sabato 16 aprile 2016

21 - Platone

PLATONE - LEZIONE 21
La conoscenza come ricerca assoluta
Il Menone

21.1 - Nel Carmide Platone mette in evidenza l'aspetto dell'intenzionalità della conoscenza, intesa come direzione del conoscere dal soggetto all'oggetto, avvertendo che questo meccanismo non è un processo naturale e immediato, ma nasce dall'esercizio di un'attività ben precisa che ruota intorno all'oggetto che si vuole conoscere. Soggetto e oggetto non sono la stessa cosa, ma sono ben distinti tra loro, tra essi non esiste un'identità, ma un rapporto. Nel Menone Platone si domanda essenzialmente come si fa a sapere se la direzione di questa attività è giusta. Per conoscere un oggetto è necessario prima di tutto che ciò che conosciamo sia realmente ciò che noi vogliamo conoscere e non un'altra cosa e in secondo luogo è necessario che ciò che vogliamo conoscere sia stabile e permanente. L'elemento che ci consente una conoscenza stabile delle cose è la loro DEFINIZIONE, elemento che già si trova nella filosofia di Socrate e che permette di ridurre le cose alla loro essenza. Platone fa derivare dalla matematica pitagorica il concetto di FORMA IDENTICA (eidos) e usa il concetto di ESSENZA (ousia) per indicare la forma regolare, ciò che non cambia in nessun caso: più elementi condividono la stessa realtà oggettiva e sono contraddistinti da un predicato comune che li rappresenta. Ma questa proceduta conoscitiva può essere attribuita solo alle cose e non al soggetto che le conosce che, essendo pensiero e attività, sfuggirebbe quindi a qualsiasi accezione definitoria. È proprio tale impossibilità a consentire a Platone di superare il cosiddetto argomento eristico dei sofisti, secondo cui ogni conoscenza è vana poiché non si può conoscere ciò che già si conosce e, riguardo ciò che non si sa, è superfluo porsi il problema della conoscenza.  Infatti il sofista accoglie come conoscibile solo l'ente già compiuto e definito, rifiutando di coglierne il divenire e fermando dunque la propria ricerca all'atto. La relazione conoscitiva è un processo dinamico che legittima, nell'essenza della coscienza, il significato delle cose. L'elemento che conferisce stabilità e permanenza agli oggetti della coscienza è la MEMORIA. Il ricordare è l'essenza stessa della coscienza, è l'elemento che conferisce identità ai suoi elementi. Il sapere (episteme) è un imparare (mathesis) a ricordare e la sua essenza è il ricordo (anamnesis). All'argomento eristico dei Sofisti Platone oppone dunque la teoria della reminiscenza: conoscere è ricordare. Sarebbe però molto riduttivo identificare la memoria come un semplice strumento chiarificatore che trasporta un oggetto da uno spazio scuro a uno spazio chiaro in cui si manifesta. Per Platone il ricordare significa non tanto recuperare un oggetto della memoria quanto fare riferimento alla verità: ricordare significa platonicamente conoscere il VERO. Se lo scetticismo eristico aveva insistito sull’inutilità di conoscere il vero, la teoria della reminiscenza di Platone identifica la memoria come l’atto di dare un valore, un significato, alla conoscenza, in pratica corrisponde all’atto di dare una FORMA. La parola verità in greco si dice “aletheia”, a sua volta parola composta dalla particella privativa a (alfa) e dalla parola lethe, oblio. Letteralmente potrebbe essere tradotta come assenza dell’oblio. La parola lethe deriva da un verbo greco, lanthano, che significa nascondere. La parola aletheia assume quindi un preciso significato: non oblio, non nascondimento. Infatti l’essere, nella realtà oggettiva, viene nascosto dalla molteplicità, cioè dalla pluralità di cose imperfette presenti nel reale, e dal divenire, cioè il processo d’inevitabile cambiamento che si verifica in tutte le cose. Questo fa sì che l’essere appaia e scompaia e, quando parliamo di verità, parliamo di manifestazione dell’essere. Il ricordo per Platone è appunto l’esplicitazione di questa verità, ossia la manifestazione del vero essere.  La verità non è un dato, ma un compito che unisce la forma oggettiva e l’atto soggettivo. Una figura qualsiasi di per sé non ha alcun senso se risulta sconosciuta alla nostra coscienza: una forma deve sempre essere vista, cioè riconosciuta oggettivamente (per esempio: la porta rettangolare). Allo stesso modo il pensiero non possiede alcuna prerogativa creatrice: il pensiero non costruisce gli oggetti e, il fatto che noi non siamo in grado di riconoscerli, non significa che non esistono o che essi nascano dal nulla quando li riconosciamo. Platone opera qui un interessante superamento del pensiero parmenideo, che concepiva l’essere come un’assenza del non essere. L’essere assume infatti un significato nel momento in cui viene ri-conosciuto, cioè identificato mediante la forma oggettiva a esso collegata, ma questa forma esiste a prescindere dall’intenzionalità della nostra coscienza, tanto che il conoscere platonico è una rievocazione di qualcosa che esiste già a prescindere dal rapporto diretto agli oggetti della coscienza. Famoso esempio usato da Platone è quello dello schiavo di Menone.

21.2 - Secondo la teoria della reminiscenza il conoscere è un processo attivo che comincia quando si instaura una relazione tra la coscienza e l’oggetto. Non è l’oggetto protagonista del processo, ma il soggetto che conosce. Si tratta del superamento dell’oggettivismo, secondo cui sapere è un processo passivo che consiste nella semplice raccolta di nozioni. Platone accoglie la differenza sostanziale, già considerata da Socrate, tra il piano oggettivo del reale e quello soggettivo della coscienza: sono due piani diversi, con strutture diverse e caratteristiche diverse. Per mettere insieme questi due livelli di realtà è necessario che l’anima sia IMMORTALE e che sopravviva al corpo dopo la morte. Questa caratteristica permette d’identificare la conoscenza come una anamnesi, cioè un ricordo: non esiste nulla, scrive Platone, che l’anima non abbia già appreso. Inoltre permette di orientare la conoscenza non al semplice dato, ma allo sviluppo, al processo, che conduce alla sua scoperta. Se ci fermassimo alla sola intuizione del dato, infatti, esso si svelerebbe, ma poi tornerebbe a scomparire, magari perdendosi per sempre, invece il processo conferisce al conoscere un valore preciso, conservandone il significato. L’anima dunque dev’essere non solo immortale, ma anche PREESISTENTE alle cose stesse, perché il conoscere è una continua ricerca del vero e dell’essere. Queste due caratteristiche sono tali in funzione della reminiscenza, che funziona da mediazione tra l’anima e le cose reali. Platone si allontana da qualsiasi contesto poetico o religioso, in quanto questi elementi hanno per lui solo un valore introduttivo, e si concentra invece sugli aspetti funzionali della teoria della reminiscenza. Nel dialogo Menone Platone mostra chiaramente come il conoscere sia un processo veramente attivo, non una semplice raccolta di dati ottenuti dall’esperienza sensibile, ma uno sforzo di ricerca che parte proprio dall’esperienza sensibile. Nell’episodio più famoso Socrate chiede al protagonista di chiamare uno dei suoi servi, chiaramente ignorante di matematica. Guidato da Socrate, il servo riesce a costruire il quadrato sull’ipotenusa, si trattava evidentemente della dimostrazione del teorema di Pitagora, scoprendo che corrisponde alla somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo. Socrate invita quindi Menone a cogliere come il servo non abbia imparato in base ai dati forniti dal maestro, ma ha ricordato, come se avesse conseguito la conoscenza da sé stesso. Le domande che emergono sono: 
in che senso lo schiavo ha acquisito la conoscenza matematica da sé? 
che tipo di conoscenza ha acquisito? 
con quale metodo?

Alla prima domanda possiamo rispondere che lo schiavo non ha appreso la soluzione del problema da Socrate, ma ha acquistato attraverso Socrate il giusto modo di procedere, per confutazione, e al termine del processo ha avuto consapevolezza che la conoscenza ottenuta è valida. Da se stesso lo schiavo ha appreso la COSCIENZA DELL'OGGETTO, da Socrate ha appreso la COSCIENZA PROBLEMATICA. Questo doppio canale, problematico e oggettuale, esprime il significato di un'indagine attraverso ipotesi. L'ipotesi è un'affermazione né vera, né falsa. Il ragionamento ipotetico non offre garanzie di verità, si tratta infatti di un giudizio sospeso, in attesa di essere confermato. Il presupposto razionale è dato però proprio dal suo limite, che obbliga il soggetto conoscente a cercare una strategia per giungere al vero. Platone integra il metodo socratico con un ulteriore metodo d’indagine di tipo DIALETTICO, che perviene alla conoscenza mediante tre fasi:
a) METODO ANALITICO - basato sul carattere negativo della dialettica (A non è  B) serve a individuare ed eliminare le ipotesi false;
b) METODO APAGOGICO (= per riduzione all'assurdo) - prima fase dell'uso positivo della dialettica, serve a dimostrare indirettamente la verità delle premesse di un ragionamento;
c) METODO ESPOSITIVO (o IPOTETICO-DEDUTTIVO) - è la seconda fase dell'uso positivo della dialettica, usa una dimostrazione ancora indiretta, ma basata su prove.
Platone, a differenza di altri filosofi, usa il termine DIALETTICA nel senso scientifico, col preciso significato di pervenire a una soluzione mediante il ragionamento. Ma una soluzione del problema, a questo punto, è solo un'OPINIONE VERA (in greco: doxa alethès) che Platone è ben attento a distinguere dalla CONOSCENZA RAZIONALE (in greco: epistème) che rispetto alle opinioni vere ha la caratteristica della stabilità e della scientificità. La differenza tra epistème e doxa consiste proprio nel fatto che solo la prima può vantare un legame necessario col vero, come, scrive Platone, le statue di Dedalo che gli Ateniesi pensavano che potessero vedere e fuggire, tanto che venivano legate. L'elemento che conferisce stabilità all'epistème è il ragionamento causale, ossia la coscienza della CAUSA. Questa consapevolezza sottrae l'oggetto all'oblio e permette alla coscienza di passare dal mondo degli oggetti al mondo delle relazioni tra gli oggetti.
Si compie in questo modo il superamento di Socrate mediante il fondamento di una vera ONTOLOGIA (discorso, studio sull'essere) che vede l'oggetto non più come un dato, ma come un compito che "mette in moto" la ricerca della causa. E solo in questa accezione che la virtù può essere insegnata.