domenica 24 aprile 2016

1B - U5

1B - U5
Aristotele

ARISTOTELE - LEZIONE 28
Biografia e “corpus aristotelicum”

28.1 - A differenza di quello platonico il sistema filosofico aristotelico non intende rappresentare la realtà ma vuole essere la realtà stessa. La realtà perù è complicata dal molteplice che ne rende variabili i diversi aspetti: per questo motivo è necessario che venga definita una logica accurata che consenta di comprendere nel modo più rigoroso possibile tutti questi aspetti. Come in un dipinto di Mondrian la realtà è un intreccio di linee geometriche che delimitano diversi spazi. Noi non possiamo saltare da uno spazio all’altro liberamente, così dobbiamo imparare a conoscere le regole che li delimitano e li collegano tra di loro. Questo è il compito della filosofia.
Aristotele nasce a Stagira, nella penisola calcidica, non lontana dall’odierna Salonicco, nel 384 a.C., all’alba del predominio macedone sulla Grecia. Le notizie che abbiamo non sono autobiografiche come nel caso di Platone, ma dobbiamo ricavarle da diverse fonti. Si lui sappiamo che il padre era medico personale del re; Aristotele respirò quindi fin da piccolo il clima culturale della corte macedone, avverso alla concezione classica della politica ateniese, ma, dopo la morte del padre Nicomaco, fu affidato alle cure di uno zio in Asia Minore. Fece quindi ritorno, diciassettenne, ad Atene, dove fu allievo dell’Accademia platonica, presso cui rimase fino alla morte del maestro, proprio nel periodo in cui - mentre Platone era impegnato nel suo secondo viaggio in Sicilia - la direzione dell’Accademia era affidata al grande astronomo Eudosso di Cnido, che per il giovane Aristotele fu un maestro di scienza. Dei suoi rapporti con Platone occorre dire che tra maestro e allievo, nonostante le divergenze dottrinali, ci fosse molto rispetto, anche se vanno ritenute infondate le voci di una presunta influenza aristotelica nel pensiero dell’ultimo Platone; è vero invece l’opposto, ossia che Aristotele trasse molta ispirazione dal platonismo tanto da individuare una fase platonica nel pensiero aristotelico. La formazione del giovane Aristotele viene segnata dall’avvento della conquista macedone della Grecia ad opera di Filippo II, che piega la città di Atene nella battaglia di Cheronea e poi del suo successore Alessandro. Conseguenze dell’espansione macedone furono il tramonto dell polis e l’universalizzazione della cultura greca, esportata in buona parte delle terre toccate dall’esercito macedone. 
A causa della sua vicinanza alla corte macedone e in aperta polemica con Speusippo, erede designato e nipote del fondatore, Aristotele viene costretto a lasciare l’Accademia e si trasferisce ad Asso, in Asia Minore, dove inizia a dedicarsi all’approfondimento degli studi naturalistici; viene quindi chiamato da Filippo come precettore del figlio Alessandro. Tra i due non ci fu mai un vero rapporto di discepolato, a causa della distanza culturale e politica delle loro idee. Tornato ad Atene, ormai lontano dall’ambiente dell’Accademia platonica, diretta ora da Senocrate, fonda una scuola tutta sua, il Liceo o Peripato, caratterizzata dallo studio delle discipline naturalistiche come la biologia, l’astronomia e la medicina. Morto Alessandro il potere fu preso da fazioni anti-macedoni che non vedevano di buon occhio i legami di Aristotele con il suo ex allievo. Accusato di empietà Aristotele fu costretto a lasciare Atene e a rifugiarsi presso l’isola di Eubea, dove morì nel 322 a.C.. 

28.2 - Gli scritti aristotelici presentano diversi problemi di ordine filologico, a causa della loro frammentarietà, del numero ridotto e dell’incertezza nell’attribuzione; a ciò si deve aggiungere anche la sorte rocambolesca delle opere, affidate post mortem al discepolo Teofrasto e pervenute dopo svariati  incidenti di percorso, non ultimi gli incendi che distrussero la Biblioteca di Alessandria, che sono una delle cause della difficoltosa ricostruzione della letteratura aristotelica. A differenza del corpus platonico, costituito dagli scritti essoterici, le opere di Aristotele ci sono pervenute infatti in numero ridotto e a costituire il cosiddetto corpus aristotelico sono sopratutto gli scritti esoterici - che sarebbero dovuti essere circa un migliaio e di cui ci restano solo 162 scritti - mentre delle opere essoteriche, tra cui quelle a carattere compilativo ed enciclopedico, ci sono pervenuti pochissimi frammenti. 
Occorre anche sottolineare che gli scritti, oltre a non essere particolarmente esaustivi dal punto di vista scientifico, essendo spesso dedicati a un uso didattico e quindi usati come tema di discussione più che come un manuale vero e proprio. In molti testi poi sono presenti scritti redatti da allievi della scuola, che si confondono con quelli originali. Alcune opere essoteriche sono di chiara ispirazione platonica, per esempio il CONVITO, SULLA GIUSTIZIA, il MENESSENO, e SUL BENE. Ci sono poi alcune opere che testimoniano il distacco dal platonismo: per esempio l’EUDEMO, sull’immortalità dell’anima; il PROTRETTICO o esortazione alla filosofia, e infine i tre libri di SULLA FILOSOFIA, vera e propria storia del termine sapienza pubblicati dopo la morte di Platone e in aperta e dichiarata confutazione della dottrina delle idee in favore della concezione dei gradi dell’essere, che si conclude con Dio quale causa delle cause e primo motore dell’universo.
Per ciò che riguarda gli scritti esoterici si usa una particolare classificazione che li raggruppa in base al loro argomento:
1) gli scritti di logica, che in epoca bizantina furono raccolti nel cosiddetto ORGANON (ossia strumento), comprendenti i TOPICI, sull’argomentazione e sul ragionamento dialettico, SULL’INTERPRETAZIONE, sulle proposizioni e i giudizi, le CATEGORIE, sui predicati primi, gli ELENCHI SOFISTICI, sulla dimostrazione e confutazione dei ragionamenti sofistici, gli ANALITICI PRIMI sul procedimento deduttivo e gli ANALITICI SECONDI sul procedimento induttivo;
2) gli scritti di fisica, relativi ai corpi materiali in relazione allo spazio, al tempo, al movimento, cioè a tutto ciò che concerne il divenire, di storia naturale e di matematica, comprendenti la FISICA, SUL CIELO, SULLA GENERAZIONE E CORRUZIONE, la STORIA DEGLI ANIMALI, METEOROLOGICA, SULLE PARTI (...)  DEGLI ANIMALI;
3) gli scritti di psicologia, affiancati agli scritti di fisica, perché riguardano l’anima come forma del corpo, comprendenti SULL’ANIMA  e PARVA NATURALIA;
4) gli scritti di metafisica, la filosofia prima, che contengono essenzialmente l’ontologia aristotelica, comprendenti tutti i quattordici libri della METAFISICA, titolo probabilmente attribuito in modo arbitrario dai discepoli del filosofo, che con tutta probabilità aveva contrassegnato i quattordici tomi con titoli diversi, e quindi accolto da Andronico di Rodi;
5) gli scritti di etica, nei quali Aristotele presenta il secondo genere di razionalità, ossia la ragione pratica, intesa come saggezza e virtù etica quale giusto mezzo, comprendenti l’ETICA NICOMACHEA, l’ETICA EUDEMICA e l’opera apocrifa GRANDE MORALE;
6) gli scritti di politica, dove Aristotele espone la sua teoria dello Stato e delle forme di governo, comprendenti la POLITICA e LA COSTITUZIONE DEGLI ATENIESI (incompleta);
7) gli scritti di retorica e di estetica, che concernono il terzo genere di sapere dopo quello teoretico e quello pratico, il sapere poietico, che ha per oggetto l’arte, riabilitata dopo la svalutazione platonica, comprendenti la RETORICA  e la POETICA.

ARISTOTELE - LEZIONE 29
Le critiche a Platone, lo spirito di sistema 
e l’indagine scientifica della natura

29.1 - Le divergenze dottrinali tra Platone e Aristotele sono state nel tempo oggetto di strumentalizzazioni, sopratutto nel periodo rinascimentale, tanto da confondere le vere ragioni della distanza tra i due filosofi. Tali ragioni possono essere riassunte come di seguito:

REALISMO (oggetto dell’indagine scientifica deve essere il mondo sensibile e fenomenico, i suoi enti individuali ed i suoi aspetti generali universali) - Se l’orientamento del pensiero platonico fu di tipo dialettico e politico, dominato dalla figura di Socrate, l’interesse di Aristotele è sopratutto scientifico e naturalistico, volto alla definizione e alla classificazione dei fenomeni, i cui principi vanno ricercati, a differenza di Platone, all’interno della realtà sensibile, unico e solo oggetto della conoscenza; quello aristotelico è chiamato un REALISMO MODERATO o EMPIRICO, in base al quale l’essere esiste distributivamente, ossia in relazione ad enti individuali e ad aspetti generali o universali che possono essere unificati solo logicamente, per differenziarlo dal REALISMO ASSOLUTO di Platone, in cui la sola vera realtà era l’idea e la realtà sensibile era ammessa in quanto partecipava dell’idea. In poche parole mentre nella filosofia platonica l’essere ha un solo significato, in quanto l’idea è univoca, nella filosofia aristotelica dobbiamo specificare un aspetto individuale e uno di natura generale.

RAZIONALISMO (se l’oggetto dell’indagine scientifica non ha un carattere univoco la razionalità non può limitarsi al solo aspetto teoretico ma deve anche contemplare altri saperi, come quello legato all’agire e quello legato al fare) - Alla base della divergenza tra Platone e Aristotele si trova sicuramente la distinzione tra univocità e molteplicità, che porta Aristotele ad accusare Platone di rifiutare un’indagine propriamente scientifica della natura per concentrarsi sull’identificazione dell’idea unico oggetto della conoscenza teoretica; di qui la distinzione tra l’univocità razionale platonica, praticamente una ragione a senso unico che considera l’idea quale unico possibile oggetto di vera conoscenza, e la molteplicità razionale aristotelica, che considera tre aspetti, quello teoretico dell’essere, quello pratico della morale e dell’etica e quello poietico del fare, ossia delle arti.

DUALISMO (la vera realtà è quella che possiede un’esistenza unitaria e non possono esistere duplicati) - Nonostante Aristotele entri nell’Accademia nel momento in cui la fase di revisione della prospettiva dualistica sia già avviata non può fare a meno di criticarla, ritenendo l’idealismo platonico e la teoria della separazione tra i due mondi non solo inutili a spiegare il reale ma perfino dannosi in quanto offrivano una visione raddoppiata della realtà, che è una; da qui anche la critica al vano tentativo di riunificazione dei due mondi dopo la loro separazione. Aristotele sottopone a critica anche la concezione cosmologica espressa dal Timeo, che lui stesso usa per alcune conoscenze di natura astronomica.

LOGICA (l’indagine naturale deve essere supportata da un rigoroso metodo scientifico) - Aristotele sente la mancanza di un metodo rigoroso e scientifico per lo studio della natura. Egli condanna la dialettica diairetica platonica sia per la sua natura circolare  sia per la sua natura ipotetica e induttiva, che non conducono mai a una certezza definitiva. Occorre dire che comunque Aristotele non rifiuta il procedimento induttivo, pur ritenendo più opportuno un metodo deduttivo, sposando una prospettiva analitica dell’induzione, in cui l’idea, che viene intesa aristotelicamente come forma, non è più trascendente e può quindi essere pensata (astratta) dall’intelletto come la parte universale di un ente individuale. Con l’astrazione l’anima entra in possesso dei principi primi da cui partire per la dimostrazione: così la dialettica diventa un efficace strumento di appoggio per il procedimento deduttivo. 

SINGOLARI E UNIVERSALI (l’estensione del metodo scientifico alle cose naturali prescinde dagli aspetti singolari e accidentali dell’individuo per studiare quelli universali, ossia ciò che hanno in comune individui con le stesse caratteristiche) - Il rigore del metodo aristotelico esige che si passi dalla logica del singolare tipica del pensiero platonico alla logica delle classi, generi e specie. Mentre in Platone si parla di una logica intensionale, ossia basata sulle caratteristiche del singolo oggetto, nella filosofia di Aristotele -  che ha un approccio analitico - la logica non può prescindere dalla gerarchia di generi e specie, i cosiddetti universali. Alla logica deduttiva aristotelica interessano proprio questi aspetti generali, che accomunano più individui con le medesime caratteristiche.

29.2 - La distanza tra il sistema platonico e quello aristotelico si basa proprio su questi aspetti. Le idee sono viste da Aristotele come forme universali dei giudizi, immanenti la materia. Viene quindi a cadere non solo la loro trascendenza ma anche la loro univocità, oltre all’inutilità della divisione della realtà in due mondi. Dato il carattere deduttivo e dimostrativo della scienza aristotelica, non possono essere presi in esame gli aspetti singolari e individuali della realtà, in quanto le idee in senso platonico non hanno ragione di esistere, ma quelli universali relativi ai generi e alle specie. Ma questa pretesa classificatoria rigorosa ha trasformato il sistema aristotelico, secondo molti critici, in un sistema statico e chiuso, diverso dalla natura dinamica del sistema platonico. Il fatto è che mentre Platone è costretto a usare una logica  equivoca, a causa dei differenti significati dell’essere - non ultimo la differenza tra il senso copulativo e quello esistenziale - Aristotele, che fa coincidere il sapere autentico col ragionamento dimostrativo, usa una logica di tipo univoco, basata sul grado di inferenza o meno di un predicato nei confronti di un soggetto e declinata secondo una gerarchia di generi e specie. L’aspetto negativo di questo procedimento è chiaramente l’impossibilità di giungere al compito supremo di ogni filosofia scientifica, ossia quello di operare una vera e propria sintesi delle sintesi. La filosofia aristotelica non riesce ad arrivare a cogliere il principio dell’essere ed è costretta a sconfinare in un razionalismo teologico secondo cui la verità è interamente rivelata. Il razionalismo teologico rivela un interessante aspetto del sistema aristotelico cioè la concezione del vivere filosofico come fine a se stesso, interrompendo quell’unità della virtù, coincidenza di sommo bene e conoscenza, che aveva contraddistinto le filosofie di Socrate prima e di Platone poi. La separazione è netta: da una parte la conoscenza teoretica, fondata sul sapere dimostrativo e necessario, dall’altra il possibile e il probabile, che derivano dall’abitudine e dall’esperienza. Solo la conoscenza teoretica è veramente scientifica: in tal senso Aristotele si discosta dall’aspetto “decisivo” e motivazionale dell’eros platonico, dando più importanza a sophia, la sapienza, piuttosto che a philia, l’amare.

ARISTOTELE - LEZIONE 30
La Logica come scienza: dalle idee alle classi.
Le categorie tra logica e realtà.

30.1 - La filosofia aristotelica tende a un sapere unitario. La conoscenza per Aristotele si sviluppa come un organismo vivente, formato da tante scienze particolari che ruotano attorno alla metafisica, o filosofia prima, che si occupa dell’essere. A mantenere unite queste scienze particolari è un filo conduttore comune, costituito dalla LOGICA o ANALITICA, che si incarica di garantire lo stesso procedimento pur nella diversità dei contenuti. La logica funziona come il sistema nervoso di un organismo, ha cioè il compito di preservare la correttezza del ragionamento e delle dimostrazioni, che sono le condizioni formali di ogni conoscenza, ma non prescrive un contenuto, così come i nervi recano la sensazione al cervello ma non sono essi stessi la sensazione. Per questo la logica ha una funzione preliminare alla conoscenza, anzi, come la definisce Aristotele, di strumento (organon). I termini utilizzati - logica e organon - non sono propriamente aristotelici ma più recenti, risalirebbero il primo a Cicerone e il secondo ad Alessandro di Afrodisia; tuttavia sono usati comunemente dal VI secolo d.C. per designare il complesso degli scritti aristotelici sull’argomento. Il termine corretto è ANALITICA, che indica il metodo di risoluzione di una conclusione sulla base delle sue premesse fondanti, ossia che ne accertano la validità. La logica aristotelica ha degli aspetti innovativi e degli aspetti comuni alla logica antica. Tra gli aspetti comuni ricordiamo:

il carattere ONTOLOGICO della logica, relativo all’essere, un ragionamento dimostrativo conforme alla realtà che ci dice “com’è” una cosa; 
i PRINCIPI LOGICI, non semplici regole ma proposizioni vere o false; quando una proposizione è vera, ciò che viene asserito esiste realmente;
la corrispondenza tra grammatica, logica e psicologia, in quanto i principi logici sono LEGGI DI NATURA  e REGOLE DEL PENSIERO, dato che non vi è differenza tra l’ENUNCIATO (la lingua) e la PROPOSIZIONE (il linguaggio).

Accanto a questi aspetti Aristotele ne introduce due, atti a dare una rigorosità scientifica e una maggiore sistematicità alla logica:

lo sviluppo e la critica della dottrina delle idee di Platone, che arriva a una rinnovata concezione delle idee non più come enti intelligibili ma come generi e specie;
l’approfondimento della forma e delle relazioni, sintattiche e semantiche, che si istituiscono all’interno del linguaggio ordinario.

A tal proposito distinguiamo una PRIMA LOGICA, in cui sono assenti formule sillogistiche e variabili, una SECONDA LOGICA di transizione, caratterizzata dall’uso iniziale di sillogismi e variabili, e infine una TERZA LOGICA, che contiene una sillogistica modale e una metalogica dei sillogismi. La logica si sviluppa dunque in modo complesso e sistematico partendo da una struttura che si potrebbe definire atomica - relativa cioè alle parti semplici - per giungere a una struttura di tipo molecolare - relativa ai giudizi - e molare - relativa ai ragionamenti - dando luogo a una compagine articolata come segue:

CATEGORIE - i termini, le parole e i concetti, come soggetti e come predicati;
SULL’INTERPRETAZIONE - l’enunciato, la proposizione e il giudizio;
ANALITICI PRIMI - la struttura generale del ragionamento sillogistico;
ANALITICI SECONDI - il sillogismo apodittico, scientifico e dimostrativo;
TOPICI - sillogismo dialettico e ipotetico;
ELENCHI SOFISTICI - il sillogismo sofistico o fallace.

Nel sistema aristotelico sussiste, come si può notare, una stretta correlazione tra pensiero e linguaggio. Il discorso di cui si occupa la logica si articola dunque in:

(secondo una prospettiva psicologica)
CONCETTI, semplici rappresentazioni di cose o situazioni;
GIUDIZI, concetti dotati di posizione di realtà, in grado di motivare l’esistenza o la non esistenza di una cosa in un dato contesto;
RAGIONAMENTI, concatenazioni di giudizi formate da due proposizioni, un presupposto e una conseguenza.

Si può anche dire che un discorso è logico quando è costituito da:

(secondo una prospettiva linguistica)
ARGOMENTI, a loro volta in funzione delle 
PROPOSIZIONI, a loro volta in funzione del significato di
TERMINI o ESPRESSIONI che costituiscono l’enunciato.

30.2 - Primo requisito di un discorso logico è quello dell’UNIVOCITA’ DEL LINGUAGGIO ovvero l’eliminazione di qualsiasi fraintendimento nella misura in cui un termine o concetto pul avere più significati. Si tratta di una condizione fondamentale per la chiarezza dell’argomentazione. A questo proposito Aristotele delinea una sua concezione circa il rapporto semantico tra nome e oggetto, cioè la relazione tra il segno e ciò che con questo segno viene designato, che si articola in tre forme correlative:

uno-uno: a ogni nome corrisponde un unico oggetto, come nel caso del nome proprio di un individuo, per esempio Mario Rossi;;
uno-molti: a ogni nome corrispondono più oggetti; qui si può verificare il caso dell’OMONIMIA, ASSOLUTA se relativa agli individui e alla specie, come per esempio dire “leone” che può riferirsi a un animale o a una costellazione, e RELATIVA se relativa ai soli individui ma non alla specie, come per esempio dire “animale” che può essere riferito a un uomo o a un bue;
molti-uno: è la cosiddetta relazione di SINONIMIA, ossia molti nomi per un solo individuo.

A queste tre forme correlative Aristotele ne aggiunge una quarta, quella della PARONIMIA, ossia la relazione molti-molti, una sintesi verticale di omonimia (diversità) e sinonimia (identità) che corrisponde all’accidente grammaticale della FLESSIONE del nome: in questa quarta forma il rapporto tra nome e oggetto non è diretto ma indiretto, ossia ricaviamo il suo significato da una radice (la flessione appunto) per esempio: medico, medicamento, medicale, medicina, medicinale hanno in comune la stessa radice. Si tratta di una forma molto importante per Aristotele poiché la userà per definire il rapporto uni-equivoco tra la sostanza e i suoi attributi.

Secondo requisito di un discorso logico è la CONNESSIONE PREDICATIVA. I nomi, presi da soli, non hanno senso rappresentativo, cioè non sono veri o falsi, lo acquistano in una connessione semantica. Non tutte le connessioni sono però semantiche, ossia rappresentative: la sola e unica connessione sintatticamente corretta e quindi avente senso rappresentativo è quella che comprende un soggetto e un predicato, poiché riproduce la stessa struttura ontologica del rapporto tra sostanza e attributo. Occorre però sottolineare che la connessione predicativa più consueta, quella sostenuta dalla copula “è” (per esempio: Socrate è un uomo) non è tipica della logica aristotelica: Aristotele usa infatti la connessione nella funzione di “appartenenza a qualcosa o qualcuno” (per esempio: l’umanità è di Socrate)  piuttosto che in quella di “essere qualcosa”: questo rende ancora più evidente l’esistenza di un criterio formale di oggettività che altrimenti non traspare dalla semplice relazione copulativa tra soggetto e predicato. Questo aspetto vale sia in una connessione di tipo affermativo sia di tipo negativo (per esempio nella frase “l’essere quadrupede non è di Socrate”). Va detto che l’attributo non indica  un “essere in” ma un “essere di”: tra il soggetto e l’attributo sussiste infatti un’ASIMMETRIA FUNZIONALE che rende non solo impossibile uno scambio tra la funzione soggettiva e quella predicativa ma anche la conversione dei due termini. Si tratta di una modalità che supera chiaramente l’accezione eleatica secondo cui ogni predicazione deve avere valore d’identità e che corrisponde alle relazioni di inclusione  e di appartenenza, che a differenza delle relazioni di identità non sono simmetriche.

Il terzo requisito di un discorso logico è costituito dal LIMITE SUPERIORE E INFERIORE DELLA CONNESSIONE PREDICATIVA. A definire la funzione di soggetto e predicato in una connessione predicativa è la struttura della realtà, in base alla gerarchia di generi e specie, o SOSTANZE SECONDE (che nella relazione predicativa possono avere carattere relativo, potendosi scambiare la funzione di soggetto e predicato: il bue è un animale) e degli individui, o SOSTANZE PRIME, che non possono MAI essere predicati. 
Le sostanze prime corrispondono all’uso DENOTATIVO del significato, ossia il nome proprio di un oggetto o il nome comune a un insieme di oggetti, le sostanze seconde corrispondono all’uso CONNOTATIVO, cioè l’attributo descrittivo di una qualità o di un insieme di qualità. I termini denotativi, individui o gruppi di individui, hanno valore estensionale e possono fungere solo da soggetti: essi costituiscono il limite inferiore della connessione predicativa. I termini connotativi, qualità o proprietà comuni a più individui,  hanno valore intensionale e possono fungere solo da predicati. Se il limite inferiore della relazione predicativa è costituito dalle sostanze prime, il limite superiore coincide con le CATEGORIE o GENERI SOMMI, i predicati ultimi e termini primitivi di un sistema, indefinibili, e indicate da Aristotele in numero di dieci: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, abito, azione e passione. In alcuni scritti Aristotele ne indica solo otto, includendo abito e situazione sotto altre categorie.

Il quarto requisito di un discorso logico è rappresentato dalla SOSTANZA e dai RAPPORTI TRA LE CATEGORIE. Qui sono due gli aspetti degni di nota: la trascendentalità dell’essere rispetto alle categorie, ossia il presupposto necessario dell’esistenza e la sua realtà o immanenza, e la primalità della sostanza nei confronti dei suoi accidenti. Le ragioni di questa primalità sono:

1 - La sostanza è al tempo stesso attributo (ESSENZA) e soggetto, sostegno delle attribuzioni (SOSTRATO): in quanto essenza è CAUSA FORMALE di un fatto, ossia condizione della sua intelligibilità;  in quanto sostrato è CAUSA MATERIALE, ossia condizione della sua esistenza; la correlazione tra i due aspetti porta a identificare le sostanze prime come SINOLO, ossia unione indissolubile di materia e forma.

2 - La sostanza non può essere predicata di altre categorie ma solo di sé stessa, a differenza delle categorie che possono essere predicate della sostanza.

3 - Le relazioni tra le categorie sono garantite dalla sostanza (RELAZIONE INTERNA) mentre le relazioni tra le sostanze sono garantite solo dalla loro comune partecipazione alla stessa categorie (RELAZIONE ESTERNA) come conoscenza ma non come esistenza.

4 - Solo la sostanza può essere individuale, mentre le categorie non individuano il loro oggetto, solo la sostanza ha infatti un significato reale: poiché esse presuppongono la conoscenza ne deriva che gli individui, o sostanze prime, siano inconoscibili.

5 - Le sostanze seconde, GENERI e SPECIE, non possono includere, quanto a esistenza, le sostanze prime: un concetto per quanto ricco non rivela una POSIZIONE DI REALTA’ ossia non ci dice se qualcosa “esiste”. L’esistenza non può essere predicata dell’essenza.

6 - Il rapporto tra le categorie non è quindi di natura inclusiva o identitaria ma esclusiva: non si può dunque passare da un genere all’altro (METABASI).

7 - Tutti i termini compresi tra i due limiti indefinibili degli individui e delle categorie sono conoscibili attraverso la DEFINIZIONE, ossia il discorso che esprime l’essenza, formato dalla somma di genere prossimo e differenza specifica. In questo tipo di discorso soggetto e predicato sono interscambiabili.

Occorre infine sottolineare che i singoli termini non sono mai veri o falsi, in quanto questo implica unificazione o separazione, che sono caratteristiche solo del giudizio e della proposizione.

ARISTOTELE - LEZIONE 31
Il giudizio, l’argomentazione e il ragionamento
Il trattato Sull’interpretazione e gli Analitici Primi e Secondi

31.1 - Quando uniamo dei termini tra loro otteniamo la PROPOSIZIONE.  Dal punto di vista logico-semantico essa esprime l’insieme dei termini, dal punto di vista psicologico-mentalistico questo insieme - tramite la copula “è” (per esempio: la neve è bianca) - essa esprime un GIUDIZIO, che da un punto di vista logico-espressivo costituisce l’ENUNCIATO. Questi tre punti di vista non coincidenti tra di loro sono sinonimi della PROPOSIZIONE CATEGORICA. Si tratta di una espressione linguistica che ha le seguenti caratteristiche:
è costituita da almeno due termini, un soggetto e un predicato;
può essere distinta per QUALITA’ COPULATIVA (“è” oppure “non è”, ossia affermazione o negazione) e per QUANTITA’ SOGGETTIVA (“tutti” “non tutti” “uno soltanto”, cioè universale, particolare, singolare);
non è né APODITTICA (necessaria) né PROBLEMATICA (possibile) ma ASSERTORIA di un fatto. 
Una proposizione così articolata può essere vera o falsa, e il discorso capace di questa determinazione si chiama APOFANTICO (dichiarativo o descrittivo). Tali aspetti, dal punto di vista della logica aristotelica, portano alle seguenti conclusioni: una proposizione logica deve essere identificabile come vera o falsa; il criterio di verità offerto da Aristotele è CORRISPONDENTISTICO (il vero e il falso indicano l’esistenza o la non esistenza di una corrispondenza tra l’enunciato e lo stato di cose che viene enunciato) e si basa sulla formula: è vero il giudizio che congiunge ciò che è congiunto e disgiunge ciò che è disgiunto, è falso il giudizio che congiunge ciò che NON è congiunto e che disgiunge ciò che NON è disgiunto. Questa corrispondenza tra l’enunciato e lo stato delle cose dell’enunciato si chiama PROPRIETA’ SEMANTICA della proposizione, qualità e quantità sono invece le PROPRIETA’ SINTATTICHE della proposizione. 
Le proprietà sintattiche della qualità copulativa (“è” e “non è”, affermazione e negazione) esse sono opposte, in contraddizione e senza una via di mezzo, e perciò se una è vera l’altra è falsa (PRINCIPIO DELLA BIVALENZA o della necessità del vero e del falso). 
La quantità di una proposizione esprime l’ESTENSIONE del soggetto da un massimo (tutti), passando per un valore intermedio (qualcuno), fino a un valore minimo (uno solo) o zero (nessuno). In base a questi aspetti i seguaci di Aristotele, basandosi sulle relazioni di contraddittorietà e contrarietà incluse nei Libri IV e V della Metafisica, costruirono quello che in epoca medievale fu chiamato il QUADRATO DELLE OPPOSIZIONI. Questo schema è dal punto di vista logico estremamente importante, per due motivi: sia perché chiarisce la differenza tra contraddittorietà e contrarietà e sia perché offre ad Aristotele la possibilità di presentare il principio di bivalenza. Infatti il contraddittorio di una proposizione universale affermativa è una particolare negativa, mentre il suo contrario è una universale negativa. Per esempio:
UNIVERSALE AFFERMATIVA: tutti gli uomini sono bianchi
PARTICOLARE NEGATIVA: qualche uomo NON è bianco (contraddizione)
UNIVERSALE NEGATIVA: nessun uomo è bianco (contrario)
Una proposizione contraddittoria implica una netta opposizione, in quanto se è vera significa che l’altra è falsa e viceversa; una proposizione contraria, invece, anche se falsa può coesistere con una universale affermativa falsa, infatti le due universali:
tutti gli uomini sono bianchi (affermazione)
nessun uomo è bianco (contrario)
sono entrambe false dal momento che è vero che: qualche uomo è bianco. Quindi la contraddizione è più forte rispetto alla contrarietà. A queste figure i filosofi medievali aggiunsero a completamento del quadrato delle opposizioni, le relazioni di SUBCONTRARIETA’ (per esempio: le proposizioni “qualche uomo è bianco” e “qualche uomo non è bianco” possono coesistere come vere ma non come false) e di SUBALTERNITA’ (la proposizione universale “tutti gli uomini sono bianchi” implica la particolare “qualche uomo è bianco” ma non viceversa).
Aristotele indica quali proposizioni, verità ontologiche o leggi del pensiero, gli assiomi logici principali, non dimostrabili, che sono:

principio di IDENTITA’  (A è uguale ad A)
(una mela è uguale a una mela)

principio di NON CONTRADDIZIONE (A non è uguale a NON A)
(SE una mela è una mela ALLORA non è uguale a una pera) 

principio del TERZO ESCLUSO (A è diverso da B, C, D....)
(SE una mela è una mela e SE non è uguale a una pera, ALLORA una pesca non è uguale né a una mela né a una pera)

Questi tre principi primi e non dimostrabili non possono essere applicati solo in un caso, ossia nel caso delle azioni contingenti future (per es.: “domani ci sarà il sole”) di cui non è possibile accertare la verità o la falsità. I due fatti (ossia se domani ci sarà il sole oppure no)  sono possibili in egual misura e di sicuro uno solo dei due sarà vero e ‘altro no ma nessuno dei fatti si è ancora verificato e quindi non possiamo attribuire alcun principio. 
Aristotele è considerato il fondatore della LOGICA MODALE. La modalità si riferisce al MODO in cui soggetto e predicato possono essere congiunti o disgiunti. Ci sono tre modi:
NECESSARIO - deve essere così
POSSIBILE - può essere così
ASSERTORIO - è così
La logica modale è importante poiché si ricollega nella Metafisica all’ontologia dinamica di potenza e atto, mentre la logica assertoria si ricollega, sempre nella Metafisica, all’ontologia statica di materia e forma.
Riassumendo: i termini sono riuniti sotto le categorie, ossia i generi sommi entro cui sono ricondotti i predicati; a partire dalle categorie i termini possono essere estesi da un massimo - i generi (o classi) e le specie (o sottoclassi) -   ad un minimo - gli individui - cioè i nomi propri. Questa differente estensione permette di unificare e dividere i termini attraverso le proposizioni o giudizi. Tuttavia affermare o negare qualcosa non significa ancora ragionare; inoltre le relazioni tra termini sono spesso complicate da ulteriori collegamenti a fatti, sempre espressi da giudizi, con cui si stabilisce un ulteriore collegamento di consequenzialità.

31.2 - L’unione di più proposizioni si chiama SILLOGISMO, e rappresenta un discorso articolato in premesse e conseguenze. Nei vari ragionamenti le proposizioni appaiono come TESI che vengono argomentate. Una tesi è tale solo se rientra in un ragionamento: Aristotele classifica le tesi in base alla DOTTRINA DEI PREDICABILI, secondo cui la tesi può concernere: la DEFINIZIONE (il predicato ha la stessa estensione del soggetto e ne esprime l’essenza); la PROPRIETA’ CARATTERISTICA o proprio (il predicato ha la stessa estensione del soggetto ma non concorre alla definizione); il GENERE (il predicato è più esteso del soggetto e concorre alla sua definizione); l’ACCIDENTE (il predicato è meno esteso del soggetto e non concorre alla sua definizione). Definizione e proprietà sono predicazioni di identità, genere e accidente sono di inclusione. 
L’argomento non è la tesi, ma ha la funzione di produrre o dimostrare la tesi. Gli argomenti, come i sillogismi, non sono tutti uguali, ma differiscono a seconda del tipo di argomento che viene esposto, nonostante tutti i sillogismi abbiano tre elementi formali comuni: tre termini, uno minore, uno medio e uno maggiore, ossia due PREMESSE  e una CONCLUSIONE. Si chiama maggiore la premessa che contiene oltre al termine medio anche il termine maggiore; si chiama minore la premessa che contiene, oltre al termine medio, anche il termine minore; si chiama conclusione la proposizione priva del termine medio e che unisce le due premesse. Questa struttura garantisce la validità SINTATTICA del sillogismo, mentre la validità SEMANTICA viene giustificata dalla MODALITA‘  e dall’ORIGINE delle premesse.
Secondo la modalità delle premesse un sillogismo può essere:
APODITTICO o SCIENTIFICO: le premesse sono vere, l’inferenza è corretta;
DIALETTICO: le premesse sono topici o luoghi comuni, l’inferenza è corretta, ma a causa della natura topica delle premesse esso deve essere espresso nella forma ipotetica “se.... allora....”;
RETORICO: se siamo in presenza di ENTIMENTI, ossia se ignoriamo la validità delle premesse e la correttezza dell’inferenza.
Tutte queste modalità sono in correlazione con la forma enunciativa, ossia con le cosiddette FIGURE o SCHEMATA, che Aristotele distingue in tre tipi in base alla posizione occupata nelle premesse dal termine medio: 

PRIMA FIGURA - il termine medio M fa da soggetto nella premessa maggiore in cui compare il termine maggiore P e da predicato nella premessa minore dove compare il termine minore S: M-P + S-M = S-P;

SECONDA FIGURA - il termine medio compare come predicato in entrambe le premesse: P-M + S-M = S-P;

TERZA FIGURA - il termine medio compare come soggetto in entrambe le premesse: M-P + M-S = S.P;

QUARTA FIGURA (detta GALENICA, attribuita a Teofrasto) - il termine medio compare come predicato nella premessa maggiore e come soggetto nella premessa minore: P-M + M-S = S-P.

Le premesse possono essere universali, particolari, affermative o negative: questo fa sì che esistano 64 modi per ogni figura per un totale di 256 combinazioni.

31.3 - Perché un sillogismo possa offrire una PROVA della conclusione, non basta che le premesse siano vere, ma è necessario che siano CAUSE della conclusione stessa. Questo requisito viene soddisfatto dal sillogismo di I figura, nel Modus Barbara (il nome si riferisce all’acronimo usato per definire il primo dei 256 modi nella tavola dei sillogismi), in cui la premessa maggiore è universale e la minore affermativa: questa condizione infatti permette di staccare la conclusione dall’argomento come una proposizione a sé stante, condizione dei sillogismi scientifici. Al contrario nel sillogismo di II figura si perviene a una conclusione sempre negativa proprio perché tale condizione necessaria non viene soddisfatta: questo tipo di conclusione negativa trova applicazione nei sillogismi dialettici. Nel sillogismo di III figura la validità viene garantita attraverso una premessa minore affermativa pervenendo ad una conclusione particolare, ossia a una esemplificazione: per ottenere questa conclusione è necessario che le premesse abbiano carattere esistenziale e che si argomenti per analogia, condizioni incompatibili col carattere scientifico del sillogismo di I figura. Oltre alla funzione causale instaurata dal termine medio nelle premesse, esiste una seconda condizione del sillogismo scientifico: l’origine incontrovertibile delle premesse, che devono essere universali  e già note ossia VERITA’ PRIME, non suscettibili di ulteriori dimostrazioni e perciò evidenti. Le verità prime sono colte in due modi, INTUIZIONE e INDUZIONE.
Si chiama intuizione l’atto, puro e semplice, che ci permette di cogliere i principi indimostrabili della scienza. Poiché questi principi non sono sempre presenti all’intelletto, spesso bisogna ricavarli mediante il processo induttivo che giunge all’universale a partire dal particolare, la cui funzione deve però essere sempre mediata dall’intuizione stessa, poiché l’induzione da sola non arriverebbe mai a una forma conclusiva. Come si può notare, queste funzioni,  apprensive e astrattive, si discostano dall’oggettività della logica per giungere a implicazioni ontologiche, metafisiche e psicologiche. 
Viene in ultima analisi dedicato uno spazio per spiegare il motivo per cui la logica aristotelica non si può dire puramente formale: ciò dipende dal fatto cje nel sillogismo scientifico il predicato dovrebbe essere espresso nella più corretta forma di appartenenza piuttosto che in quella copulativa, a significare l’inclusione delle sostanze seconde negli individui a cui vengono predicate.

ARISTOTELE - LEZIONE 32
La suddivisione del sapere e le origini del problema metafisico.
La filosofia prima e le quattro cause.

32.1 - Si è già osservato che la logica non è una scienza come tutte le altre in quanto non prescrive un contenuto ma solo la strumentazione necessaria al ragionamento, e per questo il corpus logico aristotelico viene definito organon, cioè strumento. Le altre scienze hanno un contenuto, che può essere ordinato e classificato in base allo scopo o alla razionalità: questo aspetto rimanda necessariamente tutte le scienze a una metafisica, quella che Aristotele chiama filosofia prima, poiché ha il compito di ricondurre il contenuto dell’esperienza ricavata dalla materialità della percezione sensibile  a quelle dotazioni non-empiriche che fanno parte della soggettività, ossia il pensiero e il linguaggio: infatti il problema metafisico consiste nella domanda “come è possibile che l’elemento A nel pensiero e nel linguaggio corrisponda ad A anche nella realtà?”, Aristotele specifica che è necessario dapprima identificare il tipo di realtà con cui abbiamo a che fare e in secondo luogo la relativa FORMA DI RAZIONALITA’ che viene espressa.
Abbiamo quindi le SCIENZE TEORETICHE, che hanno come oggetto il vero in sé - senza alcuna finalità esterna - e sono per questo scienze puramente contemplative, come la fisica, la matematica e la filosofia prima. La fisica ha per oggetto gli enti naturalidel mondo esterno CHE SONO INDIPENDENTI DAL PENSIERO e soggetti al movimento e al divenire. Non è una scienza astratta e quantitativa degli enti, che cerca le leggi dei corpi, ma qualitativa. La matematica ha per oggetto numeri e figure, enti immutabili ma privi di realtà propria e per questo irrimediabilmente DIPENDENTI DALLA MATERIA: come generi e sono dipendenti dai corpi anche numeri e figure sono legati alla materia e possono essere separati da essa attraverso il pensiero. Si tratta di una dipendenza ontologica e non logica in quanto il pensiero non li crea, esistono già de re (REALISMO MODERATO o CONCETTUALISMO). La filosofia prima invece ha per oggetto l’essere nei suoi due aspetti, quello eterno e immutabile di Dio (e in questo caso è teologia) sia l’essere in quanto tale e comune a tutte le cose (e in questo caso è METASCIENZA in quanto fondamento di tutte le altre scienze).
Accanto alle scienze teoretiche sono collocate le scienze PRATICHE, etica e politica. Il loro scopo è l’agire, e il loro oggetto sono norme e valori. A differenza delle scienze teoretiche esse non sono necessarie e immutabili ma coincidono con l’agire: non presuppongono quindi la conoscenza ma una dimensione assolutamente pratica che giustifica il senso stesso delle azioni. 
Abbiamo infine le scienze POIETICHE o produttive, legate al sapere tecnico e artistico. A differenza delle scienze pratiche qui lo scopo è il fare anzi la cosa fatta, e questo indipendentemente dal comportamento di chi la produce. Se la razionalità pratica è INTERNA, la razionalità poietica è ESTERNA e presuppone una dipendenza dell’uomo dall’oggetto prodotto: questo avvicina i prodotti dell’arte e della tecnica alla natura.

32.2 - La logica aristotelica, dando la possibilità di predicare la non identità, traspone in ambito linguistico-formale il carattere molteplice della realtà, costituita di individui, generi, specie ed entità supreme: a questo proposito, il problema metafisico dovrà quindi essere articolato in base a questi aspetti, compendiabili nel concetto di EQUIVOCITA’ DELL’ESSERE. La connessione predicativa esprime tuttavia l’unità: a differenza della logica, che ha il compito di scomporre la realtà nei suoi vari aspetti, la metafisica ha invece il compito di ricondurre tutti questi aspetti a dei principi unitari.  Il carattere naturalistico e organicistico della filosofia aristotelica ripropone perciò il PROBLEMA DEI PRINCIPI, orientato sul carattere immanente e continuo della sostanza. Un sapere di questo genere non può essere di tipo assertorio o ipotetico-ideale ma DEDUTTIVO e legato quindi al sillogismo scientifico, basato su premesse e conclusioni: poiché la realtà è una serie di CAUSE ed EFFETTI il metodo “archeologico” della metafisica è l’AITIOLOGIA (da aitios,  causa) ossia il sapere attraverso le cause. Tutto ciò che esiste deve avere una causa, ad eccezione delle CAUSE PRIME  che non sono causate.
Aristotele distingue quattro cause (EFFICIENTE, FORMALE, MATERIALE e FINALE) già note al pensiero tradizionale: tuttavia la metafisica aristotelica è interessata alle cause prime, in quanto ontologia fondamentale, poiché essa indaga l’essere in quanto tale. Proprio questo aspetto rivela la metafisica non solo come AITIOLOGIA ma anche come OUSIOLOGIA, cioè scienza della sostanza (ousia). Accanto a questi aspetti occorre sottolineare che l’interesse fondamentale della metafisica riguarda il principio. Ora, questo principio non può essere molteplice, altrimenti risulterebbero dei principi relativi, finiti, e dipendenti tra di loro: è necessario dunque che il principio sia uno, e viene identificato con Dio. Per questo motivo la metafisica è anche TEOLOGIA.  Ma ancora, poiché tutto tende a un ordine universale garantito da un ente supremo, la metafisica che spiega questo ordine è anche TELEOLOGIA cioè scienza delle finalità ultime della realtà.

32.3 - In quanto aitiologia (o eziologia) la metafisica è la scienza delle cause. In base all’esperienza è possibile risalire alla causa di un evento, ma questa conoscenza non è oggettiva e universale ma soggettiva e particolare. Una scienza non può fermarsi al particolare, ma deve contenere il “perché” ossia una condizione riconosciuta valida da tutti i soggetti conoscenti. I primi due aspetti che vengono astratti - cioè pensati - nella conoscenza sono la MATERIA e la FORMA: la materia è solitamente soggetta al mutamento (CAUSA MATERIALE), la forma invece è l’aspetto di questo mutamento (CAUSA FORMALE): per esempio l’uomo è fatto di scheletro e organi interni (materia) e di ragione e intelletto, sentimenti e animo (forma). Queste due cause sono dette STATICHE poiché ci mostrano solo un punto di vista - quello dell’oggetto nel momento presente - ma non ci raccontano la sua storia, ossia l’inizio e la fine del processo di trasformazione. Dunque a queste due cause se ne affiancano altre due DINAMICHE che evidenziano la forza che ha generato il movimento, la direzione verso cui tende e l’obiettivo finale della trasformazione. Queste due cause sono la CAUSA EFFICIENTE, che fa iniziare il movimento, e la CAUSA FINALE, che lo indirizza verso un obiettivo: per esempio, restando nel paragone col copro umano paragoniamo la causa efficiente ai muscoli e ai nervi che fanno muovere il corpo e la causa finale al luogo di  destinazione di una qualsiasi  persona.
Le cause non sono però tutte uguali, non sono sullo stesso piano: la causa formale e la causa finale stanno su un piano più alto di quella efficiente e di quella materiale, poiché forma e scopo  danno il senso della realtà. Inoltre nei principi causali c’è sempre omogeneità tra le cause e gli effetti: genere causa genere, le cose particolari causano cose particolari, le cose possibili causano cose possibili, e così via, non può esistere un salto tra le cause.
Le cause sono principi di realtà (ONTOLOGICI cioè relativi all’esistenza delle cose) e principi di intelligibilità (GNOSEOLOGICI cioè relativi alla conoscenza delle cose): esse si configurano come una forza irresistibile a determinare il loro essere e il loro agire.

ARISTOTELE - LEZIONE 33
L’ontologia, la teoria della sostanza e la teologia

33.1 - Dopo il problema dei principi, il secondo problema della metafisica è quello ontologico, concernente la forma dell’essere. Si tratta qui di superare l’univocità ASSOLUTA di Parmenide, che predicava l’identità di tutte le cose, e l’univocità RELATIVA di Platone, che giustificava la non identità ricorrendo al mondo delle idee e dunque alla trascendenza. 
Per Aristotele l’essere è caratterizzato da una molteplicità di significati: la realtà, che è unitaria, si costituisce di INDIVIDUI, “sinolo di materia e forma”, che costituiscono le SOSTANZE PRIME, le uniche a esistere veramente in quanto realtà; mentre generi, specie e categorie (cioè i generi sommi) sono SOSTANZE SECONDE ed esistono solo in relazione all’individuale. L’essere non può però riguardare in modo esclusivo i soli individui: se così fosse infatti avremmo un’omonimia e un’equivocità, ossia useremmo dei nomi simili per indicare le cose: si tratta del NOMINALISMO in cui l’universale esiste solo nel linguaggio come un puro nome. Ma l’essere non può riguardare nemmeno in modo esclusivo le sostanze seconde: se così fosse si porrebbe infatti al di fuori della considerazione ontologica proprio ciò che giustifica l’esistenza, ossia l’individuale. Ma la vera difficoltà sarebbe che se l’essere fosse un genere, una specie o una categoria, perderebbe il suo carattere universale e trascendentale. Infatti ogni termine categoriale si comprende mediante una categoria complementare che lo contraddice, un termine negativo che si contrappone ad esso (esempio: bianco, non bianco), e nel caso dell’essere la categoria complementare è il non essere che nega l’esistenza; inoltre se così fosse l’essere non esisterebbe universalmente ma solo in modo attuale, quando cioè viene pensato, e quindi basterebbe pensare qualsiasi cosa per giustificare che essa è. Tutte queste difficoltà sono riassunte nei concetti di UNIVOCITA’ e di SINONIMIA, dovuti alla conformità dell’essere ai generi e alle specie e ciò causerebbe una diversa interpretazione del significato dell’essere che da molteplice diventerebbe univoco, come sostenuto da Parmenide e da Platone. Deve dunque esistere una funzione intermedia di essere che concili l’omonimia e la sinonimia dei significati.
In poche parole il significato di essere non può quindi essere circoscritto e incasellato entro i termini categoriali, non può avere solo un significato molteplice o solo univoco, ma deve avere una “libera circolazione” tra tutti i generi: il passaggio da un genere all’altro dell’essere, così come nelle quattro cause, non avviene per similitudine o identità ma per ANALOGIA. Infatti l’essere assume nolti significati ma non può mai essere uguale, e allo stesso tempo non può certo essere ricondotto a un solo significato. Il solo modo per conciliare questi due aspetti - sinonimia (molti significati) e univocità (un solo significato) - è appunto il concetto di analogia. Come si ricorderà anche Platone aveva usato l’analogia, riferita a una proporzione verticale tra mondo sensibile e mondo ideale, ma Aristotele si muove in un diverso contesto, riducendo tutti i significati dell’essere a una sola realtà. Al centro dell’indagine aristotelica c’è infatti la SOSTANZA per cui OGNI COSA ESISTE IN QUANTO SOSTANZA, IN QUANTO SUA AFFEZIONE O ACCIDENTE, IN QUANTO SUA CAUSA GENERATRICE E DISTINTRICE. Non può esistere altro significato dell’essere se non in riferimento alla sostanza. Si tratta della relazione di PARONIMIA già esaminata nella lezione 30. 
Nella filosofia medievale questo tipo di relazione viene usato in ambito teologico per riferire i rapporti di somiglianza a Dio, secondo la cosiddetta ANALOGIA ATTRIBUTIVA, che a differenza di quella proporzionale presenta una relazione a tre termini (esempio: la sapienza di Socrate è simile alla sapienza di Dio). Si tratta però di una forzatura, peraltro imperfetta, sia perché nella filosofia aristotelica l’analogia è sempre di natura proporzionale, sia perché questa analogia attributiva implica una relazione tra soggetti e non la relazione diretta dei molti con un solo soggetto, cioè la sostanza. Questo aspetto, che rimanda al concetto platonico di partecipazione, mostra peraltro un solo significato dell’essere, quello teologico, che non esaurisce per evidenti motivi il discorso sulla funzione della sostanza.

33.2 - Aristotele individua quattro significati di essere:

1 - essere ACCIDENTALE, ossia non necessario, possibile e contingente;
2 - essere ESSENZIALE, per sé, autonomo da qualsiasi genere;
3 - essere MENTALE, secondo cui è vero ciò che esiste ed è falso ciò che non esiste, secondo il criterio corrispondentistico di verità, per cui è vero ciò che corrisponde a realtà;
4 - essere DINAMICO, come potenza (dynamis) e come atto (energheia), che attraversa tutte le categorie.

Come si vede questi quattro significati suppongono l’essere delle categorie e da queste l’essere della sostanza, secondo una relazione paronimica che ha carattere equivoco sul piano ontologico ed univoco su quello logico.

33.3 - Aristotele ha dunque ridotto il problema dell’essere al suo aspetto più essenziale, ossia la sostanza o ousìa. Adesso bisogna definire cosa è la sostanza. Questo problema si svolge in due questioni: cosa è la sostanza? quali sostanze esistono?
Ogni cosa della nostra esperienza sensibile è un SINOLO (cioè unione) DI MATERIA E FORMA. La forma è l’elemento che caratterizza una cosa, e non servirebbe se non fosse riferita a una materia, e viceversa una materia senza forma non sarebbe determinata. Materia e forma hanno una diversa rilevanza a seconda della prospettiva di indagine che viene adottata, ma in ogni caso la cosa certa è che la materia esiste in quanto sostanza solo in modo improprio e derivato. La prospettiva di indagine invece ha importanza nella relazione tra forma e sinolo. Infatti da un punto di vista empirico e descrittivo la vera sostanza è il sinolo, ma da un punto di vista ontologico-metafisico la sostanza è la forma in quanto causa e fondamento dell’essere.
Dunque il sinolo è il concetto più elevato di sostanza a livello ontico, cioè sul piano puramente esistenziale, mentre la forma rappresenta il concetto più elevato di sostanza sul piano ontologico, ossia riguardo la possibilità della sua esistenza. Quando conosciamo la forma viene trattata come una specie o un genere, con un significato universale astratto, mentre da un altro punto di vista la sostanza è una realtà non universale: questo dipende dai diversi significati dell’essere.

33.4 - Le sostanze sensibili sono dunque INDIVIDUI EMPIRICI. Dopo aver chiarito questo, Aristotele passa a esaminare le sostanze sovrasensibili o immateriali. A differenza delle cose empiriche, soggette alla posizione di realtà, la forma nel suo grado più elevato, ossia la forma in quanto causa e fondamento di tutte le cose, deve esistere, poiché tutta la natura tende a un aspetto unitario e gli individui sono generati da un principio. Non essendo possibile, empiricamente, risalire a un principio di tutte le cose, Aristotele esamina dunque l’aspetto COSMOLOGICO della metafisica, individuando una FORMA PURA, primordiale e necessaria, origine e fondamento di tutte le forme. In quanto fondamento essa è la CAUSA PRIMA del movimento e ATTO PURO all’origine di tutte le potenze e di tutti gli atti, che Aristotele definisce significativamente MOTORE IMMOBILE: si tratta dunque di un atto compiuto (entelechia), non soggetto a cambiamento, quindi perfetto, forma e condizione di tutte le forme, di tutto ciò che è, al di fuori del quale nulla può essere. Questa forma pura, questa causa pura, è Dio. La TEOLOGIA, o scienza del divino, è perciò l’ultimo aspetto della metafisica o filosofia prima. La teologia aristotelica si configura anche come TELEOLOGIA o scienza dei fini ultimi, in quanto il movimento che inizia da Dio non è considerato come  una causalità efficiente - non essendo Dio una potenza ma un atto puro - ma una causalità finale, ragione e scopo di tutti i movimenti.
Dio non è separato dal mondo ma è in un rapporto di continuità con esso. Ciò significa che Dio non è per Aristotele un creatore come il Dio della tradizione ebraico-cristiana ma generatore del tempo e del movimento, che sono eterni e continui. Questa relazione di continuità riflette la doppia natura di Dio: così come l’essere è al tempo stesso univoco ed equivoco a seconda del punto di vista da cui lo siguarda (logico o metafisico) così anche Dio è immanente e trascendente al tempo stesso; immanente come fine delle cose, trascendente in quanto principio. Egli è pensiero puro, o pensiero di pensiero, ma non si rivolge direttamente alle cose in quanto non è un creatore nel vero senso della parola. Questo rapporto fa sì che la teologia aristotelica sia un PANTEISMO MODERATO, in cui la sostanza divina è al tempo stesso quasi impersonale, e riconoscibile nella natura e intelligenza o atto personificata dal movimento. 

ARISTOTELE - LEZIONE 34
Il mondo fisico

34.1 - La fisica è la filosofia seconda. Ha per oggetto i fenomeni sensibili e il loro movimento, in quanto soggetti al divenire. Il suo nome deriva dal greco physis, natura, l’ambito dell’oggettività materiale, caratterizzata dall’instabilità e dal mutamento. La fisica è una scienza teoretica: non si limita a descrivere gli oggetti materiali ma cerca di individuarne i criteri di comprensione. 
La fisica aristotelica si distingue dalla fisica moderna, poiché in quanto scienza teoretica e contemplativa non ha alcun carattere sperimentale o tecnico ma si tratta a tutti gli effetti di una metafisica o ontologia della natura, una indagine di tipo qualitativo. Proprio il suo carattere di scienza riabilita la conoscenza del mondo fenomenico, ambito del non essere parmenideo e soggetto al controllo del mondo del vero essere ideale platonico. In quanto metafisica naturale la fisica ha in comune con l’ontologia i principi dell’essere. Essa ha un’impostazione razionale-deduttiva, ed è costituita da una struttura semplice, prossima alla tautologia, in cui l’essere è esattamente come appare, spiegabile attraverso gli elementi sostanziali della metafisica stessa: potenza, e atto, materia e forma, essenza e accidente.

34.2 - Individuato l’oggetto della fisica (ossia i fenomeni sensibili ed il loro movimento) passiamo a individuarne i principi, cioè gli elementi o aspetti che lo determinano. Sono quattro e sono divisi in:

due CONDIZIONI ONTOLOGICHE, che riguardano cioè i fenomeni fisici in sé stessi, ovvero la MATERIA o SOSTRATO, elemento indeterminato e in attesa quindi di determinazione, e la FORMA in quanto ESSENZA, causa motrice e fine di tutte le determinazioni;

due CONDIZIONI FENOMENICHE che riguardano il movimento degli enti fisici, ovvero l’AUTONOMIA CINETICA, secondo cui tutti gli esseri hanno in comune dentro di sé le condizioni del movimento, e il DIVENIRE in quanto REALIZZAZIONE DEL MOVIMENTO, sinonimo della trasformazione di tutti gli esseri.

Nel dettaglio:

PRIMA CONDIZIONE ONTOLOGICA - LA MATERIA (hyle): è l’elemento che rappresenta l’esistenza di una causalità necessaria e irrazionale, legata al divenire e obbediente al caso. Come tale, essa possiede le caratteristiche della possibilità in quanto divenire e di necessità in quanto resistente a ogni finalizzazione. Alla materia vanno infine riconosciute tutte quelle variazioni che concorrono a distinguere un individuo da un altro (cioè il PRINCIPIO DI INDIVIDUAZIONE).

SECONDA CONDIZIONE ONTOLOGICA - LA FORMA (morphè): è la “causa intelligente” (esterna) dell’arte, principio di organizzazione della materia. Come tale possiede due aspetti, uno STATICO-ESSENZIALE, legato alla stabilità e alla permanenza, e uno DINAMICO-FUNZIONALE, legato invece al movimento e subordinato all’aspetto statico-essenziale.

PRIMA CONDIZIONE FENOMENOLOGICA - L’AUTONOMIA CINETICA: ogni movimento è autonomo in quanto le sue condizioni sono già comprese nel sinolo di materia e di forma. La natura non opera che da sé stessa e per sé stessa.

SECONDA CONDIZIONE FENOMENOLOGICA - IL DIVENIRE: il movimento è mutamento e trasformazione, ossia divenire in senso generale, nel senso di un passaggio determinante da qualcosa che “prima non era” a qualcosa che “adesso è”, dando quindi una nuova identità al non essere.

34.3 -  Il movimento è per Aristotele un dato di fatto della natura che non ha bisogno di essere giustificato ma solo spiegato. Si tratta di una modifica dello stato dell’essere da una posizione a un’altra, scandita dal passaggio dalla potenza all’atto. Dichiaratamente realista, Aristotele afferma che la posizione di partenza di una trasformazione fisica non è un non essere assoluto, bensì relativo, poiché si tratta di una realtà in potenza, in quanto l’ente in fase di modifica resta sempre lo stesso, cambiando solo la sua posizione. In poche parole non esiste per Aristotele qualcosa che “non esiste”. Potenza e atto però da sole non bastano a spiegare il movimento: a rendere possibile la trasformazione, ossia il passaggio dalla potenza all’atto, concorrono le due condizioni ontologiche, materia e forma, e la STERESI, o mancanza. La forma è ciò che l’essere diviene, il suo fine; la materia è ciò che l’essere è nel divenire; la steresi è invece ciò che “non è” nel divenire, ossia il divenire nella sua essenza, colto nella sua tensione verso l’essere. Il divenire conduce quindi alla pienezza dell’essere, attraverso il passaggio dalla potenza all’atto. Se applichiamo questo aspetto alle categorie otterremo 4 tipi di movimento:

secondo la sostanza: GENERAZIONE e CORRUZIONE;
secondo la qualità: ALTERAZIONE;
secondo la quantità: AUMENTO  e DIMINUZIONE;
secondo il luogo: TRASLAZIONE.

Innanzitutto bisogna dire che il movimento si riferisce al passaggio tra due termini contrari all’interno dello stesso essere e rispetto allo stesso genere: la sostanza - rispetto alle altre categorie - implica un carattere diverso, poiché generazione e corruzione riguardano un passaggio strutturale dall’essere al non essere (e viceversa) che sono termini CONTRADDITTORI, mentre le trasformazioni avvengono di solito tra termini contrari all’interno della stessa sostanza (per esempio: caldo e freddo). Il mutamento sostanziale, cioè la trasformazione, rappresenta il limite della continuità del movimento.: in tal senso non parliamo più di steresi o contrarietà ma di una negazione assoluta (per esempio quando un uomo muore). La natura viene rappresentata come un grande organismo vivente in cui ogni cosa è parte della totalità. Agli estremi di questa totalità ci sono la FORMA PURA (cioè Dio) e la MATERIA PURA, principi opposti e contraddittori ma coincidenti nella loro caratteristica di purezza. 

34.4 - La concezione aristotelica di spazio ha influenzato il dibattito intorno alla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Lo spazio non è un corpo fisico ma un luogo (topos), autonomo e indipendente dai corpi fisici. Esso non potrebbe avere un corpo, altrimenti dovrebbe trovarsi a sua volta in un luogo, e deve avere un essere altrimenti i corpi fisici non esisterebbero, ovvero sarebbero privi di posizione di realtà. In quanto tale lo spazio viene definito da Aristotele il LIMITE IMMOBILE E IMMEDIATO DEL CONTENENTE IN QUANTO CONTIGUO AL CONTENUTO. Esso non va inteso come un recipiente, ossia come un contenitore che può essere trasportato, nè si può ammettere che sia vuoto. A differenza degli atomisti Aristotele considera nello spazio l’inammissibilità del vuoto e l’esistenza di LUOGHI NATURALI, a cui ciascuno dei quattro elementi tende quando non trova ostacoli. Nell’universo avremo dunque un ALTO e un BASSO come determinazioni naturali oggettive, ossia non relative al soggetto: essi costituiscono un insieme finito, delimitato dal CIELO, che si muove circolarmente su sé stesso. 
Il mondo sensibile è costituito da due SFERE, una SUBLUNARE, caratterizzata da diversi generi di movimento, in particolare dal movimento rettilineo, la cui materia costitutiva sono i quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco, e una SOPRALUNARE o CELESTE, caratterizzata dal movimento circolare e continuo, perfetto, costituita dall’ETERE o QUINTA ESSENZA.
Alla nozione di spazio è collegata la nozione di tempo. Esso è relativo in senso fisico al movimento dei corpi e in senso psicologico all’anima. In un senso fisico il tempo è il numero e la misura del movimento, scandito dal prima e dal poi, secondo la teoria degli INTERVALLI ossia degli ISTANTI NUMERABILI. Se il tempo è numero e misura è necessario qualcuno che possa numerare e misurare, e in senso psicologico è necessaria un’anima che possa pensare il numero, in mancanza della quale non esisterebbe il tempo ma solo il movimento dei corpi.
Aristotele ammette l’infinito. Egli sostiene la possibilità per lo spazio, il tempo e il numero di aumentare e diminuire in modo POTENZIALE, ossia senza mai esaurirsi. L’infinito esiste dunque solo in modo potenziale, poiché collegato alla quantità, presente nel solo mondo sensibile: questo porta Aristotele, pitagoricamente, a considerare l’infinito imperfetto rispetto al finito perfetto.

ARISTOTELE - LEZIONE 35
Il mondo psichico

35.1 - La psicologia, o dottrina dell’anima, costituisce parte della biologia, quale scienza degli organismi viventi, e possiamo considerarla il compimento della metafisica, indispensabile per completare il concetto di sostanza.  Nella sua indagine analitica Aristotele spiega l’origine delle sostanze seconde, generi e specie, ma non è in grado di definire in modo apofantico (deduttivo) le sostanze prime, limitandosi a fornirci un criterio per la loro individuazione: la causa di questo limite è proprio la caratteristica estensionale dell’indagine analitica, basata sull’esperienza, che privilegia le classi. E in questo senso la psicologia diventa uno strumento fondamentale da accoppiare al principio di individuazione.

35.2 -  La sensazione è il naturale canale di scambio tra la psiche e il mondo esterno. La sua relazione con esso ha origine nella fondamentale distinzione tra esseri animati, cioè viventi, e inanimati. Tutte le cose sono sinolo di materia (potenza) e forma (atto), in cui l’elemento corporeo è proprio la materia in trasformazione, mentre la forma o atto ne costituisce l’anima cioè la sua individuazione sostanziale. Aristotele definisce l’anima come FORMA DI UN CORPO NATURALE CHE HA LA VITA IN POTENZA.
Questa concezione ileomorfica ha due conseguenze, la prima è quella di staccare una volta per tutte l’anima dal contesto fisico e naturalistico tipicamente presocratico, conferendole una caratteristica immateriale, la seconda è quella di evitare la contrapposizione col corpo, attribuendole la caratteristica di essere al tempo stesso immanente e trascendente: l’anima è secondo la concezione ileomorfica inseparabile dal corpo e ad esso legata in quanto sua forma. Ma l’anima non può essere solo contingente, altrimenti non potremmo arrivare a conoscere le forme sovrasensibili. Così come Platone anche Aristotele individua tre parti o funzioni dell’anima, classificate non secondo un criterio etico e morale ma biologico. Esse sono:

parte VEGETATIVA - serve a regolare la nascita, la nutrizione, la crescita e la riproduzione;
parte SENSITIVA e MOTORIA - da qui provengono le sensazioni e i movimenti del corpo;
parte INTELLETTIVA o RAZIONALE - presiede al pensiero, alla speculazione e all’elaborazione concettuale.

Queste tre parti, che sono in realtà funzioni, rispettano un ordine gerarchico che va dal termine più semplice al più complesso, secondo un meccanismo di inclusione ed esclusione: il termine più semplice esclude gli altri, mentre quello più complesso racchiude tutti quelli al di sotto. Ad esempio l’intelligenza non può prescindere dalla nutrizione, mentre quest’ultima può stare benissimo anche da sola. Occorre infine precisare che il criterio di distinzione non è di rdine qualitativo ma operativo. Così come Anassagora anche Aristotele ritiene che ogni parte possieda le qualità del tutto e che quindi svolga una funzione complementare alle altre parti del tutto, pur nella sua specificità funzionale.

35.3 - L’anima vegetativa occupa un grado molto basso nella gerarchia aristotelica, mentre hanno maggiore rilevanza sensibilità e intelletto. Tali facoltà hanno in comune il carattere TRANSIENTE, entrambe si rivolgono a un oggetto, che ne specifica le funzioni in base al tipo. Questa caratteristica è caratteristica della psicologia aristotelica e anticipa il concetto più recente di intenzionalità della coscienza, secondo cui la coscienza è sempre “coscienza di” qualcosa. Se la natura transiente è comune a sensazione e intelletto, vediamo ora le caratteristiche specifiche.

SENSAZIONE - Per Aristotele non esistono idee innate: tutto ha infatti inizio dalla sensazione. Essa non è una facoltà passiva che prevede una modifica dell’organo di senso ricevente, bensì attiva, e comporta un’ALTERAZIONE determinata dall’oggetto sensibile. Questa alterazione può essere definita come il passaggio della facoltà sensibile dalla potenza all’atto. Essa è a tutti gli effetti un PROCESSO DI ASSIMILAZIONE, poiché associa e rende simili l’oggetto sensibile e la facoltà stessa, in modo differente al processo della nutrizione poiché riguarda solo la forma dell’oggetto e non la materia come nella nutrizione. La sensazione quindi è insieme un movimento e una sintesi di sensibile e senziente, poiché mette insieme la potenza dell’oggetto di essere percepito e l’avvenuta sensazione che è l’atto. Quindi l’atto comune è il ponte che unisce il mondo fisico e il mondo psichico. Per quanto concerne la possibilità di distinguere gli stimoli sensibili Aristotele precisa che oltre ai cinque sensi  ordinari esiste anche un sesto senso noto come senso comune, a cui vanno aggiunte altre facoltà come l’immaginazione e la memoria e sopratutto una facoltà elementare che presiede alla capacità di discriminare tra le varie stimolazioni. A differenza dei cinque sensi che sono specifici a seconda dell’oggetto - per esempio il colore si vede con gli occhi, il profumo si sente col naso - il senso comune è appunto comune a più sensi - per esempio la percezione del movimento o della figura - pur mancando di un suo proprio organo sensoriale. Si tratta di una rudimentale facoltà di giudizio, collegata all’IMMAGINAZIONE, intesa come una facoltà attiva e spontanea in grado di interpretare la sensazione. Ma la sensazione non si limita alle sole facoltà teoretiche della percezione e dell’immaginazione: essa presiede infatti anche al desiderio che è una facoltà pratica. La funzione appetitiva si orienta in senso positivo (desiderativo) o negativo (avversativo) verso un oggetto, secondo uno schema razionale che, muovendo da premesse verso una conclusione, si configura come un vero e proprio SILLOGISMO PRATICO.

INTELLETTO - Questa facoltà si colloca a un livello più alto rispetto all’anima sensitiva alla quale è peraltro collegata, e non ha bisogno di un organo suo proprio per conoscere né di un contatto diretto con l’oggetto. Aristotele spiega la conoscenza intellettuale ricorrendo ancora una volta al passaggio dalla potenza all’atto, e descrivendo la differenza tra la possibilità del conoscere e l’attualità della conoscenza stessa: l’attualità comprende sia il sensibile sia l’intelligibile. Aristotele distingue due tipi di intelletto, uno ATTIVO o produttivo e uno PASSIVO. Quello passivo rappresenta la possibilità della materia di “essere” qualcosa, quello attivo invece rappresenta l’attualità del conoscibile: come accendere la luce in una stanza buia e illuminare gli oggetti presenti rendendoli visibili e perciò conoscibili. Questa caratteristica produttiva riporta l’intelletto attivo al suo collegamento col principio divino, collegamento che va stabilito tenendo presente che il principio divino è per Aristotele in un rapporto di continuità col reale e che l’attività creatrice non avviene ex nihilo: lo stesso intelletto attivo costituisce una attività che “crea” attraverso le immagini.

ARISTOTELE - LEZIONE 36
Il mondo estetico, etico e politico

36.1 - Aristotele suddivide le scienze in due grandi gruppi, quelle teoretiche e contemplative e quelle pratiche, a loro volta suddivise in base a due ambiti, quello dell’agire e quello del fare. La scienza assume un carattere di necessità nelle scienze contemplative, dove si ha bisogno di una conoscenza rigorosa, giustificata dalla logica; ma esiste anche una logica relativa alle scienze pratiche, che si fonda su un sapere probabile, dato dalle opinioni, dalle convenzioni e dalle tradizioni. Pur avendo un contenuto inferiore rispetto al sapere teoretico, il sapere pratico ha una struttura definita che può essere formalizzata e tale formalizzazione riguarda l’intero ambito pratico, relativo sia all’agire sia al fare. Aristotele discute la forma logica del sapere non apodittico in due opere dell’Organon, i TOPICI e gli ELENCHI SOFISTICI. Si tratta di una logica non scientifica ma comunque rigorosa, tanto da ricondurre ai sillogismi di seconda e terza figura, dato che solo i sillogismi di prima figura possono essere considerati veramente scientifici in quanto le due premesse sono certamente vere e dimostrabili. Nel caso del sillogismo dialettico invece, nonostante l’inferenza sia corretta, non possiamo stabilire con certezza se le due premesse siano vere e per questo si fa ricorso a topici o “luoghi” entro cui viene inquadrata una discussione fondata su opinioni: la loro caratteristica è, come si ricorderà, quella di non essere espressi in una forma affermativa con la conclusione “staccabile” dalle premesse, ma nella forma condizionale di “se.... allora....”.  Nel campo del possibile, dove non possiamo accertare la verità delle premesse, seppur un ragionamento è sintatticamente corretto, la fallacia delle argomentazioni utilizzate ne compromette la conclusione. Così abbiamo: a) i sillogismi ERISTICI in cui le premesse sembrano fondate sulle opinioni, ma inrealtà non lo sono; b) i PARALOGISMI, ragionamenti errati basati su false argomentazioni; e infine c) i sillogismi RETORICI, basati sugli entimenti, in cui si ignora non solo la verità della conclusione ma anche la correttezza dell’inferenza. Proprio questa forma argomentativa collega la logica topico-dialettica all’ESTETICA, articolata in POETICA o teoria dell’arte e RETORICA o teoria del discorso persuasivo. Poetica e retorica sganciano dunque l’evento particolare dalla realtà empirica facendogli assumere un aspetto universale: non si tratta ovviamente di un universale logico ma di un universale concreto, cioè simile al vero. Nell’arte l’impossibile e l’irrazionale possono apparire simili al vero,poiché la funzione imitativa dell’arte li rende verosimili e quindi credibili. Aristotele ritiene che sia preferibile un impossibile verosimile a un possibile non verosimile: questo perché l’estetica si fonda su una struttura logica comunque rigorosa, che conferisce all’impossibile una verità anche se si tratta di qualcosa di falso, e che implica due aspetti, quello dell’utilità (pragmatismo) e dell’imitazione della natura. Il primo aspetto viene espresso nella funzione catartica della tragedia, che purifica e ripulisce dalle passioni negative, mentre il secondo si applica nella concezione del bello, e quindi riguarda misura e proporzione delle forme, limiti e simmetria. 

36.2 - i concetti sopra esposti - ossia verosimiglianza, probabilità, possibilità, credibilità, proporzione - stabiliscono delle relazioni strutturali tra il mondo estetico e quello etico, ossia l’ambito pratico dell’agire umano, in cui si indaga la condotta individuale e sociale dell’uomo. Il sapere pratico concerne la conoscenza dei fini dell’agire in quanto essenziali, immutabili e necessari. La loro peculiarità è quella di essere VALORI IN SE’: non è importante se essi siano tanto immanenti o trascendenti, ma che abbiano una loro oggettività, una loro realtà e di una loro perfezione, in quanto corrispondenti al bene. Essi devono sopratutto essere autonomi e indipendenti da qualsiasi volontà o impulso. Nel mondo greco, specie presso i Sofisti, si sviluppa però anche un altro tipo di agire pratico, che non ha nulla a che vedere con l’etica del fine, ma riguarda invece la ricerca delle cause e dei motivi dell’agire umano. In questo caso non possiamo parlare di valori in sé ma di utilità, di convenienza, di piacere e di vantaggio: l’azione non è più disinteressata e indipendente ma è viziata dallo scopo del raggiungimento. L’azione morale non si traduce in questo caso in un dover essere poiché è presente uno scopo da cui l’azione dipende (per esempio: SE  vuoi essere promosso ALLORA devi studiare, SE non vuoi finire in prigione ALLORA non devi rubare). Aristotele chiama genericamente il sapere pratico POLITICA, e lo suddivide in ETICA ossia scienza del bene, e POLITICA (in un senso più stretto) ossia scienza dello Stato. Questa dipendenza dell’etica dalla politica, seppure in un senso molto generico, richiama la tendenza tipica del pensiero greco di identificare l’uomo col cittadino: scopo del sapere politico è proprio quello di individuare il fine dell’agire umano, cioè il bene in sé, e i mezzi per raggiungerlo. Il traguardo è la felicità o EUDEMONIA: tutti gli uomini vogliono raggiungerla ma non sono d’accordo su cosa sia veramente. La felicità non va però confusa con l’onore, il piacere, o la ricchezza, che sono mutevoli e appaiono più come mezzi che come fini: essi vanno comunque perseguiti, con moderazione, ma devono dipendere da un fine superiore, intrinsecamente connesso alla natura umana, cioè la RAGIONE. La virtù propria dell’uomo è la volontà secondo ragione e questo coincide con la posizione gerarchica dell’anima razionale. Poiché sia la sensibilità sia l’intelletto concorrono alla conoscenza, è lecito attendersi che anche il sapere pratico, oltre a quello teoretico, sia determinato da entrambe le dimensioni psichiche. Questa è anche la ragione per cui il concetto di bene non è mai univoco, e il suo significato deve essere distinto in base ai sensi (impulsi, tendenze, passioni) o alla ragione (moderazione, controllo, dominio). Aristotele opera una distinzione tra le virtù ETICHE, ossia le condotte relative a un’applicazione “esterna” della volontà razionale, che hanno a che fare proprio coi sensi, e le virtù DIANOETICHE che sono le condotte propriamente razionali.
Le virtù etiche sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la giustizia e così via. Ogni individuo è caratterizzato da impulsi, tendenze e desideri, che fanno parte della sua formazione e della sua cultura. Data la complessità dell’uomo non è possibile fondare una scienza dei principi che possa indicare all’uomo cosa è giusto e cosa non lo è: ci si può solo affidare all’educazione e all’induzione, il cui esercizio spinge all’abitudine di compiere azioni buone. Le virtù etiche sono quindi acquisite con l’esperienza e nascono proprio da una disposizione a indirizzare il comportamento in mezzo alle diverse inclinazioni individuali. Così le passioni come il desiderio, l’ira, l’amicizia, la pietà, sono finalizzate  al raggiungimento del bene. Come si acquistano queste virtù e in cosa consistono? Le virtù etiche implicano la giusta proporzione, il GIUSTO MEZZO, tra eccessi e difetti. Il giusto mezzo esprime infatti l’affermazione etica della ragione: il coraggio è il giusto mezzo tra la temerarietà e la viltà; la temperanza è il giusto mezzo tra l’intemperanza e la dissolutezza. Le virtù etiche non sono valide sempre e ovunque ma hanno come unica norma la misura. Tra esse prevale la GIUSTIZIA, che consiste nel rispetto delle leggi dello Stato e abbraccia l’intera vita morale: nella giustizia è insieme compresa ogni virtù, sottolinea Aristotele, e come tale essa è la forma delle virtù etiche. La giustizia non è però una forma a sé stante, essa si esprime infatti nelle leggi dello Stato, che ne costituiscono la materia. Come tale essa costituisce misura e proporzione tra i membri della società: se la proporzione è di tipo GEOMETRICO, ovvero se distribuisce a ciascuno in base ai propri meriti, in un’uguaglianza di rapporti, saremo di fronte alla giustizia DISTRIBUTIVA; se la proporzione è invece di tipo ARITMETICO, ovvero distribuisce a ciascuno in parti uguali a prescindere dal proprio status, siamo di fronte alla giustizia RETRIBUTIVA, detta anche regolatrice o correttiva. Il contenuto universale delle leggi fa sì che sia la giustizia distributiva che quella retributiva non siano sempre adeguate al caso specifico: per questo motivo entrambe vanno ricomprese in una forma di giustizia superiore che applica di volta in volta al particolare la giusta correzione, o EQUO, che permette di adeguare la legge al caso specifico.
Le virtù dianoetiche, al contrario di quelle etiche che si realizzano esercitando la pratica empirica dell’abitudine, si realizzano con l’esercizio del pensiero. La  razionalità si rivolge a due tipi di oggetti, quelli necessari e sottratti al divenire e quelli soggetti al divenire. A queste due funzioni di oggettivazione sono collegate due tipi di virtù dianoetiche: le virtù della ragione TEORETICA, cioè INTELLIGENZA (nous), SCIENZA (episteme) e SAPIENZA (sophia), e le virtù della ragione PRATICA ovvero ARTE (techne) e SAGGEZZA (phronesis). La virtù teoretica per eccellenza è la sapienza, cioè la capacità di dedurre e guidare la verità, mentre la virtù pratica più importante è la saggezza, ossia la capacità di deliberare ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo, individuando i mezzi più idonei al raggiungimento di determinati fini. Va detto che la saggezza ci dice quali mezzi impiegare ma non ci dice quali fini siano giusti: a questo compito assolvono infatti le virtù etiche, che sono in grado di individuare casi particolari e decidere rispetto ad essi. La collaborazione tra la saggezza e le virtù etiche ci porta a considerare i fondamenti logici delle azioni pratiche. Infatti per poter decidere e deliberare occorre avere come punto di partenza una verità, che tuttavia, nella ragione pratica, non è mai fine a sé stessa.ma un mezzo, limitando così il concetto di verità in senso pratico a indicare ciò che è buono o giusto in un caso particolare. Questo aspetto permette ad Aristotele di superare il problema della conoscenza del bene dell’intellettualismo etico di Socrate e Platone: infatti la conoscenza del bene - non epistemica ma tipologica - è una condizione necessaria per agire correttamente ma non è sufficiente: sono necessarie anche la deliberazione e la scelta (che sono di carattere fronetico e non teoretico, ossia legate alla saggezza) altrimenti il bene resta solo a livello potenziale e ideale e non si concretizza. A cosa serve infatti conoscere il bene se poi  non si ha la forza di metterlo in pratica? Come si vede la conoscenza del bene non è dunque la condizione fondamentale per essere uomini saggi: non è necessario essere dei filosofi, basta essere coraggiosi, temperati e liberali, come lo furono molti statisti, Pericle ad esempio.

36.3 - L’uomo è un animale sociale, egli non può vivere infatti se non in comunità. Questa esigenza non fa capo solo a cause materiali ma sopratutto al fatto che solo nella comunità l’uomo realizza la sua più intrinseca natura,   quella razionale. Questa finalità viene espressa proprio dall’istituzione dello Stato, mezzo di elevazione spirituale di tutti i componenti di una comunità. Ogni membro della comunità è una parte di un intero, rappresentato dallo Stato, che quindi comprende e precede il singolo. Esistono anche altre forme associative che nascono prima dello stato, come la famiglia o il villaggio, che però rispondono a bisogni più concreti e diversi, e non realizzano certamente il significato più profondo della vita umana: infatti la caratteristica dello Stato è quella di essere costituito non da parenti, come la famiglia, o da uomini che perseguono un medesimo interesse produttivo, bensì da cittadini, diversi tra loro, legati non da interessi privati ma dall’agire per il bene della comunità a cui appartengono, esprimendo un interesse pubblico e collettivo. Questa finalità pubblica si esprime in diversi assetti costituzionali. Per Aristotele gli scopi di una costituzione sono essenzialmente due: determinare la sovranità e stabilire il funzionamento delle cariche. Di queste la sovranità è il problema più importante poiché riguarda la detenzione del potere legittimo e in base a essa si articolano le diverse forme dello Stato, a seconda che sia esercitata da uno (MONARCHIA), da pochi (ARISTOCRAZIA), o dalla maggior parte dei cittadini (POLITIA). La correttezza di tali forme dipende dal fatto che il potere viene esercitato nel pubblico interesse, ovvero a favore della collettività; quando ciò non avviene, cioè quando il potere viene esercitato per sé stessi, si hanno le cosiddette forme corrotte o degenerate che sono rispettivamente la TIRANNIDE, l’OLIGARCHIA  e la DEMOCRAZIA o DEMAGOGIA, in cui il potere della maggioranza dei cittadini, solitamente poveri e bisognosi, viene esercitato in funzione della sola maggioranza, scambiando così l’uguaglianza sul piano giuridico con quella sociale e antropologica. Tutte e tre le forme di potere, se esercitate correttamente sono legittime e buone ma Aristotele indica quale forma preferibile la politia, espressione del CETO MEDIO, la maggioranza agiata, più stabile e in possesso della misura e dell’equilibrio necessari al governo dello Stato.