venerdì 1 aprile 2016

36 - Aristotele

ARISTOTELE - LEZIONE 36
Il mondo estetico, etico e politico

36.1 - Aristotele suddivide le scienze in due grandi gruppi, quelle teoretiche e contemplative e quelle pratiche, a loro volta suddivise in base a due ambiti, quello dell’agire e quello del fare. La scienza assume un carattere di necessità nelle scienze contemplative, dove si ha bisogno di una conoscenza rigorosa, giustificata dalla logica; ma esiste anche una logica relativa alle scienze pratiche, che si fonda su un sapere probabile, dato dalle opinioni, dalle convenzioni e dalle tradizioni. Pur avendo un contenuto inferiore rispetto al sapere teoretico, il sapere pratico ha una struttura definita che può essere formalizzata e tale formalizzazione riguarda l’intero ambito pratico, relativo sia all’agire sia al fare. Aristotele discute la forma logica del sapere non apodittico in due opere dell’Organon, i TOPICI e gli ELENCHI SOFISTICI. Si tratta di una logica non scientifica ma comunque rigorosa, tanto da ricondurre ai sillogismi di seconda e terza figura, dato che solo i sillogismi di prima figura possono essere considerati veramente scientifici in quanto le due premesse sono certamente vere e dimostrabili. Nel caso del sillogismo dialettico invece, nonostante l’inferenza sia corretta, non possiamo stabilire con certezza se le due premesse siano vere e per questo si fa ricorso a topici o “luoghi” entro cui viene inquadrata una discussione fondata su opinioni: la loro caratteristica è, come si ricorderà, quella di non essere espressi in una forma affermativa con la conclusione “staccabile” dalle premesse, ma nella forma condizionale di “se.... allora....”.  Nel campo del possibile, dove non possiamo accertare la verità delle premesse, seppur un ragionamento è sintatticamente corretto, la fallacia delle argomentazioni utilizzate ne compromette la conclusione. Così abbiamo: a) i sillogismi ERISTICI in cui le premesse sembrano fondate sulle opinioni, ma inrealtà non lo sono; b) i PARALOGISMI, ragionamenti errati basati su false argomentazioni; e infine c) i sillogismi RETORICI, basati sugli entimenti, in cui si ignora non solo la verità della conclusione ma anche la correttezza dell’inferenza. Proprio questa forma argomentativa collega la logica topico-dialettica all’ESTETICA, articolata in POETICA o teoria dell’arte e RETORICA o teoria del discorso persuasivo. Poetica e retorica sganciano dunque l’evento particolare dalla realtà empirica facendogli assumere un aspetto universale: non si tratta ovviamente di un universale logico ma di un universale concreto, cioè simile al vero. Nell’arte l’impossibile e l’irrazionale possono apparire simili al vero,poiché la funzione imitativa dell’arte li rende verosimili e quindi credibili. Aristotele ritiene che sia preferibile un impossibile verosimile a un possibile non verosimile: questo perché l’estetica si fonda su una struttura logica comunque rigorosa, che conferisce all’impossibile una verità anche se si tratta di qualcosa di falso, e che implica due aspetti, quello dell’utilità (pragmatismo) e dell’imitazione della natura. Il primo aspetto viene espresso nella funzione catartica della tragedia, che purifica e ripulisce dalle passioni negative, mentre il secondo si applica nella concezione del bello, e quindi riguarda misura e proporzione delle forme, limiti e simmetria. 

36.2 - i concetti sopra esposti - ossia verosimiglianza, probabilità, possibilità, credibilità, proporzione - stabiliscono delle relazioni strutturali tra il mondo estetico e quello etico, ossia l’ambito pratico dell’agire umano, in cui si indaga la condotta individuale e sociale dell’uomo. Il sapere pratico concerne la conoscenza dei fini dell’agire in quanto essenziali, immutabili e necessari. La loro peculiarità è quella di essere VALORI IN SE’: non è importante se essi siano tanto immanenti o trascendenti, ma che abbiano una loro oggettività, una loro realtà e di una loro perfezione, in quanto corrispondenti al bene. Essi devono sopratutto essere autonomi e indipendenti da qualsiasi volontà o impulso. Nel mondo greco, specie presso i Sofisti, si sviluppa però anche un altro tipo di agire pratico, che non ha nulla a che vedere con l’etica del fine, ma riguarda invece la ricerca delle cause e dei motivi dell’agire umano. In questo caso non possiamo parlare di valori in sé ma di utilità, di convenienza, di piacere e di vantaggio: l’azione non è più disinteressata e indipendente ma è viziata dallo scopo del raggiungimento. L’azione morale non si traduce in questo caso in un dover essere poiché è presente uno scopo da cui l’azione dipende (per esempio: SE  vuoi essere promosso ALLORA devi studiare, SE non vuoi finire in prigione ALLORA non devi rubare). Aristotele chiama genericamente il sapere pratico POLITICA, e lo suddivide in ETICA ossia scienza del bene, e POLITICA (in un senso più stretto) ossia scienza dello Stato. Questa dipendenza dell’etica dalla politica, seppure in un senso molto generico, richiama la tendenza tipica del pensiero greco di identificare l’uomo col cittadino: scopo del sapere politico è proprio quello di individuare il fine dell’agire umano, cioè il bene in sé, e i mezzi per raggiungerlo. Il traguardo è la felicità o EUDEMONIA: tutti gli uomini vogliono raggiungerla ma non sono d’accordo su cosa sia veramente. La felicità non va però confusa con l’onore, il piacere, o la ricchezza, che sono mutevoli e appaiono più come mezzi che come fini: essi vanno comunque perseguiti, con moderazione, ma devono dipendere da un fine superiore, intrinsecamente connesso alla natura umana, cioè la RAGIONE. La virtù propria dell’uomo è la volontà secondo ragione e questo coincide con la posizione gerarchica dell’anima razionale. Poiché sia la sensibilità sia l’intelletto concorrono alla conoscenza, è lecito attendersi che anche il sapere pratico, oltre a quello teoretico, sia determinato da entrambe le dimensioni psichiche. Questa è anche la ragione per cui il concetto di bene non è mai univoco, e il suo significato deve essere distinto in base ai sensi (impulsi, tendenze, passioni) o alla ragione (moderazione, controllo, dominio). Aristotele opera una distinzione tra le virtù ETICHE, ossia le condotte relative a un’applicazione “esterna” della volontà razionale, che hanno a che fare proprio coi sensi, e le virtù DIANOETICHE che sono le condotte propriamente razionali.
Le virtù etiche sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la giustizia e così via. Ogni individuo è caratterizzato da impulsi, tendenze e desideri, che fanno parte della sua formazione e della sua cultura. Data la complessità dell’uomo non è possibile fondare una scienza dei principi che possa indicare all’uomo cosa è giusto e cosa non lo è: ci si può solo affidare all’educazione e all’induzione, il cui esercizio spinge all’abitudine di compiere azioni buone. Le virtù etiche sono quindi acquisite con l’esperienza e nascono proprio da una disposizione a indirizzare il comportamento in mezzo alle diverse inclinazioni individuali. Così le passioni come il desiderio, l’ira, l’amicizia, la pietà, sono finalizzate  al raggiungimento del bene. Come si acquistano queste virtù e in cosa consistono? Le virtù etiche implicano la giusta proporzione, il GIUSTO MEZZO, tra eccessi e difetti. Il giusto mezzo esprime infatti l’affermazione etica della ragione: il coraggio è il giusto mezzo tra la temerarietà e la viltà; la temperanza è il giusto mezzo tra l’intemperanza e la dissolutezza. Le virtù etiche non sono valide sempre e ovunque ma hanno come unica norma la misura. Tra esse prevale la GIUSTIZIA, che consiste nel rispetto delle leggi dello Stato e abbraccia l’intera vita morale: nella giustizia è insieme compresa ogni virtù, sottolinea Aristotele, e come tale essa è la forma delle virtù etiche. La giustizia non è però una forma a sé stante, essa si esprime infatti nelle leggi dello Stato, che ne costituiscono la materia. Come tale essa costituisce misura e proporzione tra i membri della società: se la proporzione è di tipo GEOMETRICO, ovvero se distribuisce a ciascuno in base ai propri meriti, in un’uguaglianza di rapporti, saremo di fronte alla giustizia DISTRIBUTIVA; se la proporzione è invece di tipo ARITMETICO, ovvero distribuisce a ciascuno in parti uguali a prescindere dal proprio status, siamo di fronte alla giustizia RETRIBUTIVA, detta anche regolatrice o correttiva. Il contenuto universale delle leggi fa sì che sia la giustizia distributiva che quella retributiva non siano sempre adeguate al caso specifico: per questo motivo entrambe vanno ricomprese in una forma di giustizia superiore che applica di volta in volta al particolare la giusta correzione, o EQUO, che permette di adeguare la legge al caso specifico.
Le virtù dianoetiche, al contrario di quelle etiche che si realizzano esercitando la pratica empirica dell’abitudine, si realizzano con l’esercizio del pensiero. La  razionalità si rivolge a due tipi di oggetti, quelli necessari e sottratti al divenire e quelli soggetti al divenire. A queste due funzioni di oggettivazione sono collegate due tipi di virtù dianoetiche: le virtù della ragione TEORETICA, cioè INTELLIGENZA (nous), SCIENZA (episteme) e SAPIENZA (sophia), e le virtù della ragione PRATICA ovvero ARTE (techne) e SAGGEZZA (phronesis). La virtù teoretica per eccellenza è la sapienza, cioè la capacità di dedurre e guidare la verità, mentre la virtù pratica più importante è la saggezza, ossia la capacità di deliberare ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo, individuando i mezzi più idonei al raggiungimento di determinati fini. Va detto che la saggezza ci dice quali mezzi impiegare ma non ci dice quali fini siano giusti: a questo compito assolvono infatti le virtù etiche, che sono in grado di individuare casi particolari e decidere rispetto ad essi. La collaborazione tra la saggezza e le virtù etiche ci porta a considerare i fondamenti logici delle azioni pratiche. Infatti per poter decidere e deliberare occorre avere come punto di partenza una verità, che tuttavia, nella ragione pratica, non è mai fine a sé stessa.ma un mezzo, limitando così il concetto di verità in senso pratico a indicare ciò che è buono o giusto in un caso particolare. Questo aspetto permette ad Aristotele di superare il problema della conoscenza del bene dell’intellettualismo etico di Socrate e Platone: infatti la conoscenza del bene - non epistemica ma tipologica - è una condizione necessaria per agire correttamente ma non è sufficiente: sono necessarie anche la deliberazione e la scelta (che sono di carattere fronetico e non teoretico, ossia legate alla saggezza) altrimenti il bene resta solo a livello potenziale e ideale e non si concretizza. A cosa serve infatti conoscere il bene se poi  non si ha la forza di metterlo in pratica? Come si vede la conoscenza del bene non è dunque la condizione fondamentale per essere uomini saggi: non è necessario essere dei filosofi, basta essere coraggiosi, temperati e liberali, come lo furono molti statisti, Pericle ad esempio.

36.3 - L’uomo è un animale sociale, egli non può vivere infatti se non in comunità. Questa esigenza non fa capo solo a cause materiali ma sopratutto al fatto che solo nella comunità l’uomo realizza la sua più intrinseca natura,   quella razionale. Questa finalità viene espressa proprio dall’istituzione dello Stato, mezzo di elevazione spirituale di tutti i componenti di una comunità. Ogni membro della comunità è una parte di un intero, rappresentato dallo Stato, che quindi comprende e precede il singolo. Esistono anche altre forme associative che nascono prima dello stato, come la famiglia o il villaggio, che però rispondono a bisogni più concreti e diversi, e non realizzano certamente il significato più profondo della vita umana: infatti la caratteristica dello Stato è quella di essere costituito non da parenti, come la famiglia, o da uomini che perseguono un medesimo interesse produttivo, bensì da cittadini, diversi tra loro, legati non da interessi privati ma dall’agire per il bene della comunità a cui appartengono, esprimendo un interesse pubblico e collettivo. Questa finalità pubblica si esprime in diversi assetti costituzionali. Per Aristotele gli scopi di una costituzione sono essenzialmente due: determinare la sovranità e stabilire il funzionamento delle cariche. Di queste la sovranità è il problema più importante poiché riguarda la detenzione del potere legittimo e in base a essa si articolano le diverse forme dello Stato, a seconda che sia esercitata da uno (MONARCHIA), da pochi (ARISTOCRAZIA), o dalla maggior parte dei cittadini (POLITIA). La correttezza di tali forme dipende dal fatto che il potere viene esercitato nel pubblico interesse, ovvero a favore della collettività; quando ciò non avviene, cioè quando il potere viene esercitato per sé stessi, si hanno le cosiddette forme corrotte o degenerate che sono rispettivamente la TIRANNIDE, l’OLIGARCHIA  e la DEMOCRAZIA o DEMAGOGIA, in cui il potere della maggioranza dei cittadini, solitamente poveri e bisognosi, viene esercitato in funzione della sola maggioranza, scambiando così l’uguaglianza sul piano giuridico con quella sociale e antropologica. Tutte e tre le forme di potere, se esercitate correttamente sono legittime e buone ma Aristotele indica quale forma preferibile la politia, espressione del CETO MEDIO, la maggioranza agiata, più stabile e in possesso della misura e dell’equilibrio necessari al governo dello Stato.