mercoledì 13 aprile 2016

24 - Platone

PLATONE - LEZIONE 24
L’allegoria della caverna e i gradi della conoscenza
Il Teeteto e la Repubblica (Libri VI e VII)

24.1 - Dopo aver evidenziato, nel Menone e nel Simposio, le condizioni soggettive della conoscenza, è necessario valutare se esse sono sufficienti a determinare un oggetto, e individuarne l’estensione e i limiti. Platone espone il contenuto di questa analisi nel Teeteto, dialogo dal vigore drammatico, ma che allo stesso tempo rivela il carattere di un vero saggio sistematico. Questo dialogo, del periodo della vecchiaia, è dichiaratamente anti-soggettivista e anti-sofistico: la sua asserzione fondamentale è che non può esserci scienza senza l’essere, opponendosi alla ben nota teoria sofistica che anteponeva la conoscenza sensibile a quella universale dell’idea. Il contenuto del dialogo rimanda, nella sua conclusione, al Sofista (e da qui poi al Politico), ed è idealmente anticipato dal Parmenide. Si può notare come, tranne poche modifiche, i personaggi restano gli stessi, rendendo la trilogia ben riconoscibile nel corpus platonico. La trama del dialogo prende le mosse da una serie di incontri, quello tra Teeteto, giovane matematico ateniese, ammalatosi durante la battaglia di Corinto, ed Euclide, e quello successivo tra lo stesso Euclide e Trespione, al quale Euclide cerca di raccontare i particolari di un incontro tra Teeteto, allora promettente allievo del matematico Teodoro, e l’anziano Socrate. Euclide non ricorda i dettagli dell’incontro, ma ha conservato degli appunti su cui ha riportato il processo verbale della conversazione. Il diciassettenne Teeteto viene presentato a Socrate dal suo maestro Teodoro di CIrene, che ne elogia le straordinarie doti di ragionamento. Socrate allora cerca di mettere alla prova il ragazzo chiedendogli cosa sia la conoscenza. Il ragazzo risponde che la conoscenza è la sensazione. 
Socrate si rende conto dell’insostenibilità della sua dichiarazione ma si accorge anche che il giovane è “gravido” e che vale la pena utilizzare il metodo maieutico. Dopo una critica al relativismo sofistico e alla dottrina eraclitea Socrate guida dunque Teeteto verso una definizione più adeguata di scienza, ottenendo altre due risposte: a) la scienza è l’opinione vera e b) la scienza è l’opinione vera di cui si sa rendere ragione. L’esito del dialogo è però APORETICO (si chiama APORIA l’impossibilità di dare una risposta certa per la presenza di due soluzioni, entrambe, sebbene opposte, apparentemente valide allo stesso tempo). Platone offre al lettore una minuta descrizione della cosiddetta “arte levatrice” usata dal suo maestro, mettendo in luce l’abilità del filosofo di riconoscere “lo stadio della gravidanza e le condizioni di salute del feto” come era solita fare Fenarete, la madre di Socrate, che svolgeva appunto il mestiere di ostetrica. Allo stesso modo di una levatrice il filosofo è in grado di riconoscere se il suo interlocutore è “gravido” ossia se nella sua mente sono presenti pensieri reali o solo fantasmi; qualora lo fosse, il filosofo userà la techne maietuica per farlo partorire, ossia per far pervenire l’interlocutore ad una definizione adeguata e universalmente coerente. A tal proposito Socrate rivolge a Teeteto la domanda “che cosa è la scienza?” ottenendo come risposta, dopo una serie di excursus di natura matematica, “la sensazione”. Questa risposta offre a Socrate lo spunto per una critica dell’eraclitismo e del relativismo che ha come obiettivo dimostrare la stabilità del vero mediante l’essere, inteso come universale, e l’anima, che ha facoltà di dare un giudizio sulle cose. Ma nonostante la discussione si sia evoluta arrivando a due ulteriori affermazioni (scienza è opinione vera secondo ragione), il dialogo è destinato a chiudersi nell’aporeticità a causa dell’ambivalenza della parola logos (cioè pensiero, discorso, analisi) che conduce comunque a una doxa, una opinione, rendendo impossibile il raggiungimento di una soluzione unitaria. Socrate conclude anzitempo il discorso, che riprende nel Sofista, poiché deve recarsi in tribunale per rispondere delle accuse di empietà rivoltegli da Meleto.
Platone nel dialogo afferma che non basta il possesso di un sapere causale stabile ben formulato nella nostra anima per parlare di conoscenza. E non basta nemmeno desiderare di raggiungere questo sapere. Occorre invece mettere alla prova le capacità dell’anima, per valutare quale sia la più adatta a raggiungere questo scopo. A prima vista si direbbe che la capacità più adatta sia la AISTHESIS, che ha un doppio significato in italiano, quello di SENSAZIONE, intesa come semplice risposta sensoriale a uno o più stimoli esterni, e quello di PERCEZIONE, intesa come apprensione dei fenomeni colti dai sensi, che necessita rispetto alla sensazione di un’attivazione da parte del soggetto, come di una coscienza elementare. Platone parte dunque dalla percezione sensibile, e qui ritroviamo il relativismo protagoreo secondo cui la conoscenza equivale all’opinione sensibile. Se ci sono i sensi, allora c’è oggettività, e quindi realtà. Secondo Protagora di Abdera la conoscenza è vera se supportata dalla percezione sensibile. Ma questa affermazione, ci dice Platone, non ha nulla a che vedere con l’episteme, ossia la conoscenza razionale, poiché non ha un carattere di universalità. Il singolo, nella sua individualità, è assolutamente libero di conoscere il proprio mondo privatamente, secondo le proprie regole e condizioni. Ma anche questa conoscenza alla fine risulta inaccettabile e per questo motivo Platone cerca di costruire una propria teoria della percezione basandosi sul pensiero di Empedocle e di Etraclito. I fenomeni percettivi sono in realtà degli eventi che accadono come conseguenza di due MOVIMENTI, uno passivo ed esterno e l’altro psichico e interno. La percezione sensibile, secondo Platone, ha infatti un carattere intenzionale, e si svolge in funzione di due variabili, organismo e ambiente esterno: qualsiasi modifica a una delle due variabili causa una differenza di percezione, per esempio due individui possono sentire il freddo o il caldo in maniera diversa. Per questo motivo la percezione sensibile ha sempre un carattere privato e assolutamente individuale. A differenza di Protagora Platone ritiene che percepire un oggetto non significa per forza conoscerlo. Percezione e oggettività non sono infatti allineate, poiché l’oggettività implica la COMPRENSIONE DEL SIGNIFICATO, che non ha nulla a che vedere con la sensibilità. I sensi sono semplicemente degli strumenti di cui l’anima si serve per percepire, ma non sono autonomi. Questa conclusione porta Platone ad affermare che la conoscenza non può dunque basarsi sulla sensibilità ma sulla RIFLESSIONE. Passando a un livello superiore, quello dell’OPINIONE VERA, le cose non cambiano. Infatti l’opinione è un giudizio, un atto del pensiero, che per quanto vero o falso non può essere mai confortato dalla certezza razionale: se due persone si trovano a un bivio e devono scegliere quale delle due strade percorrere, esprimeranno un giudizio, sulla brevità del percorso, che motiverà la loro scelta, così uno prenderà la strada A e l’altro la strada B; questo giudizio risulterà vero in un caso e falso nell’altro ma nessuno dei due può saperlo con certezza se non al termine del percorso. Come si ricorderà anche nel Menone Platone aveva chiarito che accettare un’opinione, per quanto vera, non significa dare all’opinione un carattere di validità: Platone distingueva molto chiaramente tra episteme e doxa alethés. 
Allo stesso modo un presunto colpevole viene giudicato in tribunale e spetta agli avvocati dimostrarne l’innocenza, e alla pubblica accusa dimostrarne l’eventuale colpevolezza: in entrambi i casi un giudice e una giuria non possono sapere, a meno che non venisse validamente dimostrata la flagranza del reato, se l’accusato è veramente colpevole. E qui abbiamo la svolta del dialogo: alla terza domanda rivoltagli da Socrate, il giovane Teeteto risponde che la scienza è l’opinione vera secondo ragione. In apparenza questa conclusione potrebbe apparire definitiva ma così non è. La ragione infatti può - tramite prove adeguate - dare validità all’opinione, nel senso che una corretta dimostrazione GIUSTIFICA l’opinione, ma nello stesso tempo non pul dare a questa opinione un carattere di universalità poiché non può dimostrare che le premesse del ragionamento sono veritiere. In tribunale un accusato potrebbe anche vedersi dimostrare la propria innocenza nonostante egli sia colpevole, basta che abbia dei bravi avvocati e delle prove utili a suo vantaggio. Viceversa un innocente potrebbe anche essere condannato per gli stessi motivi. L’impossibilità di una validazione certa delle opinioni è la causa della conclusione aporetica del dialogo, confinando la conoscenza nell’ambito della soggettività fino a quando non verrà dimostrato un rapporto diretto tra l’anima e gli oggetti.

24.2 - Il dibattito tra Socrate e Teeteto proseguirà nel Sofista, ma la rappresentazione del rapporto tra la conoscenza e i suoi oggetti viene rappresentato, mediante immagini, nella Repubblica, attraverso due esempi: la metafora della linea e l’allegoria della caverna. In questi due esempi il modello percettivo viene svuotato del carattere empirico per assolvere la funzione di presentare in modo organico e unitario le relazioni tra gli oggetti, assumendo una funzione simbolica. Platone ha già chiarito, nel Menone e nel  Teeteto, che non basta la presenza di un sapere causa ben strutturato nella nostra anima o il voler arrivare a questo sapere per parlare di conoscenza: sono necessarie delle capacità, che non si danno immediatamente all’uomo ma che sono frutto di un costante esercizio, che ha come traguardo l’innalzamento della conoscenza dai gradi più bassi a quello superiore. Platone raffigura questo percorso disegnando una linea verticale, tagliata da quattro segmenti, che separa due zone: a destra abbiamo le FUNZIONI DELLA CONOSCENZA (ossia come la conoscenza si presenta nei soggetti) mentre a sinistra abbiamo le FORME DEGLI OGGETTI (come appaiono gli oggetti nel processo conoscitivo). Il rapporto tra i due lati, cioè tra forme e funzioni dà origine alla struttura della conoscenza. Questa struttura consiste in quattro gradi, che procedono in ordine crescente da quello più basso a quello più alto, suddivisi in gruppi di due: quelli inferiori riguardano la conoscenza sensibile, materiale, o DOXA, quelli superiori riguardano la conoscenza intellettuale, scientifica, o EPISTEME. I quattro gradi sono:

1) IMMAGINAZIONE o CONGETTURA (eikasìa) - è il grado più basso della conoscenza, e riguarda le OMBRE o riflessi prodotti dalle cose, che possono essere scambiati per le cose stesse inducendo una confusione, come se noi scambiassimo l’ombra di una persona per la persona stessa;
2) CREDENZA (pistis) - a differenza dell’immaginazione o congettura, che è un atto passivo, la credenza è un vero e proprio atto di fede, un assenso, che permette al soggetto di avere un’opinione cioè di conoscere le cose sensibili; non si tratta ancora di una conoscenza universale, valida per chiunque, ma di una conoscenza soggettiva, empirica (fondata sull’esperienza sensibile) e contingente (cioè concreta);
3) PENSIERO DISCORSIVO (dianoia) - è il terzo grado della conoscenza e rappresenta il primo dei due gradi superiori, quindi siamo nell’ambito della conoscenza razionale, precisamente delle relazioni, cioè la capacità del pensiero di stabilire dei collegamenti tra le cose e di cogliere quindi gli enti intelligibili come i numeri e le figure;
4) INTELLEZIONE (noesis) - è la funzione più alta e riguarda le idee quali forme pure della conoscenza, pertanto si tratta di una conoscenza immediata (INTUIZIONE INTELLETTUALE) priva cioè di qualsiasi mediazione dei sensi che potrebbe indurre all’errore, ma di una immediatezza diversa da quella percettiva; qui infatti assistiamo a una fusione completa tra l’oggetto e l’atto di comprendere e per questo si tratta di una conoscenza universale.

Questi gradi sono raffigurati allegoricamente da Platone nel cosiddetto mito della caverna. Qui la condizione umana viene raffigurata simbolicamente da uno schiavo, incatenato all’interno di una caverna, in penombra, al cui interno sono presenti solo un fuoco, alcuni oggetti e altri schiavi incatenati, come il protagonista, con lo sguardo rivolto verso il fondo buio. Il fuoco proietta sul fondo della caverna le ombre degli oggetti, che gli schiavi considerano come cose reali e che sono le uniche cose che essi possono cogliere. Lo schiavo protagonista del mito si libera dalle catene e allora può guardare direttamente dietro di lui e vede che dietro di lui ci sono gli altri schiavi e le cose. A questo punto però la conoscenza delle cose non gli basta più e cerca l’uscita dalla caverna per estendere la sua conoscenza alle cose che stanno all’esterno di essa: ma la luce del sole lo abbaglia e lo costringe a fermarsi. I suoi occhi però, nonostante gli anni di oscurità, si abituano alla luce e così egli potrà contemplare le cose che sono fuori della caverna, dapprima indirettamente, poi direttamente, volgendo anche lo sguardo, per breve tempo, verso il sole. Si possono quindi identificare i seguenti simboli:

le ombre: le forme proiettate sul fondo della caverna
le cose sensibili: gli oggetti dentro la caverna
le idee discorsive: cose fuori della caverna colte indirettamente
le idee intuitive: cose fuori della caverna colte direttamente
l’idea somma: il sole e la luce