giovedì 14 aprile 2016

23 - Platone

PLATONE - LEZIONE 23
Le passioni e l’amore
Il Simposio e il Fedro

23.1 - L’attività che dirige la coscienza verso la forma ideale degli oggetti implica l’intenzionalità dell’anima e la trascendenza del mondo. A differenza di altri filosofi, Platone ritiene che le cose esistano a prescindere dalla nostra attenzione verso di esse (anti-soggettivismo) ma bisogna anche sottolineare che per Platone, e anche per Socrate, conoscere non equivale a contemplare in maniera astratta le cose: come abbiamo visto nel Carmide la conoscenza implica una tensione della coscienza verso un oggetto esterno a essa. La forma che dà forza a questa tensione, al desiderio, è l’amore o EROS, cioè la forza che attrae, che aggrega gli elementi. Il Simposio inizia con una riunione conviviale - donde il titolo del dialogo - per festeggiare la vittoria in una gara di poesia. Nel corso del banchetto, come era usanza, il protagonista Fedro ottiene da Socrate il permesso di introdurre un tema di discussione per intrattenere gli ospiti, che è appunto la scienza dell’amore. La discussione parte da un ambito materiale e arriva allo spirituale, inizia dalle passioni per giungere a un concetto di amore come aspirazione alla bellezza e alla verità. Ma va detto che nel dialogo non vengono escluse forme imperfette di amore  a vantaggio di quelle perfette, se l’amore corporeo è visto come una forza vitale e generatrice, che conduce all’ambizione, all’ardimento, al coraggio, l’amore celeste si rivolge alle anime, alla sobrietà, per accogliere l’intelligenza e la virtù. Lo stesso sapere naturale, quello che ha ispirato la scienza eraclitea e pitagorica, mette in evidenza l’amore come coincidenza degli opposti. Nessuna di queste tesi riesce però a rispondere alla vera domanda del dialogo: come nasce l’amore, ossia, quale CAUSA spinge le cose ad attrarsi, quale forza motrice dà il via al desiderio. Innanzitutto bisogna distinguere l’eros, cioè il cosiddetto amore passionale, dall’AGAPE (questa parola non compare in Platone poiché risale al primo Cristianesimo), ossia l’amore che si offre al prossimo senza aspettarsi nulla in cambio, e dalla PHILIA, l’amicizia, che è una forma di amore simile all’eros poiché esige di essere ricambiata. L’intervento di Aristofane nel dialogo guida quindi la conversazione alla ricerca dell’essenza del desiderio.
Aristofane racconta che un tempo gli esseri umani erano unici, cioè androgini, ma poi Zeus per punirli li separò e da allora ognuno cerca la sua metà perfetta: questo desiderio si chiama amore e il suo soddisfacimento si chiama felicità. Il racconto di Aristofane porta il dialogo a una svolta decisiva, mettendo in evidenza due aspetti, il primo è la percezione, nell’amore, di una mancanza, di una insufficienza, che deve essere colmata; il secondo riguarda la natura SIMBIOTICA degli uomini per la quale ognuno di noi è la metà perfetta di un unico ente: Platone usa proprio la parola SYMBOLON, simbolo, che deriva dal verbo greco SYNBALLO (metto insieme, unisco), nel preciso significato di un segno di riconoscimento, cercato da una metà che cerca l’altra sua metà per riunirsi in un tutto unico: la mancanza di questa metà conduce a una ricerca instancabile della propria metà perfetta. Si tratta di un concetto significativo ma ancora superficiale: Aristofane ci dice infatti che l’eros è in pratica la ricerca di qualcosa che non abbiamo, e ci porta verso la soddisfazione di un desiderio.
Osserva Platone - facendo parlare il suo maestro Socrate - che Eros non è un dio e nemmeno un mortale. Egli è figlio di PAROS (abbondanza) e di PENIA (povertà). Eros è il vero filosofo che non è mai sazio di sapere, poiché non ha ancora raggiunto la sapienza: in questo senso Socrate corregge Aristofane, spiegando che l’amore non è la soddisfazione di un desiderio ma è lo stesso desiderio. A ispirare la prospettiva socratica, durante il simposio conviviale in onore di Agatone, è il logos maieutico di Diotima di Mantinea - forse invenzione letteraria di Platone - una sacerdotessa del V secolo che del giovane Socrate fu maestra della filosofia dell'eros e che aveva anche il merito di aver ottenuto dagli dei di poter posporre di dieci anni la pestilenza che avrebbe colpito Atene. È proprio Diotima a evidenziare come Eros non sia un dio o un essere morale ma proprio un demone, come lo intendeva Socrate, nel senso di impulso ad agire. È quindi la stessa Diotima a trovare la mediazione tra le posizioni contraddittorie dei simposiasti, ponendo in evidenza le diverse gradazioni dell'eros fino al momento più elevato della bellezza in sé e della kalokagathìa (dal greco καλός καi αγαθός, kalòs kai agathòs, cioè bello e buono) ossia l'aspirazione alla bellezza e alla virtù come scopo nella vita. Ma il discorso di Diotima si interrompe nel dialogo per l'ingresso del komos (il corteo dionisiaco) di Alcibiade, che allontana la serietà del discorso (verrà ripreso nel Fedro) in un'atmosfera di sfrenatezza e di ebbrezza. Questa situazione dà una svolta al dialogo, con la dichiarazione d'amore omosessuale del giovane eromenos (bello) Alcibiade) per il vecchio erastes (brutto) Socrate, che Platone motiva nell'attrazione della bellezza intellettuale. L’uomo dunque non raggiungerà mai l’oggetto del suo desiderio poiché se così fosse l’amore smetterebbe di esistere, e non avrebbe senso alcuno il ruolo dell’uomo come amante, cioè come vero filosofo. Proprio nella tendenza dell’amore alla ricomposizione, alla riconciliazione, si esprime la tendenza alla PERPETUAZIONE DELL’ESSERE attraverso la specie. La corruttibilità del corpo e l’immortalità dell’anima sono mediati dalla funzione riconciliativa dell’amore inteso come anelito al Bello, non soltanto la bellezza fisica, trasmessa dai canoni della cultura o dell’arte, ma sopratutto il fine ultimo della bellezza in sé, intesa quale visione o forma (eidos appunto) che unisce in sé l’aspetto estetico, quello conoscitivo e quello etico. Qui va detto che Platone sta mettendo volutamente in risalto l’aspetto pubblico della bellezza rispetto al privato, poiché nel privato essa perderebbe di questi significati.
La bellezza va vissuta con gli altri, va contingentata alle nostre esperienze di vita, va condivisa e compartecipata. in tal senso l’amore è l’oggetto stesso della vita, che agisce e opera in vista del bene comune.

23.2 - Nel Simposio emerge dunque il concetto di amore come desiderio di unità. Il fanciullo Eros, figlio di Penia, la mancanza, desidera ricongiungersi al padre Paros, l’abbondanza: questo è l’obiettivo dell’anima che desidera ardentemente tornare al mondo delle idee da cui ha origine, e quindi la missione del filosofo, quella cioè di conoscere. Nel Fedro Platone esamina proprio la partecipazione soggettiva, non solo nel sentimento propriamente detto ma anche nella conoscenza. Infatti è il desiderio, quindi la passione, il vero demone della conoscenza razionale, l’elemento che spinge l’uomo a cercare la verità. Il Fedro inizia con un confronto tra il protagonista, un giovane ateniese appassionato di arte del discorso, e Socrate, che si svolge in luogo particolarmente suggestivo, la valle dell’Ilisso, a est di Atene. Qui Fedro racconta a Socrate di aver assistito al discorso pronunciato da Lisia sull’amore, nella fattispecie il problema affrontato da Lisia era se fosse necessario concedere i favori amorosi a chi era davvero innamorato o a chiunque. Socrate apprezza molto la tecnica oratoria di Lisia ma spiega a Fedro che a nulla servono le capacità di persuasione se non sono supportate dalla conoscenza razionale e quindi orientate alla verità. A tale proposito è lo stesso Socrate, a capo coperto, a pronunciare un discorso che parte dagli stessi presupposti di Lisia - si parla anche in questo caso di una relazione omosessuale tra un giovane allievo e il suo precettore - partendo però da una distinzione fondamentale, tra ciò che è piacere e ciò che invece è bene. Ma Socrate non intende semplicemente contrapporsi a Lisia sul suo stesso terreno, egli vuole, come è intenzione di Platone, mostrare il vero significato di eros, facendo vedere a Fedro che si possono costruire bei discorsi (logoi) pur privi di qualsiasi presupposto razionale. Il Fedro infatti non si occupa direttamente dell’attività soggettiva, che viene anzi quasi data per scontata, ma mette in luce il modo in cui questa rischia di trasformarsi in un fine in sé, facendo coincidere l’atto col suo oggetto. La passione è effettivamente un impulso irrefrenabile, che si trasforma in vera follia quando manca il controllo razionale: a causa del carattere dinamico dell’anima non esiste un arresto di questo movimento. Ma questo aspetto non è sempre del tutto negativo quando la follia assume un carattere divino, come dice la sacerdotessa Diotima di Mantinea, già incontrata nel Simposio, poiché spesso produce grandi cose, per esempio nell’arte, nella vita spirituale, nelle conoscenze scientifiche, ci sono passioni che non sempre hanno bisogno di essere frenate. Occorre però chiarire in che modo un impulso amoroso irrefrenabile possa condurre alla conoscenza razionale. 
E a questa domanda Platone risponde facendo comporre a Socrate una palincodia (ossia un nuovo componimento poetico, in questo caso il terzo, che riprende le tesi precedentemente esposte) presentando così la famosa immagine dell’auriga. Rappresenta una biga, guidato da un auriga appunto, e trainata da due cavalli alati, uno bianco e uno nero. Le tre figure formano insieme un tutto unico. L’auriga simboleggia la ragione che guida l’uomo, mentre i due cavalli alati simboleggiano rispettivamente l’ardore e il coraggio (il bianco) e l’appetito e il desiderio (il nero). Platone mostra dunque un’anima divisa in tre parti, una egemone, o anima RAZIONALE, e due anime da essa dipendenti, l’anima IRASCIBILE e quella CONCUPISCIBILE. Il compito dell’auriga è quello di condurre la biga stando attento che vi sia equilibrio nell’andatura dei due cavalli, poiché le tre parti dell’anima tendono sempre alla medietà. Il ciclo di reincarnazioni a cui le anime sono sottoposte operano una purificazione che impedisce a qualsiasi anima di essere condannata, ma la condotta responsabilizza l’auriga, cioè la parte razionale, che deve mediare le altre due. Non si può impedire il movimento della biga, come non ci si può mai liberare della passione, ma l’anima razionale deve guidare all’equilibrio. L’anima perciò secondo Platone svolge un ruolo mediatore, una funzione cioè di equilibrio tra i sensi e la ragione, e questo ci riporta al problema della conoscenza, dei bei discorsi (logoi) poiché così come la passione smodata porta alla perdita di sé così anche la persuasione è nulla senza la verità, come Socrate faceva notare a Fedro all’inizio del dialogo. La bellezza corporea, si era visto nel Simposio, ha bisogno del supporto della bellezza ideale. Un discorso è bello e degno di amore se le immagini sensibili che esso suscita sono conformate a un procedimento razionale del conoscere, quale Platone ha espresso nella dialettica. La conoscenza deve essere equidistante dall’esaltazione e dallo scetticismo, estremi che non conducono al vero. Platone individua quindi una triade composta da amore, discorso e sapere, che fa da sfondo ideale alle successive implicazioni del suo pensiero sistematico. Infatti il filosofo è consapevole dell’indissolubile legame tra gli elementi di questa triade e sa che la vera retorica è quella che si esplica certamente a partire dal vero: un bel discorso è sempre un bel discorso, che può fare innamorare chi lo ascolta, ma resta effimero qualora non parta, come nel caso dell’orazione di Lisia, da presupposti razionali. 
Platone mostra nel Fedro come lo scopo della retorica sia proprio il recupero dell’unità organica del concetto: l’obiezione di Socrate al suo giovane amico è la consacrazione della dialettica platonica, che, attraverso la dissezione degli argomenti lisiani conduce all’individuazione della verità universale. Qui Platone opera una critica consapevole a Isocrate, giovane allievo promettente della sua scuola, che fallisce in quanto pur sapendo usare la techne retorica non conosce la storia che è base del discorso: vero discorso è quello che procede infatti per dissezioni o scomposizioni analitiche (in greco DIAIRESIS ossia separazione) pervenendo a una concezione unitaria (in greco SYNOPSIS) del sapere storico. Dopo aver chiarito che la vera retorica non può che essere legata a una concezione unitaria del sapere e sopratutto alla conoscenza filosofica, Platone consacra il primato dell’oralità negando qualsiasi validità ai discorsi scritti con l’esposizione del mito di Teuth, che chiude il Fedro. Racconta Socrate che un giorno il saggio egizio  Teuth si presentò al faraone Thamus facendogli dono della sua ultima strabiliante invenzione, la scrittura. Essa, spiega Teuth, avrebbe portato nuovi orizzonti di conoscenza. Ma Thamus rifiuta il dono, spiegando che solo il discorso orale è portatore della vera conoscenza, poiché la parola scritta è immobile. Qui si rivela probabilmente il vero Platone, che predilige un insegnamento esoterico in forma strettamente orale, non solo per questioni di tipo semantico ma forse anche per evitare che la parola scritta venisse travisata o alterata: solo un discorso orale è infatti vero, e lo studente ne può apprezzare ogni sfumatura, cosa che non capita alla parola scritta, immota. Conclusa la celebrazione dell’oralità il Fedro si conclude con l’invocazione a Pan e alle divinità del luogo ove Fedro e Socrate si trovano, con l’augurio che la Bellezza sia sempre parte della loro vita.