lunedì 4 aprile 2016

33 - Aristotele

ARISTOTELE - LEZIONE 33
L’ontologia, la teoria della sostanza e la teologia

33.1 - Dopo il problema dei principi, il secondo problema della metafisica è quello ontologico, concernente la forma dell’essere. Si tratta qui di superare l’univocità ASSOLUTA di Parmenide, che predicava l’identità di tutte le cose, e l’univocità RELATIVA di Platone, che giustificava la non identità ricorrendo al mondo delle idee e dunque alla trascendenza. 
Per Aristotele l’essere è caratterizzato da una molteplicità di significati: la realtà, che è unitaria, si costituisce di INDIVIDUI, “sinolo di materia e forma”, che costituiscono le SOSTANZE PRIME, le uniche a esistere veramente in quanto realtà; mentre generi, specie e categorie (cioè i generi sommi) sono SOSTANZE SECONDE ed esistono solo in relazione all’individuale. L’essere non può però riguardare in modo esclusivo i soli individui: se così fosse infatti avremmo un’omonimia e un’equivocità, ossia useremmo dei nomi simili per indicare le cose: si tratta del NOMINALISMO in cui l’universale esiste solo nel linguaggio come un puro nome. Ma l’essere non può riguardare nemmeno in modo esclusivo le sostanze seconde: se così fosse si porrebbe infatti al di fuori della considerazione ontologica proprio ciò che giustifica l’esistenza, ossia l’individuale. Ma la vera difficoltà sarebbe che se l’essere fosse un genere, una specie o una categoria, perderebbe il suo carattere universale e trascendentale. Infatti ogni termine categoriale si comprende mediante una categoria complementare che lo contraddice, un termine negativo che si contrappone ad esso (esempio: bianco, non bianco), e nel caso dell’essere la categoria complementare è il non essere che nega l’esistenza; inoltre se così fosse l’essere non esisterebbe universalmente ma solo in modo attuale, quando cioè viene pensato, e quindi basterebbe pensare qualsiasi cosa per giustificare che essa è. Tutte queste difficoltà sono riassunte nei concetti di UNIVOCITA’ e di SINONIMIA, dovuti alla conformità dell’essere ai generi e alle specie e ciò causerebbe una diversa interpretazione del significato dell’essere che da molteplice diventerebbe univoco, come sostenuto da Parmenide e da Platone. Deve dunque esistere una funzione intermedia di essere che concili l’omonimia e la sinonimia dei significati.
In poche parole il significato di essere non può quindi essere circoscritto e incasellato entro i termini categoriali, non può avere solo un significato molteplice o solo univoco, ma deve avere una “libera circolazione” tra tutti i generi: il passaggio da un genere all’altro dell’essere, così come nelle quattro cause, non avviene per similitudine o identità ma per ANALOGIA. Infatti l’essere assume nolti significati ma non può mai essere uguale, e allo stesso tempo non può certo essere ricondotto a un solo significato. Il solo modo per conciliare questi due aspetti - sinonimia (molti significati) e univocità (un solo significato) - è appunto il concetto di analogia. Come si ricorderà anche Platone aveva usato l’analogia, riferita a una proporzione verticale tra mondo sensibile e mondo ideale, ma Aristotele si muove in un diverso contesto, riducendo tutti i significati dell’essere a una sola realtà. Al centro dell’indagine aristotelica c’è infatti la SOSTANZA per cui OGNI COSA ESISTE IN QUANTO SOSTANZA, IN QUANTO SUA AFFEZIONE O ACCIDENTE, IN QUANTO SUA CAUSA GENERATRICE E DISTINTRICE. Non può esistere altro significato dell’essere se non in riferimento alla sostanza. Si tratta della relazione di PARONIMIA già esaminata nella lezione 30. 
Nella filosofia medievale questo tipo di relazione viene usato in ambito teologico per riferire i rapporti di somiglianza a Dio, secondo la cosiddetta ANALOGIA ATTRIBUTIVA, che a differenza di quella proporzionale presenta una relazione a tre termini (esempio: la sapienza di Socrate è simile alla sapienza di Dio). Si tratta però di una forzatura, peraltro imperfetta, sia perché nella filosofia aristotelica l’analogia è sempre di natura proporzionale, sia perché questa analogia attributiva implica una relazione tra soggetti e non la relazione diretta dei molti con un solo soggetto, cioè la sostanza. Questo aspetto, che rimanda al concetto platonico di partecipazione, mostra peraltro un solo significato dell’essere, quello teologico, che non esaurisce per evidenti motivi il discorso sulla funzione della sostanza.

33.2 - Aristotele individua quattro significati di essere:

1 - essere ACCIDENTALE, ossia non necessario, possibile e contingente;
2 - essere ESSENZIALE, per sé, autonomo da qualsiasi genere;
3 - essere MENTALE, secondo cui è vero ciò che esiste ed è falso ciò che non esiste, secondo il criterio corrispondentistico di verità, per cui è vero ciò che corrisponde a realtà;
4 - essere DINAMICO, come potenza (dynamis) e come atto (energheia), che attraversa tutte le categorie.

Come si vede questi quattro significati suppongono l’essere delle categorie e da queste l’essere della sostanza, secondo una relazione paronimica che ha carattere equivoco sul piano ontologico ed univoco su quello logico.

33.3 - Aristotele ha dunque ridotto il problema dell’essere al suo aspetto più essenziale, ossia la sostanza o ousìa. Adesso bisogna definire cosa è la sostanza. Questo problema si svolge in due questioni: cosa è la sostanza? quali sostanze esistono?
Ogni cosa della nostra esperienza sensibile è un SINOLO (cioè unione) DI MATERIA E FORMA. La forma è l’elemento che caratterizza una cosa, e non servirebbe se non fosse riferita a una materia, e viceversa una materia senza forma non sarebbe determinata. Materia e forma hanno una diversa rilevanza a seconda della prospettiva di indagine che viene adottata, ma in ogni caso la cosa certa è che la materia esiste in quanto sostanza solo in modo improprio e derivato. La prospettiva di indagine invece ha importanza nella relazione tra forma e sinolo. Infatti da un punto di vista empirico e descrittivo la vera sostanza è il sinolo, ma da un punto di vista ontologico-metafisico la sostanza è la forma in quanto causa e fondamento dell’essere.
Dunque il sinolo è il concetto più elevato di sostanza a livello ontico, cioè sul piano puramente esistenziale, mentre la forma rappresenta il concetto più elevato di sostanza sul piano ontologico, ossia riguardo la possibilità della sua esistenza. Quando conosciamo la forma viene trattata come una specie o un genere, con un significato universale astratto, mentre da un altro punto di vista la sostanza è una realtà non universale: questo dipende dai diversi significati dell’essere.

33.4 - Le sostanze sensibili sono dunque INDIVIDUI EMPIRICI. Dopo aver chiarito questo, Aristotele passa a esaminare le sostanze sovrasensibili o immateriali. A differenza delle cose empiriche, soggette alla posizione di realtà, la forma nel suo grado più elevato, ossia la forma in quanto causa e fondamento di tutte le cose, deve esistere, poiché tutta la natura tende a un aspetto unitario e gli individui sono generati da un principio. Non essendo possibile, empiricamente, risalire a un principio di tutte le cose, Aristotele esamina dunque l’aspetto COSMOLOGICO della metafisica, individuando una FORMA PURA, primordiale e necessaria, origine e fondamento di tutte le forme. In quanto fondamento essa è la CAUSA PRIMA del movimento e ATTO PURO all’origine di tutte le potenze e di tutti gli atti, che Aristotele definisce significativamente MOTORE IMMOBILE: si tratta dunque di un atto compiuto (entelechia), non soggetto a cambiamento, quindi perfetto, forma e condizione di tutte le forme, di tutto ciò che è, al di fuori del quale nulla può essere. Questa forma pura, questa causa pura, è Dio. La TEOLOGIA, o scienza del divino, è perciò l’ultimo aspetto della metafisica o filosofia prima. La teologia aristotelica si configura anche come TELEOLOGIA o scienza dei fini ultimi, in quanto il movimento che inizia da Dio non è considerato come  una causalità efficiente - non essendo Dio una potenza ma un atto puro - ma una causalità finale, ragione e scopo di tutti i movimenti.
Dio non è separato dal mondo ma è in un rapporto di continuità con esso. Ciò significa che Dio non è per Aristotele un creatore come il Dio della tradizione ebraico-cristiana ma generatore del tempo e del movimento, che sono eterni e continui. Questa relazione di continuità riflette la doppia natura di Dio: così come l’essere è al tempo stesso univoco ed equivoco a seconda del punto di vista da cui lo siguarda (logico o metafisico) così anche Dio è immanente e trascendente al tempo stesso; immanente come fine delle cose, trascendente in quanto principio. Egli è pensiero puro, o pensiero di pensiero, ma non si rivolge direttamente alle cose in quanto non è un creatore nel vero senso della parola. Questo rapporto fa sì che la teologia aristotelica sia un PANTEISMO MODERATO, in cui la sostanza divina è al tempo stesso quasi impersonale, e riconoscibile nella natura e intelligenza o atto personificata dal movimento.