venerdì 22 aprile 2016

5 - Parmenide

PARMENIDE - LEZIONE 5
Essere, pensiero e linguaggio.
Parmenide e la tesi dell’isomorfismo tra pensiero e realtà.

5.1 - In Eraclito il problema del principio assume un carattere immateriale, espresso nel logos o discorso, quale unifcatore delle parole soggette a eterno mutamento. In Parmenide si cercano le condizioni specifiche che portano un discorso ad essere vero. Qui entriamo dunque nel mondo della riflessione o della speculazione (da specus, specchio): parlare di una cosa significa conoscerla, conoscerla significa poterla pensare. Non esiste un contatto diretto, immediato, con la natura: a fare da tramite tra l’uomo che conosce e la natura sono tre strumenti, il PENSIERO, il LINGUAGGIO e i SENSI. Tra  di essi il più complesso è il linguaggio, poiché si rivolge sia all’uomo in quanto soggetto che pensa sia a ciò che viene pensato, quindi agli oggetti. Il problema centrale della filosofia parmenidea è quello della verità della realtà, cioè dell’ESSERE. Per Parmenide è vero ciò che esiste per il soggetto. Ma un nostro pensiero o una nostra sensazione non possono essere oggettivati poiché resta dentro di noi. Per poter essere oggettivati e conoscibili occorre esprimerli in un discorso (per esempio: ho caldo, oppure il fiore profuma) con un giudizio. Parmenide intuisce che il problema della verità deve essere affrontato solo dal punto di vista del linguaggio. Questo aspetto implica che ci deve essere un collegamento tra essere, pensiero e discorso vero. Ora, la condizione di verità di un discorso è per Parmenide la coincidenza di realtà e di pensiero: realtà e pensiero DEVONO AVERE LA STESSA FORMA. Questo criterio è noto come TESI DELL’ISOMORFISMO e si esprime nell’equazione:
x = f (a, R)
in cui l’incognita x è la realtà che corrisponde (f) a un pensiero o a un segno linguistico (a) posti in relazione (R). Questa equazione ci consente di non sapere il significato di un termine in sé stesso limitandosi alla sola relazione di corrispondenza oggettiva con l’altro termine. Ma come si fa a sapere se questa relazione è adeguata e quindi vera? Parmenide dice che è vero e quindi conoscibile solo ciò che può essere pensato, in quanto ciò che non esiste non può essere pensato. Possiamo anche pensare qualcosa di irreale e di fantastico, dice Parmenide, ma sempre sulla base di qualcosa che esiste veramente. Ora questa tesi porta a una conseguenza paradossale: se realtà e pensiero hanno la stessa struttura logica, si potrebbe anche fare a meno dell’esperienza usando il discorso come criterio di verità. La realtà (l’essere) per essere compresa deve essere pensata. In questo modo Parmenide fa derivare l’ONTOLOGIA - cioè la nozione dell’essere - dalla LOGICA - cioè il discorso sull’essere. L’essere è logicamente l’insieme delle verità correlate ma non ci permette di cogliere la realtà in un senso assoluto, solo come una rappresentazione o immagine delle cose: se tra questi termini sussiste una correlazione logica, ossia se c’è una coerenza, allora il discorso è vero. Occorre precisare che Parmenide non si pone il problema della garanzia di questa corrispondenza tra i termini a, ossia immagini rappresentate, segni linguistici e realtà. Coerente col principio della logica arcaica secondo cui i nomi sono le cose stesse, come già Eraclito, Parmenide non rivela se c’è qualcuno che crea questa relazione IR) tra l’essere (x) e (a) cioè pensiero e linguaggio: le cose ci parlano e contengono il linguaggio. Questa identitò di nomi e cose mette bene in evidenza il vero ruolo del linguaggio non come semplice mezzo di espressione mediante segni o simboli, ma come il modo in cui l’essere si presenta, l’immagine che ci viene data della realtà. 
Attraverso le parole del discorso l’essere si svela e si rivela. Per Parmenide il linguaggio è dunque più affidabile dell’esperienza, poiché l’esperienza è mutevole e questa incostanza rende impossibile la comprensione dell’essere. 

5.2 - L’ontologia parmenidea si divide in due parti: un’ontologia fondamentale, volta a individuare il modo in cui l’essere viene conosciuto (GNOSEOLOGIA) ed espresso (TEORIA DEL LINGUAGGIO), e un’ontologia descrittiva, volta a individuare le caratteristiche dell’essere, sia puro o INTELLIGIBILE (pensato) sia impuro o SENSIBILE (percepito con i sensi).
L’ontologia fondamentale rappresenta il nucleo centrale del pensiero di Parmenide ed è racchiusa nel poema filosofico SULLA NATURA, dove viene descritto un viaggio immaginario e iniziatico intrapreso dal filosofo in cerca della verità. Abbandonato il mondo degli uomini, indicato dalla morte e dalle tenebre, egli giunge alla porta vigilata dalla dea Dike, la Giustizia, che indica a Parmenide il punto che separai la via della luce e del giorno dalla via delle tenebre e della notte. Il traguardo di questo percorso, ricco di metafore e di allegorie, è rappresentato appunto dalla verità, ossia la luce del giorno, per raggiungere la quale è necessario staccarsi dal senso comune, che conduce solo a esperienze ordinarie, confuse e contraddittorie, simboleggiate dalla via dell’oscurità e della notte. Da un punto di vista concettuale il poema può avere due livelli interpretativi: il primo costituisce la via alla verità e rivela la CONTRADDIZIONE tra le due vie della luce e delle tenebre, rappresentate nelle proposizioni “l’essere è” e “il non essere è”; il secondo costituisce la via all’opinione e palesa invece la CONTRAPPOSIZIONE dei due termini essere e non essere, come accade nell’opinione, in cui al tempo stesso qualcosa è e non è. Queste due strade sono complementari, poiché esauriscono tutte le possibili combinazioni dell’essere e del non essere assoluti, e dell’essere e del non essere relativi: il vero, il falso, il vero e il falso, e il né vero né falso. In che modo si arriva a questa articolazione? Il vero è rappresentato dalla frase “l’essere è”. Si tratta di un principio di identità di una certezza indubitabile (per esempio: il tavolo è il tavolo) laddove si afferma l’esistenza di qualcosa. La via del falso e dell’errore è rappresentata dalla frase “il non essere è”. Occorre precisare che il falso consiste nella negazione del soggetto e non del predicato, come nella frase “il fiore NON è rosso”. Affermare l’esistenza del non essere è una posizione impraticabile poiché non si può conoscere o pensare il nulla, in quanto il pensiero è sempre pensiero di un oggetto. Dunque del non essere assoluto possiamo solo dire che non è, anzi, dice Parmenide che possiamo solo osservare il silenzio in quanto nulla possiamo dire del non essere. L’uso di una doppia negazione, del soggetto e del predicato, ristabilisce il principio di identità quale criterio di verità e indica che si tratta di una verità di secondo grado o di una “verità dell’impredicabilità”, in quanto privazione assoluta. Tale verità non va tradotta in un senso positivo, come succede nella logica moderna in cui una doppia negazione afferma: affermare che il non essere non è non significa infatti per Parmenide che tutto è ma semplicemente che non si può conoscere e pensare il nulla. Questo porta Parmenide a concludere che all’AFFERMAZIONE ASSOLUTA - l’essere è - si contrappone la PRIVAZIONE ASSOLUTA - il non essere non è - mentre la NEGAZIONE ASSOLUTA - il non essere è - è considerata esplicitamente un errore, sia come negazione del soggetto (il non essere è) sia come negazione del predicato (l’essere non è), specie nel secondo caso poiché negando l’oggetto del pensiero non è più possibile pensare. Bisogna però  aggiungere che il non essere assoluto è sì impensabile e indicibile ma non insensato, se espresso come principio di identità: il non essere non è. Seppur privo di contenuto il non essere assoluto ha dunque un senso.