domenica 17 aprile 2016

20 - Platone

PLATONE - LEZIONE 20
L’intenzionalità della conoscenza e il problema del linguaggio: il Carmide e il Cratilo

20.1 - A influenzare Platone non ci fu solo la morte di Socrate, ma è evidente come sia proprio il suo rapporto con il maestro a condizionare buona parte dei temi dei dialoghi del periodo giovanile, detto appunto anche socratico proprio perché dominato dalla figura di Socrate. Ma a dividere i due filosofi è proprio il metodo di ricerca. Socrate usa una prospettiva analitica e induttiva, che non gli consente di cogliere la realtà in maniera realmente universale, intuendo le forme pure, i concetti, ma allontanandosi dalla totalità. Per Socrate ciò che è oggettivo è determinato, concluso. Il metodo platonico sfrutta la dialettica allo scopo di giungere a una conoscenza realmente universale della realtà, senza fermarsi quindi alle opinioni. In questo senso Socrate si limita ad associare conoscenza e virtù, Platone va oltre e cerca di spiegarne le condizioni, i principi, i fondamenti della vita morale. Questi sono i temi che ricorrono proprio nei dialoghi socratici, tra cui prevalgono due problemi fondamentali: la soggettività, intesa come l’intenzionalità del conoscere (la direzione verso cui tende la ricerca, la coscienza) e l’interpretazione dei segni e dei simboli che la costituiscono (la nascita quindi del linguaggio). I due dialoghi in cui appaiono meglio questi due punti nodali sono il Carmide e il Cratilo.

20.2 - Il Carmide non si discosta molto dai temi degli altri dialoghi del periodo ma è interessante poiché qui Platone spiega l’intenzionalità del conoscere, il conoscere rivolto a un oggetto fuori da noi. Si presentano qui due prospettive, una riguarda l’oggetto in se stesso e l’altra il soggetto che conosce l’oggetto. Possiamo studiare solo l’oggetto o anche il soggetto che conosce l’oggetto? E questa conoscenza a cosa ci serve, che risultati ci dà? Possiamo mettere in evidenza tre problemi: a) la conoscenza di se stessi; b) la conoscenza dell’oggetto; c) la conoscenza dell’effetto. Tra queste assume rilevanza proprio la coscienza dell’oggetto. Infatti noi possiamo anche fare qualcosa senza esserne consapevoli - per esempio un gesto qualsiasi che fa stare bene una persona - oppure agire senza immaginare gli effetti che la nostra azione potrebbe generare. Inoltre la conoscenza di noi stessi risulterebbe vuota se allontanata dall’oggetto, infatti noi possiamo vedere ciò che viene visto e non la vista in se stessa. La conoscenza fondamentale è quindi quella dell’oggetto. Socrate aveva posto il suo “conosci te stesso” alla base della conoscenza, ma senza rivelarne l’oggetto: Platone intende superare questo ostacolo riunendo, senza identificarle, conoscenza di se stessi e conoscenza dell’oggetto. Possiamo dunque conoscere noi stessi, dice Platone nel Carmide, in relazione all’oggetto verso cui intenzionalmente la nostra coscienza tende, ma non possiamo staccare la coscienza dall’oggetto, poiché non potremmo valutarla in modo empirico se svuotata da qualsiasi contenuto oggettivo.

20.3 - Nel Cratilo si scontrano due tesi, una naturalista e una convenzionalista. Secondo la prima i nomi delle cose sono naturali, ossia fanno parte delle cose stesse, e non cambiano, mentre secondo i convenzionalisti i nomi delle cose hanno un valore appunto convenzionale. Entrambe le posizioni sono ovviamente fallimentari, e mostrano limiti evidenti, tanto che Platone oppone due concezioni alternative, una strumentalista e una rappresentativa. La prima concezione - che è potremmo dire una variante del convenzionalismo - vede il linguaggio come uno strumento, ossia diamo i nomi alle cose in base al loro uso. La seconda - che possiamo dire a sua volta un’estensione del naturalismo - considera il linguaggio come un modo per descrivere gli oggetti, imita e rispecchia le cose per come esse appaiono a noi che le conosciamo. Ma Platone mette in evidenza che anche queste due concezioni non soddisfano la conoscenza, poiché conoscere il nome delle cose non significa conoscere le cose come sono in se stesse. Noi delle cose conosciamo ciò che i nostri sensi colgono e sono questi aspetti a consentirci di assegnare alle cose un nome. Pertanto, a differenza dei Sofisti, Platone ritiene che non siano le parole a creare gli oggetti, ma si tratta della nostra capacità di comprendere la realtà oggettiva a dar loro consistenza e circostanza.