistere, e non avrebbe senso alcuno il ruolo dell’uomo come amante, cioè come vero filosofo. Proprio nella tendenza dell’amore alla ricomposizione, alla riconciliazione, si esprime la tendenza alla PERPETUAZIONE DELL’ESSERE attraverso la specie. La corruttibilità del corpo e l’immortalità dell’anima sono mediati dalla funzione riconciliativa dell’amore inteso come anelito al Bello, non soltanto la bellezza fisica, trasmessa dai canoni della cultura o dell’arte, ma sopratutto il fine ultimo della bellezza in sé, intesa quale visione o forma (eidos appunto) che unisce in sé l’aspetto estetico, quello conoscitivo e quello etico. Qui va detto che Platone sta mettendo volutamente in risalto l’aspetto pubblico della bellezza rispetto al privato, poiché nel privato essa perderebbe di questi significati.
La bellezza va vissuta con gli altri, va contingentata alle nostre esperienze di vita, va condivisa e compartecipata. in tal senso l’amore è l’oggetto stesso della vita, che agisce e opera in vista del bene comune.

23.2 - Nel Simposio emerge dunque il concetto di amore come desiderio di unità. Il fanciullo Eros, figlio di Penia, la mancanza, desidera ricongiungersi al padre Paros, l’abbondanza: questo è l’obiettivo dell’anima che desidera ardentemente tornare al mondo delle idee da cui ha origine, e quindi la missione del filosofo, quella cioè di conoscere. Nel Fedro Platone esamina proprio la partecipazione soggettiva, non solo nel sentimento propriamente detto ma anche nella conoscenza. Infatti è il desiderio, quindi la passione, il vero demone della conoscenza razionale, l’elemento che spinge l’uomo a cercare la verità. Il Fedro inizia con un confronto tra il protagonista, un giovane ateniese appassionato di arte del discorso, e Socrate, che si svolge in luogo particolarmente suggestivo, la valle dell’Ilisso, a est di Atene. Qui Fedro racconta a Socrate di aver assistito al discorso pronunciato da Lisia sull’amore, nella fattispecie il problema affrontato da Lisia era se fosse necessario concedere i favori amorosi a chi era davvero innamorato o a chiunque. Socrate apprezza molto la tecnica oratoria di Lisia ma spiega a Fedro che a nulla servono le capacità di persuasione se non sono supportate dalla conoscenza razionale e quindi orientate alla verità. A tale proposito è lo stesso Socrate, a capo coperto, a pronunciare un discorso che parte dagli stessi presupposti di Lisia - si parla anche in questo caso di una relazione omosessuale tra un giovane allievo e il suo precettore - partendo però da una distinzione fondamentale, tra ciò che è piacere e ciò che invece è bene. Ma Socrate non intende semplicemente contrapporsi a Lisia sul suo stesso terreno, egli vuole, come è intenzione di Platone, mostrare il vero significato di eros, facendo vedere a Fedro che si possono costruire bei discorsi (logoi) pur privi di qualsiasi presupposto razionale. Il Fedro infatti non si occupa direttamente dell’attività soggettiva, che viene anzi quasi data per scontata, ma mette in luce il modo in cui questa rischia di trasformarsi in un fine in sé, facendo coincidere l’atto col suo oggetto. La passione è effettivamente un impulso irrefrenabile, che si trasforma in vera follia quando manca il controllo razionale: a causa del carattere dinamico dell’anima non esiste un arresto di questo movimento. Ma questo aspetto non è sempre del tutto negativo quando la follia assume un carattere divino, come dice la sacerdotessa Diotima di Mantinea, già incontrata nel Simposio, poiché spesso produce grandi cose, per esempio nell’arte, nella vita spirituale, nelle conoscenze scientifiche, ci sono passioni che non sempre hanno bisogno di essere frenate. Occorre però chiarire in che modo un impulso amoroso irrefrenabile possa condurre alla conoscenza razionale. 
E a questa domanda Platone risponde facendo comporre a Socrate una palincodia (ossia un nuovo componimento poetico, in questo caso il terzo, che riprende le tesi precedentemente esposte) presentando così la famosa immagine dell’auriga. Rappresenta una biga, guidato da un auriga appunto, e trainata da due cavalli alati, uno bianco e uno nero. Le tre figure formano insieme un tutto unico. L’auriga simboleggia la ragione che guida l’uomo, mentre i due cavalli alati simboleggiano rispettivamente l’ardore e il coraggio (il bianco) e l’appetito e il desiderio (il nero). Platone mostra dunque un’anima divisa in tre parti, una egemone, o anima RAZIONALE, e due anime da essa dipendenti, l’anima IRASCIBILE e quella CONCUPISCIBILE. Il compito dell’auriga è quello di condurre la biga stando attento che vi sia equilibrio nell’andatura dei due cavalli, poiché le tre parti dell’anima tendono sempre alla medietà. Il ciclo di reincarnazioni a cui le anime sono sottoposte operano una purificazione che impedisce a qualsiasi anima di essere condannata, ma la condotta responsabilizza l’auriga, cioè la parte razionale, che deve mediare le altre due. Non si può impedire il movimento della biga, come non ci si può mai liberare della passione, ma l’anima razionale deve guidare all’equilibrio. L’anima perciò secondo Platone svolge un ruolo mediatore, una funzione cioè di equilibrio tra i sensi e la ragione, e questo ci riporta al problema della conoscenza, dei bei discorsi (logoi) poiché così come la passione smodata porta alla perdita di sé così anche la persuasione è nulla senza la verità, come Socrate faceva notare a Fedro all’inizio del dialogo. La bellezza corporea, si era visto nel Simposio, ha bisogno del supporto della bellezza ideale. Un discorso è bello e degno di amore se le immagini sensibili che esso suscita sono conformate a un procedimento razionale del conoscere, quale Platone ha espresso nella dialettica. La conoscenza deve essere equidistante dall’esaltazione e dallo scetticismo, estremi che non conducono al vero. Platone individua quindi una triade composta da amore, discorso e sapere, che fa da sfondo ideale alle successive implicazioni del suo pensiero sistematico. Infatti il filosofo è consapevole dell’indissolubile legame tra gli elementi di questa triade e sa che la vera retorica è quella che si esplica certamente a partire dal vero: un bel discorso è sempre un bel discorso, che può fare innamorare chi lo ascolta, ma resta effimero qualora non parta, come nel caso dell’orazione di Lisia, da presupposti razionali. 
Platone mostra nel Fedro come lo scopo della retorica sia proprio il recupero dell’unità organica del concetto: l’obiezione di Socrate al suo giovane amico è la consacrazione della dialettica platonica, che, attraverso la dissezione degli argomenti lisiani conduce all’individuazione della verità universale. Qui Platone opera una critica consapevole a Isocrate, giovane allievo promettente della sua scuola, che fallisce in quanto pur sapendo usare la techne retorica non conosce la storia che è base del discorso: vero discorso è quello che procede infatti per dissezioni o scomposizioni analitiche (in greco DIAIRESIS ossia separazione) pervenendo a una concezione unitaria (in greco SYNOPSIS) del sapere storico. Dopo aver chiarito che la vera retorica non può che essere legata a una concezione unitaria del sapere e sopratutto alla conoscenza filosofica, Platone consacra il primato dell’oralità negando qualsiasi validità ai discorsi scritti con l’esposizione del mito di Teuth, che chiude il Fedro. Racconta Socrate che un giorno il saggio egizio  Teuth si presentò al faraone Thamus facendogli dono della sua ultima strabiliante invenzione, la scrittura. Essa, spiega Teuth, avrebbe portato nuovi orizzonti di conoscenza. Ma Thamus rifiuta il dono, spiegando che solo il discorso orale è portatore della vera conoscenza, poiché la parola scritta è immobile. Qui si rivela probabilmente il vero Platone, che predilige un insegnamento esoterico in forma strettamente orale, non solo per questioni di tipo semantico ma forse anche per evitare che la parola scritta venisse travisata o alterata: solo un discorso orale è infatti vero, e lo studente ne può apprezzare ogni sfumatura, cosa che non capita alla parola scritta, immota. Conclusa la celebrazione dell’oralità il Fedro si conclude con l’invocazione a Pan e alle divinità del luogo ove Fedro e Socrate si trovano, con l’augurio che la Bellezza sia sempre parte della loro vita.

PLATONE - LEZIONE 24
L’allegoria della caverna e i gradi della conoscenza
Il Teeteto e la Repubblica (Libri VI e VII)

24.1 - Dopo aver evidenziato, nel Menone e nel Simposio, le condizioni soggettive della conoscenza, è necessario valutare se esse sono sufficienti a determinare un oggetto, e individuarne l’estensione e i limiti. Platone espone il contenuto di questa analisi nel Teeteto, dialogo dal vigore drammatico, ma che allo stesso tempo rivela il carattere di un vero saggio sistematico. Questo dialogo, del periodo della vecchiaia, è dichiaratamente anti-soggettivista e anti-sofistico: la sua asserzione fondamentale è che non può esserci scienza senza l’essere, opponendosi alla ben nota teoria sofistica che anteponeva la conoscenza sensibile a quella universale dell’idea. Il contenuto del dialogo rimanda, nella sua conclusione, al Sofista (e da qui poi al Politico), ed è idealmente anticipato dal Parmenide. Si può notare come, tranne poche modifiche, i personaggi restano gli stessi, rendendo la trilogia ben riconoscibile nel corpus platonico. La trama del dialogo prende le mosse da una serie di incontri, quello tra Teeteto, giovane matematico ateniese, ammalatosi durante la battaglia di Corinto, ed Euclide, e quello successivo tra lo stesso Euclide e Trespione, al quale Euclide cerca di raccontare i particolari di un incontro tra Teeteto, allora promettente allievo del matematico Teodoro, e l’anziano Socrate. Euclide non ricorda i dettagli dell’incontro, ma ha conservato degli appunti su cui ha riportato il processo verbale della conversazione. Il diciassettenne Teeteto viene presentato a Socrate dal suo maestro Teodoro di CIrene, che ne elogia le straordinarie doti di ragionamento. Socrate allora cerca di mettere alla prova il ragazzo chiedendogli cosa sia la conoscenza. Il ragazzo risponde che la conoscenza è la sensazione. 
Socrate si rende conto dell’insostenibilità della sua dichiarazione ma si accorge anche che il giovane è “gravido” e che vale la pena utilizzare il metodo maieutico. Dopo una critica al relativismo sofistico e alla dottrina eraclitea Socrate guida dunque Teeteto verso una definizione più adeguata di scienza, ottenendo altre due risposte: a) la scienza è l’opinione vera e b) la scienza è l’opinione vera di cui si sa rendere ragione. L’esito del dialogo è però APORETICO (si chiama APORIA l’impossibilità di dare una risposta certa per la presenza di due soluzioni, entrambe, sebbene opposte, apparentemente valide allo stesso tempo). Platone offre al lettore una minuta descrizione della cosiddetta “arte levatrice” usata dal suo maestro, mettendo in luce l’abilità del filosofo di riconoscere “lo stadio della gravidanza e le condizioni di salute del feto” come era solita fare Fenarete, la madre di Socrate, che svolgeva appunto il mestiere di ostetrica. Allo stesso modo di una levatrice il filosofo è in grado di riconoscere se il suo interlocutore è “gravido” ossia se nella sua mente sono presenti pensieri reali o solo fantasmi; qualora lo fosse, il filosofo userà la techne maietuica per farlo partorire, ossia per far pervenire l’interlocutore ad una definizione adeguata e universalmente coerente. A tal proposito Socrate rivolge a Teeteto la domanda “che cosa è la scienza?” ottenendo come risposta, dopo una serie di excursus di natura matematica, “la sensazione”. Questa risposta offre a Socrate lo spunto per una critica dell’eraclitismo e del relativismo che ha come obiettivo dimostrare la stabilità del vero mediante l’essere, inteso come universale, e l’anima, che ha facoltà di dare un giudizio sulle cose. Ma nonostante la discussione si sia evoluta arrivando a due ulteriori affermazioni (scienza è opinione vera secondo ragione), il dialogo è destinato a chiudersi nell’aporeticità a causa dell’ambivalenza della parola logos (cioè pensiero, discorso, analisi) che conduce comunque a una doxa, una opinione, rendendo impossibile il raggiungimento di una soluzione unitaria. Socrate conclude anzitempo il discorso, che riprende nel Sofista, poiché deve recarsi in tribunale per rispondere delle accuse di empietà rivoltegli da Meleto.
Platone nel dialogo afferma che non basta il possesso di un sapere causale stabile ben formulato nella nostra anima per parlare di conoscenza. E non basta nemmeno desiderare di raggiungere questo sapere. Occorre invece mettere alla prova le capacità dell’anima, per valutare quale sia la più adatta a raggiungere questo scopo. A prima vista si direbbe che la capacità più adatta sia la AISTHESIS, che ha un doppio significato in italiano, quello di SENSAZIONE, intesa come semplice risposta sensoriale a uno o più stimoli esterni, e quello di PERCEZIONE, intesa come apprensione dei fenomeni colti dai sensi, che necessita rispetto alla sensazione di un’attivazione da parte del soggetto, come di una coscienza elementare. Platone parte dunque dalla percezione sensibile, e qui ritroviamo il relativismo protagoreo secondo cui la conoscenza equivale all’opinione sensibile. Se ci sono i sensi, allora c’è oggettività, e quindi realtà. Secondo Protagora di Abdera la conoscenza è vera se supportata dalla percezione sensibile. Ma questa affermazione, ci dice Platone, non ha nulla a che vedere con l’episteme, ossia la conoscenza razionale, poiché non ha un carattere di universalità. Il singolo, nella sua individualità, è assolutamente libero di conoscere il proprio mondo privatamente, secondo le proprie regole e condizioni. Ma anche questa conoscenza alla fine risulta inaccettabile e per questo motivo Platone cerca di costruire una propria teoria della percezione basandosi sul pensiero di Empedocle e di Etraclito. I fenomeni percettivi sono in realtà degli eventi che accadono come conseguenza di due MOVIMENTI, uno passivo ed esterno e l’altro psichico e interno. La percezione sensibile, secondo Platone, ha infatti un carattere intenzionale, e si svolge in funzione di due variabili, organismo e ambiente esterno: qualsiasi modifica a una delle due variabili causa una differenza di percezione, per esempio due individui possono sentire il freddo o il caldo in maniera diversa. Per questo motivo la percezione sensibile ha sempre un carattere privato e assolutamente individuale. A differenza di Protagora Platone ritiene che percepire un oggetto non significa per forza conoscerlo. Percezione e oggettività non sono infatti allineate, poiché l’oggettività implica la COMPRENSIONE DEL SIGNIFICATO, che non ha nulla a che vedere con la sensibilità. I sensi sono semplicemente degli strumenti di cui l’anima si serve per percepire, ma non sono autonomi. Questa conclusione porta Platone ad affermare che la conoscenza non può dunque basarsi sulla sensibilità ma sulla RIFLESSIONE. Passando a un livello superiore, quello dell’OPINIONE VERA, le cose non cambiano. Infatti l’opinione è un giudizio, un atto del pensiero, che per quanto vero o falso non può essere mai confortato dalla certezza razionale: se due persone si trovano a un bivio e devono scegliere quale delle due strade percorrere, esprimeranno un giudizio, sulla brevità del percorso, che motiverà la loro scelta, così uno prenderà la strada A e l’altro la strada B; questo giudizio risulterà vero in un caso e falso nell’altro ma nessuno dei due può saperlo con certezza se non al termine del percorso. Come si ricorderà anche nel Menone Platone aveva chiarito che accettare un’opinione, per quanto vera, non significa dare all’opinione un carattere di validità: Platone distingueva molto chiaramente tra episteme e doxa alethés. 
Allo stesso modo un presunto colpevole viene giudicato in tribunale e spetta agli avvocati dimostrarne l’innocenza, e alla pubblica accusa dimostrarne l’eventuale colpevolezza: in entrambi i casi un giudice e una giuria non possono sapere, a meno che non venisse validamente dimostrata la flagranza del reato, se l’accusato è veramente colpevole. E qui abbiamo la svolta del dialogo: alla terza domanda rivoltagli da Socrate, il giovane Teeteto risponde che la scienza è l’opinione vera secondo ragione. In apparenza questa conclusione potrebbe apparire definitiva ma così non è. La ragione infatti può - tramite prove adeguate - dare validità all’opinione, nel senso che una corretta dimostrazione GIUSTIFICA l’opinione, ma nello stesso tempo non pul dare a questa opinione un carattere di universalità poiché non può dimostrare che le premesse del ragionamento sono veritiere. In tribunale un accusato potrebbe anche vedersi dimostrare la propria innocenza nonostante egli sia colpevole, basta che abbia dei bravi avvocati e delle prove utili a suo vantaggio. Viceversa un innocente potrebbe anche essere condannato per gli stessi motivi. L’impossibilità di una validazione certa delle opinioni è la causa della conclusione aporetica del dialogo, confinando la conoscenza nell’ambito della soggettività fino a quando non verrà dimostrato un rapporto diretto tra l’anima e gli oggetti.

24.2 - Il dibattito tra Socrate e Teeteto proseguirà nel Sofista, ma la rappresentazione del rapporto tra la conoscenza e i suoi oggetti viene rappresentato, mediante immagini, nella Repubblica, attraverso due esempi: la metafora della linea e l’allegoria della caverna. In questi due esempi il modello percettivo viene svuotato del carattere empirico per assolvere la funzione di presentare in modo organico e unitario le relazioni tra gli oggetti, assumendo una funzione simbolica. Platone ha già chiarito, nel Menone e nel  Teeteto, che non basta la presenza di un sapere causa ben strutturato nella nostra anima o il voler arrivare a questo sapere per parlare di conoscenza: sono necessarie delle capacità, che non si danno immediatamente all’uomo ma che sono frutto di un costante esercizio, che ha come traguardo l’innalzamento della conoscenza dai gradi più bassi a quello superiore. Platone raffigura questo percorso disegnando una linea verticale, tagliata da quattro segmenti, che separa due zone: a destra abbiamo le FUNZIONI DELLA CONOSCENZA (ossia come la conoscenza si presenta nei soggetti) mentre a sinistra abbiamo le FORME DEGLI OGGETTI (come appaiono gli oggetti nel processo conoscitivo). Il rapporto tra i due lati, cioè tra forme e funzioni dà origine alla struttura della conoscenza. Questa struttura consiste in quattro gradi, che procedono in ordine crescente da quello più basso a quello più alto, suddivisi in gruppi di due: quelli inferiori riguardano la conoscenza sensibile, materiale, o DOXA, quelli superiori riguardano la conoscenza intellettuale, scientifica, o EPISTEME. I quattro gradi sono:

1) IMMAGINAZIONE o CONGETTURA (eikasìa) - è il grado più basso della conoscenza, e riguarda le OMBRE o riflessi prodotti dalle cose, che possono essere scambiati per le cose stesse inducendo una confusione, come se noi scambiassimo l’ombra di una persona per la persona stessa;
2) CREDENZA (pistis) - a differenza dell’immaginazione o congettura, che è un atto passivo, la credenza è un vero e proprio atto di fede, un assenso, che permette al soggetto di avere un’opinione cioè di conoscere le cose sensibili; non si tratta ancora di una conoscenza universale, valida per chiunque, ma di una conoscenza soggettiva, empirica (fondata sull’esperienza sensibile) e contingente (cioè concreta);
3) PENSIERO DISCORSIVO (dianoia) - è il terzo grado della conoscenza e rappresenta il primo dei due gradi superiori, quindi siamo nell’ambito della conoscenza razionale, precisamente delle relazioni, cioè la capacità del pensiero di stabilire dei collegamenti tra le cose e di cogliere quindi gli enti intelligibili come i numeri e le figure;
4) INTELLEZIONE (noesis) - è la funzione più alta e riguarda le idee quali forme pure della conoscenza, pertanto si tratta di una conoscenza immediata (INTUIZIONE INTELLETTUALE) priva cioè di qualsiasi mediazione dei sensi che potrebbe indurre all’errore, ma di una immediatezza diversa da quella percettiva; qui infatti assistiamo a una fusione completa tra l’oggetto e l’atto di comprendere e per questo si tratta di una conoscenza universale.

Questi gradi sono raffigurati allegoricamente da Platone nel cosiddetto mito della caverna. Qui la condizione umana viene raffigurata simbolicamente da uno schiavo, incatenato all’interno di una caverna, in penombra, al cui interno sono presenti solo un fuoco, alcuni oggetti e altri schiavi incatenati, come il protagonista, con lo sguardo rivolto verso il fondo buio. Il fuoco proietta sul fondo della caverna le ombre degli oggetti, che gli schiavi considerano come cose reali e che sono le uniche cose che essi possono cogliere. Lo schiavo protagonista del mito si libera dalle catene e allora può guardare direttamente dietro di lui e vede che dietro di lui ci sono gli altri schiavi e le cose. A questo punto però la conoscenza delle cose non gli basta più e cerca l’uscita dalla caverna per estendere la sua conoscenza alle cose che stanno all’esterno di essa: ma la luce del sole lo abbaglia e lo costringe a fermarsi. I suoi occhi però, nonostante gli anni di oscurità, si abituano alla luce e così egli potrà contemplare le cose che sono fuori della caverna, dapprima indirettamente, poi direttamente, volgendo anche lo sguardo, per breve tempo, verso il sole. Si possono quindi identificare i seguenti simboli:

le ombre: le forme proiettate sul fondo della caverna
le cose sensibili: gli oggetti dentro la caverna
le idee discorsive: cose fuori della caverna colte indirettamente
le idee intuitive: cose fuori della caverna colte direttamente
l’idea somma: il sole e la luce.

PLATONE - LEZIONE 25
L’idea: la sua esistenza, la sua forma logica e i suoi rapporti col mondo sensibile. Il Parmenide.

25.1 - Nei dialoghi fino ad ora presentati abbiamo ricostruito le condizioni soggettive della conoscenza: 1) i concetti a priori tramite la reminiscenza (anamnesi) e l’immortalità dell’anima; 2) la motivazione alla conoscenza  attraverso l’amore (eros); 3) la dimostrazione e l’intuizione attraverso i gradi della conoscenza che portano all’intellezione (noesis). Adesso passiamo alla definizione del vero oggetto della conoscenza, ossia l’idea. Le domande che si pone Platone sono: 1) in che modo le idee sono pensate? 2) in che modo esistono rispetto alle cose? 3) come sono fatte? e 4) qual è il loro rapporto con il cosmo e la sua generazione? Alle prime due domande risponde il Parmenide, dialogo della vecchiaia, forse il dialogo più complesso e difficile della letteratura platonica, che racconta dell’incontro - molto improbabile - avvenuto ad Atene, in occasione delle Grandi Panatenee, tra l’allora giovane Socrate e i due maestri della Scuola di Elea Parmenide e Zenone. La prima parte del dialogo si apre con una dichiarazione polemica di Zenone che condanna la molteplicità degli enti. Se gli enti fossero molteplici, afferma Zenone, sorgerebbero infinite contraddizioni, poiché di ogni ente si dovrebbe dire che al tempo stesso è uno e molteplice, simile e dissimile, e via dicendo. Socrate interviene, obiettando che i molti possono certamente esistere, se però "partecipano" di certe "unità" da cui prendono il nome (per esempio chiameremo simili tutte le cose che "partecipano" all'idea della somiglianza). Non ci si deve perciò stupire se molte cose sono simili tra loro, continua Socrate, anzi, ci si dovrebbe invece stupire quando non lo sono. Ma Parmenide obietta al giovane interlocutore che la sua teoria mostra alcune difficoltà, e la prima riguarda proprio la natura stessa delle idee: le idee sono concetti elevati, assiologici, relative quindi a grandezza, bene, uguaglianza, o possiamo riferirle anche a cose ordinarie, tipo acuq, uomo, fango, e così via? Socrate appare perplesso. Parmenide continua, esponendo tre obiezioni:
1) una cosa che partecipa di un'idea partecipa di tutta l'idea o di una sola parte di essa? Socrate risponde che come il giorno illumina diverse terre e come un lenzuolo copre diversi uomini, così anche l'idea copre diverse cose, dividendosi in più parti.
2) se tutte le cose grandi sono simili poiché partecipano all'idea di grandezza, allora dobbiamo pensare che le cose grandi hanno qualcosa in comune, oltre  che tra di loro, anche con la stessa idea di grandezza? Se così fosse, continua Parmenide, ci dovrebbe essere sempre una nuova idea di grandezza che comprenda la cosa e le varie idee di grandezza che si succederebbero, in un processo all'infinito. Socrate risponde prima che le idee esistono solo nei pensieri, poi che sono solo dei modelli fissi di cui le cose sono copia, ma non riesce a evitare il paradosso.
3) come facciamo a conoscere le idee se noi possiamo pensare, attraverso l'esperienza, il solo piano sensibile, mentre le idee hanno natura ontologica? Se così fosse nessuno potrebbe conoscerle, neanche gli stessi dei.
La seconda parte del dialogo comprende l'indagine ipotetica sull'uno. Parmenide infatti accerta che la dottrina delle idee presenta diverse difficoltà, non ultima quella di non poter essere mai conosciute dagli uomini, e per questo motivo egli chiama in causa la giovane età di Socrate e il suo scarso allenamento filosofico. A tale proposito delinea un metodo argomentativo, per ipotesi, che presenta per ogni argomento due ipotesi, appunto, una affermativa e una negativa, di cui valuta tutte le conseguenze, allo scopo di evidenziare l'ipotesi vera da quella falsa. A fare da cvia a questo metodo è il giovane Aristotele, da non confondere con il filosofo omonimo, brillante giovinetto che diventerà uno dei Trenta Tiranni ateniesi. Il dialogo fra Parmenide e Aristotele, in forma diretta, verte sulle diverse conseguenze dell'esistenza o della non esistenza dell'uno, senza però approdare a nessuna conclusione. La conclusione del dialogo è perciò aporetica, come già accaduto nel Teeteto, e non giunge a una soluzione definitiva. Vediamo di seguito di trovare una risposta al problema della natura delle idee rispondendo dapprima a queste tre domane:
le idee sono cose?
le idee sono pensieri?
le idee sono modelli?

La prima definizione che Platone tenta di dare della natura dell’idea è che l’idea sia un oggetto, una cosa. Il titolo del dialogo non è casuale, il nome di Parmenide è infatti legato alla dottrina dell’ISOMORFISMO, dottrina secondo cui essere e pensiero corrispondono. Il problema di Platone è quello di individuare la natura delle idee attraverso il chiarimento del loro rapporto con le cose. Viene dunque formulata l’ipotesi secondo cui le cose sono partecipi delle idee, come se queste ultime si distribuissero sugli oggetti  e sui fenomeni “come delle lenzuola”, dando loro l’essere, ossia la possibilità di esistere, e accordando anche i nomi alle cose. Questo aspetto però fa emergere alcuni problemi. Il primo problema a emergere è il paradosso della cosiddetta REIFICAZIONE delle idee (da res, cioè cosa) secondo cui noi usiamo nel linguaggio comune dei concetti che non hanno un valore veramente universale, poiché la loro esistenza dipende dal linguaggio. Da questo problema ne emergono altri due. Il secondo problema è il paradosso dell’idea divisibile, secondo cui l’idea dovrebbe appartenere interamente a una cosa altrimenti la sua essenza non potrebbe esserle attribuita. Il terzo problema, che poi Aristotele chiamerà argomento del terzo uomo, riguarda la difficoltà di mettere in relazione idee e cose sensibili, per la presenza sempre di una terza idea a cui fare riferimento, in un processo all’infinito. In sostanza, il problema della partecipazione delle cose alle idee implica un doppio canale: non solo le cose partecipano alle idee ma anche il contrario. Questo aspetto però compromette la conoscenza della natura delle idee stesse.

25.2 - Dunque le idee non sono delle cose superiori alle altre. Si potrebbe dire che sono allora dei pensieri, quindi solo oggetti immateriali, non reali, della mente, usati per identificare le cose. In questo caso possiamo dire che il nome, che usiamo per classificare le cose, è solo uno strumento utile, che serve appunto solo per comodità a questo scopo. Il problema di questa affermazione è che se noi consideriamo le idee come dei pensieri, cioè come dei contenuti mentali, significa che esse hanno un carattere soggettivo e non oggettivo, ossia hanno valore solo per chi le pensa, valore che decade ovviamente appena noi smettiamo di pensarle. In questo caso allora se io chiamo un oggetto con il nome che io penso, questo nome vale solo per me stesso e non per tutti gli altri uomini che entrano in contatto con lo stesso oggetto. Verrebbe quindi a mancare la denotazione, cioè la possibilità di definire una classe di oggetti con lo stesso nome. Inoltre, considerare le idee come dei semplici prodotti della mente pone altre difficoltà. Infatti non possiamo considerarle in sé stesse, slegate cioè come estranee agli oggetti, e neanche staccate dagli oggetti a cui partecipano: innanzitutto non si può pensare il pensiero, e poi si pensa sempre un oggetto reale. 

25.3 - Scartiamo quindi sia la possibilità della reificazione (le idee sono cose), sia della idealizzazione (le idee sono pensieri). Se non sono né cose né pensieri potremmo avanzare l’ipotesi che siano dei modelli fissi. a cui le cose si riferiscono, degli archetipi. Dunque le cose sono copie delle idee? Non possiamo affermarlo: infatti se una cosa fosse copia dell’idea dovrebbe essere uguale all’idea stessa e non vi sarebbe ragione di distinguerla da essa. Se così fosse ogni volta che metteremo in relazione una cosa e la sua idea di riferimento dovremmo sempre trovare una nuova idea a cui riferire entrambe, in un processo all’infinito. Queste tre difficoltà dipendono però soprattutto dalla natura dualistica della filosofia platonica, che divide idee e cose in due mondi separati. Questa divisione ci porta a pensare che se tra idee e cose non ci fosse una relazione sarebbe inutile cercarla, poichè la natura di esse apparterrebbe a questo o all’altro mondo.

25.4 - Le idee non sono cose, non sono pensieri, non sono modelli. A questo punto sembrerebbe confermata la tesi di Parmenide, secondo cui la molteplicità non esiste, e davanti a noi si presentano due strade, o scegliamo la molteplicità, i sensi e l’opinione, e quindi l’impossibilità di conoscere per davvero, poiché la pluralità ci condanna all’errore, oppure scegliamo l’unità, le idee, che la perfezione, però è talmente elevata da allontanarci dalle cose sensibili. Appare chiaro che tra i due mondi ci DEVE essere una relazione. Ma in quale rapporto stanno questi due mondi? Che relazione c’è tra unità e molteplicità? In questa seconda parte del dialogo Platone presenta nove ipotesi, che riguardano la relazione fra uno e molti, e che sono in pratica una successiva articolazione delle tre possibili  relazioni tra uno e molti:
relazione tra uno e uno (tra uno e sé stesso)
relazione tra uno ed essere
relazione tra uno ed essere e non essere
La prima relazione mette l’uno in rapporto con sé stesso, e non può avere un carattere risolutivo poiché rende l’uno inconoscibile. A questa ipotesi, sterile, segue la seconda, più produttiva, che mette in relazione l’uno con l’essere. Questa ipotesi è feconda e produttiva perché l’unità non è più staccata dal molteplice, che anzi accoglie, permettendo il divenire (la generazione). La terza ipotesi è quella più perfetta, poichè introduce il tempo, ossia il momento in cui una cosa diventa un’altra cosa, assumendo il passaggio da ciò che era a ciò che è diventato un oggetto, e superando qui il non essere parmenideo, che non esisteva e non poteva essere pensato.

25.5 - L’argomentazione delle nove ipotesi conduce Platone a una soluzione, quella di considerare le idee in modo UNIVOCO sul piano ONTOLOGICO, , in cui tutto l’essere è riconducibile all’unità, e in modo EQUIVOCO sul piano LOGICO in cui l’essere si “frammenta” in essenza ed esistenza. L’idea platonica non ha infatti a che fare con il semplice aspetto formale, ma bensì è una vera e propria STRUTTURA, presente sia sul piano formale come eidos, cioè immagine, sia sul piano logico come idein, cioè funzione del pensiero. L’idea rappresenta dunque l’essenza di più cose simili tra loro, e allo stesso tempo esiste: quindi va considerata su due piani, quello univoco, in quanto cosa in sé e non conoscibile nella sua stessa essenza - piano ontologico - e quello equivoco della molteplicità, in cui svolge la funzione di raccordo - piano logico - tra più cose accomunate dalla medesima essenza. Per esempio: tutte le sedie - esistenti sul piano logico - sono accomunate dalla stessa essenza di sedia, cioè possono essere pensate come sedie, in base all’idea di sedia che “in sé stessa” - cioè sul piano ontologico - non può essere conosciuta. Quindi l’idea è non solo la rappresentazione di una certa cosa particolare, ma anche la rappresentazione di molte altre cose simili. La soluzione del dialogo è una conclusione ancora una volta aporetica, in quanto Platone chiarisce che non esiste una simmetria tra i due piani e quindi va a caolpire quell’identità di essere e pensiero che caratterizzava l’isomorfismo parmenideo: ma in questo modo non si svolge un corretto processo logico, che non potrebbe andare oltre i limiti del ragionamento per analogia, in cui i due termini modali di necessità e contingenza si sostituiscono ai concetti di universalità e particolarità, poiché lo stesso Platone chiude la possibilità di cogliere l’idea in sé stessa.

PLATONE - LEZIONE 26
La grammatica del pensiero come grammatica dell’essere
Il Sofista, il Politico e il Filebo

26.1 - Nella seconda parte del Parmenide la seconda delle tre ipotesi, quella riguardante il rapporto tra uno ed ente, permette all’unità di accogliere la molteplicità, la diversità e il divenire; inoltre lo stesso dialogo evidenzia che il senso dell’essere è univoco ma non assoluto, poiché esistono tante idee a cui le cose partecipano in gradi diversi. Nel Sofista Platone rende esplicita la molteplicità delle idee attraverso il concetto di COMUNANZA o KOINONIA, allo scopo di giustificare la molteplicità delle idee, valutandone gli effetti sulla molteplicità del reale, e valutarne i criteri di esclusione e di inclusione. Si tratta del superamento di una certa logica arcaica, che voleva il vero associato all’essere e il falso al non essere. Una simile divisione era impossibile poiché in questo modo il Sofista, protagonista del dialogo, colui che per professione diffonde il falso, non avrebbe potuto dire nulla e di questo nulla non si sarebbe potuto nemmeno parlare. Il dialogo, prosecuzione del Teeteto,  ha un carattere fortemente evocativo e ruota intorno a una figura misteriosa, lo Straniero di Elea, di cui si cerca di rivelare l’identità. La struttura logica del prologo del dialogo manifesta in modo esplicito la natura del problema: prima di definire chi è il Sofista occorre definire chi egli non è, violando il principio parmenideo dell’impossibilità dell’esistenza del non essere, sanando quindi le conclusioni aporetiche dei dialoghi precedenti. Le idee sono tra loro in rapporti diversi, fino a giungere a quelle cinque idee  più elevate e generali che Platone chiama i GENERI SOMMI: essere, identico, diverso, quiete, movimento. La gerarchia di questi generi è la seguente: al primo posto c’è l’essere, condizione di ogni esistenza, seguito dai generi di identico e diverso, in quanto ogni cosa si riconosce identica a sé stessa e diversa da tutte le altre; chiudono i due generi detti categorici, che non possono coesistere, in quanto la coesistenza di quiete e movimento genera contraddizione. I generi di identità e diversità sono logicamente co-originari all’essere stesso in quanto i due generi, pur dipendendo dall’essere, possono essere  ad esso attribuiti. Dire che una cosa è identica a sé stessa - ovvero determinandola - e diversa dalle altre - ossia distinguendola - rappresenta la vera condanna a morte della filosofia eleatica, poiché si ammette che una cosa è (la cosa stessa) e non è (un’altra cosa). Il principio della diversità  (questa cosa non è quella cosa) permette a Platone non solo di risolvere il problema del giudizio falso contrastando la Sofistica, ma di sostenere l’intera struttura logica della conoscenza, poiché solo attraverso il falso e l’errore si giunge al vero, che se fosse dato immediatamente apparirebbe dogmatico e privo di una efficace struttura dialettica a suo fondamento. Se confrontiamo direttamente due giudizi, uno vero e uno falso, per esempio “Mario parla” e “Mario è zitto”, appare chiaro che dobbiamo dare ragione ai filosofi di Elea, in quanto un giudizio falso e negativo equivale a qualcosa che non esiste. Ma se introduciamo il concetto di diversità le cose cambiano e il giudizio falso esprime qualcosa di diverso dal vero ossia di non fedele alla realtà. A fare da mediatore tra vero e falso è l’idea, che è sempre vera (idea di parlare, idea di silenzio): l’errore e quindi la falsità del giudizio scaturisce da una applicazione di due idee incompatibili allo stesso oggetto. In che modo evitare l’errore? Attraverso la DIALETTICA, l’arte che consente di cogliere le articolazioni ammissibili delle idee e le loro giuste relazioni, evitando di cadere nella contraddizione e nell’incompatibilità.

26.2 - Il parricidio di Parmenide, come viene chiamato il superamento del concetto eleatico di non essere, non si ferma al solo principio della diversità: nella relazione tra idee e cose esistono diversi gradi di collegamento, che ci permettono di identificare un determinato oggetto. Platone osserva dunque che ogni cosa è una IMITAZIONE dell’idea e più o meno la rispecchia. In tal senso il VALORE della relazione rappresenta l’esistenza di una cosa: se una cosa A imita più o meno un’idea A, diremo che la cosa A esiste in proporzione al grado di imitazione dell’idea corrispondente che funge da esemplare. Quanto più un oggetto è imitazione dell’originale quanto più esso esiste. A fare da criterio di misurazione è ovviamente l’idea più alta di tutte, ossia l’idea del BENE  o idea somma, a cui si coordina l’idea del BELLO, una ordina la giustezza e l’altra la perfetta interazione armonica, la loro unione - già citata nel Simposio -  viene detta kalokagathia. L’intersezione tra questi due piani e la rete di collegamenti e relazioni che ne deriva, ha bisogno del metodo dialettico per essere individuata, metodo di cui Platone dà una dimostrazione sia nel Sofista sia nel Politico. Si tratta di un procedimento di tipo discorsivo che sottopone il ragionamento a una serie di biforcazioni diversamente intrecciate. La dialettica platonica non si fonda, come nel caso della dialettica aristotelica, sull’uso delle categorie, ma assimila le idee a criteri valutativi, perciò essa può fungere solo da strumento ausiliario dell’intuizione, che deve sempre intervenire nella scelta della direzione da assegnare al ragionamento.     Il percorso dialettico si ramifica in due direzioni, una di tipo SINTETICO, ossia di riunione, che accorpa le cose più o meno uguali a una stessa idea, e l’altra di tipo ANALITICO, ossia di divisione, che separa di fatto l’idea tra le specie ad essa assimilabili. Questo procedimento caratterizza il percorso dialettico come una struttura DIADICA (cioè a due vie) con due importanti carateristiche: la prima è che si tratta di una STRUTTURA APERTA ossia il processo non giunge mai a una soluzione definitiva nella sintesi, la seconda è che pur appartenendo a un mondo diverso da quello sensibile le idee possono avere un significato solo attraverso il loro uso nell’intuizione del concreto di un’esperienza sensibile. Le idee non sono dunque degli elementi astratti ma costituiscono al tempo stesso oggetto e metodo, ossia fungono da criterio di valutazione e allo stesso tempo da direzione da seguire.

26.3 - L’ontologia, il discorso sull’essere, è garantito dalla presenza dei cinque generi sommi dell’essere di cui Platone parla nel Sofista: non si tratta di idee ma di strutture a priori, ossia elementi che devono venire necessariamente prima dell’esperienza per renderla possibile (se non ci fosse l’essere non potrebbero esserci altre implicazioni dell’esistenza, come la diversità e l’identità, la quiete o il movimento). A questi cinque generi Platone aggiunge nel Filebo quattro principi, con lo scopo di estendere il rapporto analogico tra le idee presentato nel Sofista al rapporto esistente tra i due mondi, tenendo conto della differenza tra di essi. La struttura logica del Filebo è diversa da quella del Sofista: qui avevamo l’esplicitazione della seconda ipotesi del Parmenide schematizzabile in due prospettive, una orizzontale, ascrivibile alle relazioni tra le idee e una verticale, ascrivibile ai rapporti tra i due mondi, mentre il Filebo fa riferimento alla terza ipotesi del Parmenide, e riguarda la relazione tra i due mondi. Tema del Filebo sono i piaceri e il concetto su come sia possibile limitarli per evitare che gli uomini si riducano come animali. Il concetto di MISURA può essere ricercato nell’essere, ricorrendo alle nozioni pitagoriche di LIMITE  e ILLIMITATO, che Platone trasforma in principi dell’essere.Vengono dunque individuati quattro principi costitutivi:
1 - il LIMITE, che corrisponde all’identico;
l2 - ’ILLIMITATO, che corrisponde al diverso;
3 - la CAUSA, che fa da mediatore tra identico e diverso;
4 - il MISTO, che è il prodotto di questa unione e corrisponde alla MISURA.
Sullo stesso piano dell’illimitato ideale Platone individua anche un quinto elemento, l’illimitato sensibile, corrispondente alla varietà e diversità della materia. A separare i due mondi è infatti il carattere della misura: nel mondo delle idee è presente una giusta misura ideale di tipo qualitativo, nel mondo sensibile è presente una misura relativa di tipo quantitativo. La differenza tra materia e misura ideale e materia e misura relativa allontana evidentemente in modo ulteriore i due mondi, quindi, per sanare questa separazione, occorre rivolgersi al Timeo. 

PLATONE - LEZIONE 27
Lo stato giusto, la cosmogonia e il problema del divino
La Repubblica (libri III e IV) e il Timeo

27.1 - La tripartizione dell’anima descritta nel mito dell’auriga non è una vera e propria divisione, infatti, se così fosse, l’anima sarebbe corruttibile, smentendo il terzo argomento a sostegno dell’immortalità (Fedone). Platone descrive queste tre anime come delle funzioni, simili alle diverse funzioni del corpo umano, che, pur essendo unico, muove le mani o la testa anche stando fermo: non è quindi tutto il corpo a muoversi, ma solo una delle sue parti. Ma, così come l’uomo non può compiere gesti contraddittori tra di loro, anche l’anima, nella sua unicità, non può avere funzioni - che Platone chiama PRINCIPI - opposte tra di loro. Questo aspetto rientra nella parte finale del quarto libro de La Repubblica, in cui Platone presenta il punto di raccordo tra psicologia e antropologia da un lato e psicologia e cosmologia dall’altro, attraverso la tesi socratica della coincidenza del significato politico e morale della vita dell’individuo e del cittadino. Platone, così come Socrate, affida all’indagine filosofica il compito di delineare la giusta condotta dell’uomo. La filosofia ha infatti un compito assolutamente pratico e questo significa che teorico e pratico coincidono e anche che la visione platonica dell’uomo è di natura pubblica, eredità della sua esperienza siracusana, visione che già emergeva nel Simposio a proposito del concetto di bellezza. Il privato riguarda solo la necessità di soddisfare i bisogni materiali dell’essere umano, il lavoro, la famiglia, gli affetti, ma è nella sfera pubblica che l’uomo realizza la libertà e la felicità: perciò Platone definisce l’uomo un animale politico. Di qui la condanna inevitabile del carattere individualista dato alla politica da alcuni Sofisti minori, tra cui Trasimaco, che ritenevano la politica solo come utilità, come realizzazione degli interessi personali: ma se così fosse non avrebbe senso parlare di politica. Platone ritiene che il politico sia come un artigiano che sa fare bene il suo mestiere: la sua bravura non consiste nel profitto che ricaverà ma dalla bontà del suo prodotto. E il compito del politico è quello di “fare la giustizia” nella sua comunità.
Platone delinea uno stato ideale simile a un grande organismo vivente, in cui ogni individuo non può bastare a sé stesso. La giustizia è data dall’armonia tra le sue componenti, ognuna delle quali esercita una funzione in base alle sue attitudini, alle sue competenze, ai suoi bisogni. La competenza è fondamentale: il sapere non è qualcosa di individuale ma viene messo al servizio della comunità. Il macrocosmo sociale dello stato si allinea perciò al microcosmo psico-biologico dell’anima individuale. In base alla tripartizione delle funzioni dell’anima avremo tre classi sociali: quella dei GOVERNANTI, in cui prevale l’anima razionale, che ha il compito di guidare la comunità; quella dei GUERRIERI,  in cui prevale l’anima irascibile, dotati di coraggio e di ardimento, che ha il compito di difendere e di proteggere la comunità; e infine quella dei LAVORATORI, ossia artigiani e commercianti, in cui prevale l’anima concupscibile o appetitiva, che ha il compito di produrre i mezzi di sussistenza per la comunità. Platone non assegna all’economia un valore etico-politico, in quanto l’arte di sopravvivere non è una virtù ma solo una necessità. Nello stato ideale platonico l’aspetto culturale e quello conoscitivo costituiscono la fonte primaria dell’armonia tra le diverse componenti, infatti gli stessi governanti devono possedere le conoscenza più alte, necessarie al governo della comunità, di cui la filosofia è ovviamente portatrice.
Accanto alla teoria dello stato ideale Platone delinea una teoria della società, spesso semplicisticamente definita dalla più recente critica filosofica come COMUNISMO PLATONICO. Si tratta di una definizione impropria, sopratutto per l’abissale differenza con il comunismo politico nato col pensiero di Marx: in Marx infatti il lavoro era considerato uno strumento di emancipazione della classe operaia, mentre nella teoria platonica della società la classe dei lavoratori non solo è la più bassa ma il produrre mezzi di sussistenza per la comunità costituisce per Platone un fatto privato, in cui il lavoro non ha alcun significato etico-politico. Nella teoria della società disegnata da Platone la proprietà privata spetta solo alla classe dei lavoratori, mentre i guerrieri ed i governanti sono obbligati a una comunione delle proprie risorse, delle donne e dei figli. L’educazione è pubblica e inizia subito dopo la nascita, a cura dello stato stesso: musica e ginnastica sono materie di studio obbligatorie per tutti i cittadini, mentre i cosiddetti guardiani della comunità, cioè i guerrieri, devono conoscere anche la matematica, l’astronomia e la filosofia. Le cosiddette arti imitative sono bandite se intese come una copia della copia, ossia riproduzione della realtà che è già di suo una copia delle idee, ma sono ammesse se il loro scopo è quello di incoraggiare l’esercizio e predisporre la conoscenza. Inoltre i vari aspetti della vita civile come il matrimonio e la procreazione sono regolati dallo stato, che si incarica anche di ridistribuire le ricchezze per evitare un’eccessiva distanza tra ricchi e poveri nella classe dei lavoratori, altrimenti causa di disarmonia e squilibrio. 

27.2 - La dimensione politico-sociale trova una netta corrispondenza nella costituzione della cosmologia, come si nota dalle seguenti relazioni:
anima - cosmo individuale - psicologia
città - cosmo intersoggettivo - politica
universo - cosmo fisico - cosmologia
Nel Timeo Platone spiega, in maniera epica, la nascita dell’universo fisico, cioè il mondo della sensibilità. A formare il mondo delle cose è il DEMIURGO, che, guardando alle idee e sopratutto all’idea somma, quella del bene, forma dapprima l’ANIMA DEL MONDO e poi il CORPO DEL MONDO, costituito dai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco). Dall’anima e dal corpo del mondo nascono le anime e i corpi degli esseri viventi. Questi ultimi sono in continuo divenire, a causa del MOVIMENTO  dei quattro elementi in modo proporzionale, e per regolare il processo di trasformazione viene creato il TEMPO - che Platone definisce immagine mobile dell’eternità poiché è riflesso del mondo delle idee dove tutto è eterno e immobile - quale ordine perfetto del moto circolare di tutte le cose celesti e quale ordine imperfetto del moto irregolare di tutte le cose terrestri. 
La natura dei quattro elementi che formano i corpi è geometrico-matematica, e si sviluppa in una dimensione PIANA e BIDIMENSIONALE corrispondente alla superficie, e in una SOLIDA e TRIDIMENSIONALE, corrispondente alla profondità, attraverso la figura regolare e perfetta del TRIANGOLO. Dalla combinazione di diversi triangoli si generano le FORME STEREOMETRICHE REGOLARI: il tetraedro o piramide (fuoco), il cubo (terra), l’ottaedro (aria) e l’icosaedro (acqua). Il quinto poliedro regolare, il dodecaedro, è la figura più perfetta perché la più vicina a quella della SFERA e raffigura l’immagine del cosmo intero, immagine che poi verrà assimilata alla QUINTESSENZA.
Il Timeo è  l’opera di Platone più vicina al pensiero cristiano e in generale alle dottrine religiose creazioniste, in quanto la cosmogonia platonica divide il creatore dalle cose create, diversamente dalle concezioni panteiste in cui Dio viene fatto coincidere con le cose create. Occorre però definire alcuni aspetti importanti della cosmogonia platonica. In primo luogo il demiurgo non crea dal nulla.: le idee, la materia, lo stesso concetto di bene, sono preesistenti alla creazione. Il demiurgo è quindi una specie di formatore, o di plasmatore della materia, sulla base delle idee. La materia non va intesa in un senso realistico e negativo, ma come la potenzialità del divenire, il ricettacolo che accoglie le forme perfette delle idee per farne cose sensibili. Essa non può essere definita oggettivamente, ma colta solo attraverso il ragionamento. Il demiurgo non crea con un atto necessario, causale o meccanico, ma per sua libera scelta, come atto d’amore, il cui fine ultimo è il bene. Egli crea il migliore dei mondi possibili, contemplando la purezza dell’essere del mondo delle idee, da cui deriva la forma degli animali visibili, ossia i corpi celesti, e degli animali sensibili, ossia il mondo delle cose, secondo la proporzione geometrica 8:12=18:27, dove i numeri estremi 8 e 27 sono i più piccoli numeri solidi (2 al cubo e 3 al cubo). Si tratta di una concezione geometrica continua, in cui l’identità dei rapporti corrisponde alla diversità progressiva dei termini (8:12=12:18=18:27). Pur avendo i due mondi natura diversa esiste tra di essi una similitudine nei rapporti geometrici, con una analogia trascendentale.

27.3 - Secondo un’interpretazione delle dottrine non scritte di Platone le idee avrebbero una struttura affine a quella dei numeri e si fonda su due principi, l’UNITA’ corrispondente al bene, al limite, all’identico e la DIADE INDEFINITA corrispondente al male, all’illimitato, al diverso. Questa particolare interpretazione matematica del pensiero platonico allontana il pensiero del filosofo dai contenuto programmatico del suo corpus dottrinale, trasformando la filosofia platonica in una scienza logico-deduttiva, schiacciata sulle filosofie successive.