lunedì 28 marzo 2016

2B - U8

2B - U8
Kant

KANT - LEZIONE 40
Biografia e opere

40.1 - Immanuel Kant nasce nel 1724 a Konigsberg, da una modestissimaa famiglia prussiana: il padre era un sellaio e la madre, donna molto devota, lo istruisce secondo i dettami del Pietismo, una corrente del protestantesimo che si basava sulla pratica della carità e dell’aiuto al prossimo. Il giovane Immanuel viene iscritto all’età di otto anni al Collegium Fredericianum - istituto che la gente di Konigsberg additava ironicamente come un rifugio di Pietisti - dove era appena diventato rettore il wolffiano Franz Albert Schultz. La formazione giovanile kantiana è quindi permeata dalla cultura teologica, da cui Kant prenderà le distanze: egli stesso ricorderà gli anni del Collegium, dove si studiava un rigoroso catechismo, come anni di schiavitù. A sedici anni  il giovane Kant, secondo alunno migliore del corso, si iscrive alla facoltà di Filosofia dell’Università Albertina di Konigsberg, facoltà propedeutica ai corsi universitari superiori - medicina, giurisprudenza e appunto teologia - in cui matura l’interesse per le scienze naturali e per la fisica newtoniana. A determinare un punto di svolta nella formazione giovanile kantiana contribuì sicuramente anche la lettura delle opere di Hume, dal contenuto estraneo alle lezioni di teologia e di metafisica dogmatica impartite al giovane Kant all’Università Albertina. Rimasto orfano di entrambi i genitori inizia a lavorare come precettore, dedicandosi comunque agli studi. Nel 1746 scrive il suo primo trattato scientifico, Pensieri sulla valutazione delle forze vive. Dopo aver ottenuto la licenza di “magister” - sorta di abilitazione all’insegnamento - ricopre diversi incarichi, pur in maniera non continuativa. In questo periodo Kant si occupa molto di studi scientifici, sopratutto di astronomia e di scienze naturali, coltivando quindi il suo interesse per questo ambito disciplinare.

40.2 - La cosiddetta svolta critica arriva nel 1770, con la pubblicazione della Dissertazione. Ma le opere pubblicate prima di questa data, note come scritti pre-critici, hanno una notevole importanza nella letteratura kantiana. Una di queste, I sogni di un visionario, fu scritta da Kant su ispirazione di una sua giovane allieva, Charlotte, appassionata di Swedenborg, un presunto mistico e occultista svedese allora molto conosciuto in Europa. Su invito della studentessa Kant decide di leggere l’opera allora più importante di Swedenborg, Arcana Coelestia, e di scriverne una confutazione. Le opere pubblicate nella fase pre-critica mostrano un Kant già “sveglio” - per utilizzare una tipica definizione kentiana - dal sonno dogmatico cui la metafisica tradizionale induceva la ragione. Kant abbandona le scienze naturali alla ricerca di una nuova prospettiva di conoscenza, equamente distante sia dallo scetticismo di Hume sia dal dogmatismo della metafisica. Questa prospettiva lo conduce a un radicale capovolgimento della gnoseologia - la cosiddetta rivoluzione copernicana - che finirà col mettere in primo piano il soggetto rispetto all’oggetto, e all’abbattimento di qualsiasi pretesa razionale. In questo contesto diventano centrali le tre Critiche: la Critica della Ragion Pura, la Critica della Ragion Pratica e la Critica della Facoltà di Giudizio, che costituiscono i pilastri principali del pensiero post-illuminista kantiano, detto appunto criticismo. La fortuna del suo pensiero dovette scontrarsi però anche con la censura religiosa del periodo, che in alcuni casi lo costrinse a rinviare la pubblicazione di alcuni scritti. Kant muore nel 1804, forse affetto da una patologia di tipo neuro-degenerativo, probabilmente una forma di morbo di Alzheimer.

KANT - LEZIONE 41
La filosofia kantiana fino alla svolta critica del 1770

41.1 - La fase pre-critica kantiana è dominata dall’interesse per la scienza, a cavallo tra fisica e metafisica. A ispirare il giovane Kant su sopratutto la fisica di Isaac Newton, che riconduce il problema dell’origine dell’universo a una soluzione meccanicistica, ma anche la filosofia di Leibnitz. Prima della cosiddetta svolta critica Kant cerca un connubio tra la fisica meccanicstica, con la STORIA NATURALE DELLA NATURA, e la metafisica leibnitziana, con la MONADOLOGIA PHYSICA, dove utilizza il concetto di monade non più in senso spirituale ma in senso fisico. Il giovane Kant si trova quindi a cercare una soluzione ai problemi della filosofia del suo tempo, ma abbandona ben presto la metafisica, in particolare la metafisica razionalistica di Wolff, che pretendeva la deduzione logica delle conseguenze dalle premesse assolutamente certe, come quelle della matematica. Kant individua l’errore di questa impostazione sottolineando che sussite una differenza tra il piano logico e il piano esistenziale: pensare una cosa non significa che questa debba esistere veramente, io potrei anche pensare a un animale mitologico come l’ippogrifo o l’unicorno che non esistono nella realtà. Nella ricerca delle differenze formali tra i due piani Kant scrivi la NUOVA ILLUSTRAZIONE DEI PRIMI PRINCIPI DI CONOSCENZA METAFISICA, in cui trasforma il principio di ragion sufficiente di Leibntz in nel principio di RAGIONE DETERMINANTE,  a sua volta suddivisa in RAGION D’ESSERE (fattore che appunto determina  l’esistenza di una certa cosa e non altrimenti) e RAGION DI CONOSCERE (fattore che determina la conoscibilità di una certa cosa e non altrimenti). 

41.2 - Otto anni dopo la pubblicazione della Nuova Illustrazione Kant inizia una critica più marcata alla metafisica wolffiana, sopratutto con il suo scritto del 1763 TENTATIVO PER INTRODURRE IN FILOSOFIA IL CONCETTO DELLE QUANTITA’ NEGATIVE. Qui Kant riprende a parlare del principio di ragion sufficiente esaminando il concetto di causalità, e opponendosi in modo deciso a quello che poi è il dogma incrollabile della filosofia razionalistica, ossia il rapporto di causa ed effetto. Kant opera invece una distinzione tra la CAUSA LOGICA, con le relative conseguenze sul piano logico, e la CAUSA REALE, con i suoi effetti sul piano dell’esistenza. Questa distinzione  non è nuova nella letteratura giovanile kantiana, e prende le mosse da un’altra fondamentale distinzione, quella tra OPPOSIZIONE LOGICA, ossia l’attribuzione contraddittoria di un predicato al soggetto (per esempio dire nello stesso tempo che un corpo è fermo e che si muove)   e OPPOSIZIONE REALE, ossia la contraddizione non logica di due predicati entrambi reali e possibili che non possono però esistere contemporaneamente (per esempio non possiamo nello stesso tempo dire di andare a destra e a sinistra). Questa distinzione viene usata da Kant in un altro scritto dello stesso anno, che affronta il problema dell’esistenza di Dio - altro tema caldo del periodo - in cui il filosofo afferma che l’esistenza non è un predicato, non ha una natura logica o concettuale, ma si riferisce a un elemento reale, la cui presenza può essere accertata attraverso i sensi, pertanto anche il più perfetto dei concetti perde di validità se non è fondato dall’esperienza. Kant è infatti molto attento a definire l’esistenza come una POSIZIONE ASSOLUTA, distinguendola dalla POSIZIONE RELATIVA: con quest’ultima intendiamo semplicemente la semplice attribuzione di un predicato al soggetto (come per esempio: Cesare attraversa il Rubicone) mentre la prima mette in evidenza il soggetto con tutti i suoi predicati e le caratteristiche che lo distinguono. Con questa distinzione Kant si lascia volutamente alle spalle il concetto di ragion sufficiente: un conto è infatti affermare la possibilità di una certa scelta logica, altro conto è dire che una cosa “è” assolutamente. Nello scritto sulle prove dell’esistenza di Dio appare ormai evidente che Kant abbandona il razionalismo cartesiano, ma anche l’empirismo con le soluzioni di tipo scettico, per abbracciare una nuova impostazione metodologica della metafisica.

41.3 - Abisso senza fondo, oceano senza sponde: così Kant definisce la metafisica tradizionale, di cui opera una critica metodologica che lo condurrà alla cosiddetta svolta critica. La sua critica prende le mosse da quello che poi era il presupposto per eccellenza della metafisica razionalistica, ossia la certezza deduttiva. Dopo aver analizzato i metodi della matematica e della filosofia Kant perviene alla conclusione che il metodo della matematica è inapplicabile alla metafisica: il matematico è un costruttore, il metafisico si basa su ciò che è già dato; il matematico usa la sintesi, il filosofo usa l’analisi. Un matrimonio tra i due metodi non è proponibile, poiché la filosofia non si occupa di costruire concetti ma di tutto ciò che è esistente. 

41.4 - Con questa ulteriore distinzione Kant prende quindi ufficialmente le distanze dalla metafisica razionalistica wolffiana, e adotta uno dei cardini del metodo newtoniano, cioè l’esperienza. L’introduzione dell’esperienza trasforma di fatto la metafisica in una scienza dei limiti della ragione. Nella sua famosa opera del 1766, I SOGNI DI UN VISIONARIO, Kant chiarisce che la metafisica non è una scienza, e confina il suo campo d’indagine ai limiti imposti alla ragione dall’esperienza. Ma il compito della filosofia non si ferma qui. Kant infatti, pur influenzato da Hume, cerca di evitare sia una soluzione rigidamente empirista sia una soluzione scettica, che finirebbero per minare quel territorio che fa da base alla fisica newtoniana, ossia la metafisica della natura: Kant cerca quindi di portare alla luce le cosiddette condizioni pure della conoscenza, che non derivano dall’esperienza sensibile, cioè quelle strutture che organizzano e rendono pertanto possibile l’esperienza stessa. La svolta critica arriva nel 1770 con la cosiddetta DISSERTAZIONE dal titolo LA FORMA E i PRINCIPI DEL MONDO SENSIBILE E DEL MONDO INTELLIGIBILE, dove per la prima volta le condizioni per la conoscenza dei fenomeni sono ricercate nelle forme a priori della soggettività. A priori poiché tali condizioni dell’esperienza fenomenica, spazio e tempo, non sono astratte da oggetti empirici ma considerate come intuizioni pure. 
La Dissertazione del 1770 contiene anche la fondamentale distinzione tra CONOSCENZA SENSIBILE  e CONOSCENZA INTELLETTUALE: la prima riguarda le cose come appaiono, ossia i FENOMENI, la seconda riguarda le cose come sono, ossia i NOUMENI (= oggetti della mente): si potrebbe qui supporre che Kant avesse intenzione di orientare la sua ricerca ancora alla trascendenza ma in realtà si tratta della maturazione del percorso kantiano, che si consacra nella CRITICA DELLA RAGION PURA, in cui si chiarisce che gli oggetti del pensiero non si riferiscono a una realtà in sé e intelligibile ma agli oggetti dell’esperienza stessa, e che tramite essi vengono organizzati e conosciuti. 

KANT - LEZIONE 42
La rivoluzione copernicana e la Critica della Ragion Pura

42.1 - Dalla Dissertazione del 1770 alla pubblicazione della prima edizione della Critica della Ragion Pura passano dieci anni, che sono conosciuti come il decennio silenzioso di Kant, un decennio di riflessione, in cui Kant cerca una soluzione rinnovata al problema della metafisica, non più scienza dei limiti, non più scienza della cosa in sé ma ricerca degli elementi a priori, sia in campo scientifico sia in campo pratico. La ragione umana non si accontenta di studiare le condizioni dell’esperienza, tende sempre a oltrepassarle. Fa parte della sua stessa natura di ragione cercare delle risposte a problemi che vanno oltre i confini del sensibile: l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, l’esistenza di un determinismo universale. Tutti problemi che la ragione non potrà mai risolvere. Questi tentativi hanno prodotto nel corso del tempo un atteggiamento di scetticismo verso la metafisica, necessario per combatterne il dohmatismo, e spesso anche di indifferenza, ma non si può restare indifferenti in quanto l’uomo non può fare a meno di porsi certe domande, è una vera disposizione naturale, ammette kant. Poiché la ragione umana proverà sempre a superare i limiti dell’esperienza e la metafisica proverà sempre a proporsi come una scienza, diventa necessario istituire un vero e proprio tribunale che garantisca la ragione nelle sue pretese, legittime o illegittime, affinché si definiscano gli ambiti della conoscenza razionale e sopratutto gli oggetti di essa, siano essi empirici o sovrasensibili. Nella sua critica al principio di causalità Hume aveva negato la possibilità di conoscere il nesso causale tra A e B, rimandando la conoscenza alle associazioni e sopratutto all’abitudine, per cui una associazione presentatasi in passato viene riconosciuta nel momento in cui un certo evento si ripresenta. Kant come Hume non ammette la possibilità di conoscere questo nesso come una cosa in sé, ma ammette la possibilità di conoscere questo principio riguardo il FENOMENO. Secondo Kant infatti il principio di causalità ha valore proprio nell’ambito dell’esperienza sensibile, poichè collega i fenomeni e la sua origine non può essere empirica, proprio perché deve rendere possibile il susseguirsi dei fenomeni stessi, quindi deve essere dato a priori, ossia deve venire prima dell’esperienza sensibile. Questo collegamento è reso possibile dal pensiero cioè dalle funzioni dell’intelletto del soggetto conoscente. Il problema di Kant è quello di chiarire in che modo queste funzioni assumono un carattere universale, ossia valido per tutti, e non solo per il soggetto che conosce, ossia in quale modo il nesso tra una causa e il suo effetto può essere riconosciuto da tutti in modo univoco e invariabile.

42.2 - A questo punto, osserva Kant, è necessario un cambiamento della prospettiva di studio, così come fu per la rivoluzione copernicana. Le scienze matematiche hanno compiuto dei grandi progressi nel momento in cui si sono staccate dagli oggetti: perchè non provare a fare la stessa cosa anche con la metafisica? Kant propone dunque un capovolgimento dall’oggettivo al soggettivo, ossia dal punto di vista del soggetto conoscente, allo scopo di individuare quelle condizioni pure che risultano assenti in un metodo di indagine tradizionale. Questo cambiamento deve riguardare infatti tutto il conoscere: se siamo noi a regolarci sugli oggetti ovviamente non potremo pervenire a nessuna spiegazione a priori, ma se fosse il contrario, ossia se partiamo dal punto di vista del soggetto conoscente, e gli oggetti si regolano su di esso, una conoscenza a priori risulta possibile. La possibilità è data dal fatto che stiamo partendo non più dall’oggetto ma dal soggetto, e quindi dal modo in cui il fenomeno si presenta al soggetto. Riassumendo: la ragione è limitata dall’esperienza sensibile, non è possibile la conoscenza delle cose che cadono oltre l’esperienza, occorre ricercare le condizioni pure che rendono universalmente possibili l’esperienza, ossia i collegamenti tra fenomeni accordati dalle facoltà conoscitive dei soggetti conoscenti, che devono essere universalmente validi e necessari. Kant affida dunque la sua indagine a una critica, cioè una costruzione, un esame, della ragione pura: questa indagine ha natura TRASCENDENTALE - termine che Kant riprende dalla Scolastica medioevale - nel senso di definizione delle condizioni a priori dell’esperienza soggettiva, che vanno oltre la conoscenza dei fenomeni ma che non trascendono appunto l’esperienza.

42.3 - L’intera attività conoscitiva ruota secondo Kant intorno al GIUDIZIO, ossia l’unione di un soggetto e di un predicato. I giudizi sono di due tipi, quelli ANALITICI, come per esempio “tutti i corpi sono estesi”, che non aggiungono di fatto nessun dato nuovo al conoscere poiché il predicato è già incluso nel soggetto, e i giudizi SINTETICI, in cui il predicato non fa parte del soggetto e il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto stesso grazie all’esperienza, come nella frase “alcuni corpi sono pesanti”. 
Tra i giudizi sintetici Kant distingue i giudizi sintetici a posteriori,  che sono  dati dall’esperienza (esempio: il calore dilata i metalli), e i giudizi sintetici a priori, vera e propria base della scienza, che rispetto ai precedenti hanno la caratteristica di risultare oggettivamente universali e necessari. 
Mentre i giudizi analitici sono basati sul principio di non contraddizione, i giudizi sintetici non sono così scontati: Kant annovera tra essi anche la matematica, poiché il principio di non contraddizione qui è necessario ma non sufficiente. Kant deve quindi dimostrare non tanto l’esistenza dei giudizi sintetici a priori, che per lui è un fatto, quanto come essi siano possibili, come siano possibili la matematica pura, la scienza pura, la metafisica.

KANT - LEZIONE 43
Sensibilità e intelletto

43.1 - Alle tre domande poste da Kant (come è possibile la matematica pura? come è possibile la scienza pura della natura? come è possibile la metafisica come disposizione naturale?) rispondono due opere, coeve ma diverse nel metodo: la Critica della Ragion Pura, che usa un metodo sintetico, e i Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, che usa un metodo analitico. La Critica si suddivide in due dottrine, una Dottrina degli Elementi e una Dottrina del Metodo, di cui la prima parte è quella più importante. Questa prima parte si divide a sua volta in due parti, una Estetica Trascendentale, che riguarda i sensi, e una Logica Trascendentale, che riguarda il pensieroi, e a sua volta ulteriormente ripartita in una Analitica Trascendentale, riguardante le strutture dell’intelletto, e una Dialettica Trascendentale, che riguarda invece la ragione. In questo modo Kant offre una spiegazione delle tre principali facoltà della conoscenza umana, sensi, intelletto e ragione. Nello specifico l’Estetica spiega come siano possibili i giudizi sintetici a priori della matematica, l’Analitica spiega come siano possibili i giudizi della fisica e la Dialettica indaga le tre idee fondamentali della ragione umana, ossia l’anima, il mondo e Dio.  
L’Estetica Trascendentale spiega le condizioni pure dell’esperienza sensibile. Estetica deriva dal greco aisthesis, cioè sensazione. Ogni conoscenza, dice Kant, inizia da una INTUIZIONE, da una forma immediata della conoscenza che si basa sulle RAPPRESENTAZIONI SENSIBILI. Ogni soggetto conoscente è “affetto” dagli oggetti dell’esperienza, ossia dai FENOMENI, costituiti dalle diverse rappresentazioni associate tra di esse, costituiti da una MATERIA, ciò che colpisce i nostri sensi tramite le rappresentazioni, e da una FORMA, ossia il collegamento tra le diverse rappresentazioni sensibili interne ai fenomeni. Quando Kant parla di fenomeno sta specificando qualcosa che “appare” ed è quindi oggetto di esperienza, opponendolo alla cosa in sè, cioè al NOUMENO, un ente che non appare e che però è pensabile dal soggetto pur non essendo oggetto di esperienza: a questi enti Kant dedica la Dialettica Trascendentale. La forma dei fenomeni non deriva dalla sensibilità ma la precede, in quanto ordina la molteplicità delle rappresentazioni sensibili che costituiscono il fenomeno. 
Le forme a priori della sensibilità, ossia le condizioni che rendono possibile l’esperienza sensibile, sono lo SPAZIO e il TEMPO. Kant definisce lo spazio come FORMA DEL SENSO ESTERNO, in quanto serve a intuire le rappresentazioni degli oggetti fuori da noi, mentre il tempo viene definito FORMA DEL SENSO INTERNO, poiché serve a ordinare le rappresentazioni degli oggetti dentro di noi. Entrambe non possono derivare dall’esperienza sensibile, poiché per cogliere gli oggetti è necessario che sia già presente una base, un fondamento, delle intuizioni esterne ed interne. Kant presenta due esposizioni, una di tipo metafisico e una di tipo trascendentale, sia per lo spazio sia per il tempo. Riguardo lo spazio chiarisce come lo spazio non abbia natura concettuale ma sia l’intuizione pura di una infinita grandezza data, mentre nell’esposizione trascendentale dimostra da qui la possibilità della sua conoscenza nella geometria. Anche per il tempo Kant presenta due esposizioni, chiarendo prima l’indipendenza del tempo dagli oggetti e la sua funzione ordinatrice delle rappresentazioni, che è all’origine dell’aritmetica (in quanto successione di unità) e della meccanica; successivamente Kant estende la funzione ordinatrice del tempo a tutti gli oggetti esterni. Kant precisa che spazio e tempo non hanno natura ideale, ma esistono per il soggetto, al di fuori del quale non assolverebbero alcuna funzione, dunque non ammette la possibilità che esistano di per sé stesse. Nonostante ciò la loro presenza garantisce non solo la rappresentazione effettiva degli oggetti  ma anche la rappresentazione degli stessi oggetti invariabilmente da parte di diversi soggetti conoscenti.

43.2 - La Logica Trascendentale kantiana si distingue da quella aristotelica poiché questa si limita a descrivere le regole del pensiero formale, mentre quella kantiana definisce le condizioni a priori della conoscenza intellettuale. La Logica Trascendentale kantiana è suddivisa in due parti, una dottrina positiva, l’Analitica, che descrive i concetti puri dell’intelletto, e una negativa,  la Dialettica, che si occupa delle apparenze suscitate dalla disposizione naturale della ragione a trascendere i limiti dell’esperienza. 
Il soggetto non è solo ricettività ma anche spontaneità. Gli oggetti sono rappresentati al soggetto mediante i sensi ma se la conoscenza si fermasse alla sola intuizione sensibile avremmo semplicemente un insieme disordinato di rappresentazioni contigue. Il soggetto è anche pensiero. Per chiarire questa funzione specifica Kant mette in evidenza la differenza tra i GIUDIZI PERCETTIVI e i GIUDIZI DI ESPERIENZA: i primi hanno carattere soggettivo e riguardano uno stato particolare in cui si trova il soggetto, per esempio “quando la luce del sole batte sulla pietra questa è calda”; i secondi invece hanno carattere oggettivo e costituiscono una relazione necessaria tra le percezioni, per esempio “il sole riscalda la pietra”, e hanno pertanto un valore universale. L’esperienza non è infatti la semplice ricezione di informazioni dell’ambiente sotto forma di rappresentazioni, ma un atto cosciente del pensiero, reso attraverso le funzioni logiche di connessione tra i fenomeni, operate dai concetti puri dell’intelletto, ossia le CATEGORIE. Kant distingue le categorie da quelle della logica aristotelica, che avevano un fondamento ontologico, ponendole nel soggetto e designandole come condizioni pure della conoscenza intellettuale ossia della possibilità di pensare il reale. Le categorie non sono delle idee innate e non derivano dall’esperienza ma il loro valore conoscitivo si applica solo ad essa, in quanto svolgono la funzione di unificare le diverse intuizioni sensibili dando loro un significato logico. Perciò in assenza di un’esperienza le categorie sono praticamente vuote. Spetta ora a Kant il compito di individuare il numero e le funzioni delle categorie.

KANT - LEZIONE 44
La sintesi a priori dell’intelletto

44.1 - Dopo aver individuato le categorie è necessario accertarne la loro origine apriori e definirne l’inventario. Questo è il compito che Kant assegna alla cosiddetta DEDUZIONE METAFISICA, in cui viene dimostrato che le categorie trovano origine nella spontaneità dell’intelletto e che si accordano con le funzioni logiche del pensiero. Questo però conduce a due ulteriori interrogativi: in primis come sia possibile che delle funzioni logiche di natura soggettiva arrivino a condizionare l’esperienza in maniera oggettiva, cioè universale, e in secondo luogo come sia possibile che delle funzioni logiche la cui natura sia formale possano essere applicate all’esperienza la cui natura è invece sensibile.  Al primo problema Kant risponde con la DEDUZIONE TRASCENDENTALE DEI CONCETTI PURI DELL’INTELLETTO, al secondo invece con la DOTTRINA DELLO SCHEMATISMO TRASCENDENTALE. La deduzione trascendentale e lo schematismo trascendentale caratterizzano le due parti in cui Kant suddivide l’Analitica, dette rispettivamente Analitica dei Concetti e Analitica dei Principi.
Pensare è giudicare. L’intelletto non ha la facoltà di intuire direttamente come fanno i sensi ma può solo raccogliere i dati offerti dalla sensibilità e collegarli tra di loro mediante giudizi, appunto, e concetti. Kant opera una separazione della funzione formale del giudizio dal suo contenuto, e individua tante categorie quante sono le forme logiche del giudizio stesso, in quanto appunto funzioni del giudicare. Riprendendo dalla logica formale la tavola dei giudizi di derivazione aristotelica e scolastica Kant individua quattro gruppi di giudizi: di quantità, di qualità, di relazione, di modalità. Ognuno di essi si articola in tre tipologie, per un totale di dodici forme di giudizio, a ognuna delle quali corrisponde una funzione cateogoriale come segue:
QUANTITA’ - unità, pluralità, totalità:
QUALITA’ - realtà, negazione, limitazione;
RELAZIONE - sostanza-accidente, causa-effetto, relazione reciproca:
MODALITA’ - possibilità, esistenza, necessità.
Come si vede. nella tavola dei giudizi Kant “riabilita” i concetti di causa e di sostanza, già condannati da Hume, qui inseriti come condizioni soggettive e dunque svuotati del carattere ontologico delle cose in sé. 

44.2 - Come fanno delle funzioni logiche soggettive ad avere una validità oggettiva cioè universale? Il problema della deduzione trascendentale non va inteso in un senso scientifico (quid facti) ma giuridico (quid juris), in quanto non si parla qui della deduzione come processo conoscitivo dall’universale al particolare, ma della pretesa legittima delle categorie, funzioni soggettive, di avere una validità oggettiva. Il fondamento di questa pretesa viene cercato da Kant nella soggettività stessa. Infatti ciò che Kant chiama oggettivo è il frutto  di una sintesi delle rappresentazioni sensibili, non potendo l’intelletto intuire in modo diretto come fanno i sensi. Perché sia valida, questa attività di unificazione dei dati sensibili, deve riferirsi a una AUTOCOSCIENZA, che Kant chiama IO PENSO o APPERCEZIONE TRASCENDENTALE, e che ha il compito non solo di supervisionare l’accordo dei giudizi alle varie categorie corrispondenti, ma deve anche garantire la legittimità dell’applicazione di queste ultime in maniera universale, cioè devono essere valide per tutti i soggetti conoscenti. L’io penso kantiano non va confuso con la res cogitans cartesiana: esso è il polo fondamentale di tutte le sintesi ma esso stesso è limitato, non può conoscere sé stesso e, come le categorie, non potrebbe funzionare se privato dei dati percettivi. La sua funzione quindi è quella, fondamentale per la conoscenza, di mettere d’accordo due elementi tra loro eterogenei, i concetti e le intuizioni: compito dell’io penso è dunque quello di essere la massima unità sintetica, oltre a legittimare la funzione logica delle categorie.

44.3 - Come possono le categorie, condizioni formali e soggettive, applicarsi oggettivamente ai giudizi e ai fenomeni? occore un elemento intermedio, che contenga sia il carattere formale della categoria sia il carattere materiale dell’intuizione sensibile. Lo scopo dell’intelletto è quello di unificare i concetti e i dati della rappresentazione sensibile: Kant individua una rappresentazione intermedia tra questi due elementi della conoscenza, che definisce SCHEMA TRASCENDENTALE, a sua volta generato dall’IMMAGINAZIONE PURA o PRODUTTIVA, a metà strada quindi tra intuizione e intelletto. Come funziona lo schema? Lo schema non è un’immagine: esso non si limita a riprodurre un oggetto ma ne costituisce il METODO DI RAPPRESENTAZIONE, ossia la  sua  propria REGOLA. Se io devo disegnare un triangolo seguo un certo tipo di regola - che deve avere tre lati, che due dei tre lati sono obliqui e uno è dritto - che deve esistere SOLO nel pensiero e che quindi non è l’immagine, ossia la figura, che viene riprodotta, e che ha natura empirica: se io cancello il disegno non sto cancellando la regola che mi ha portato a realizzarlo. Lo schema trascendentale è però qualcosa di più rispetto al concetto di schema: si tratta dell’adattamento preliminare dell’intuizione pura di tempo, forma del senso interno, alla categoria. Prendiamo come esempio la categoria della relazione. Avremo le seguenti corrispondenze:
schema della sostanza = permanenza nel tempo
schema della causalità = successione del molteplice
schema dell’azione reciproca = simultaneità
Questi tre schemi, permanenza, successione e simultaneità, sono determinazioni a priori che consentono alle rispettive categorie - la cui natura è formale - di essere usate nell’intuizione: senza la funzione intermedia dello schema le categorie (in quanto soggettive) non potrebbero dunque essere universalmente applicate all’esperienza sensibile.

44.4 - Gli schemi svolgono dunque una funzione mediatrice tra le categorie e l’esperienza, stabilendo le regole di base perché sussista questo accordo, e le regole sono costituite dai PRINCIPI DELL’INTELLETTO. In quanto regole generali dell’uso oggettivo delle categorie i principi dell’intelletto sono quattro, così come quattro sono i gruppi delle categorie:
ASSIOMI DELL’INTUIZIONE - tutte le intuizioni sono quantità estensive;
ANTICIPAZIONI DELLA PERCEZIONE - in tutti i fenomeni la materia della sensazione viene percepita secondo una quantità intensiva, ossia un grado;
ANALOGIE DELL’ESPERIENZA - l’esperienza è possibile solo mediante una connessione necessaria tra le percezioni;
POSTULATI DEL PENSIERO EMPIRICO IN GENERALE -  distinguono tra ciò che è possibile, reale e necessario.
 Tra questi quattro principi Kant mette in evidenza le analogie dell’esperienza, in quanto mostrano la connessione tra i fenomeni in base a leggi necessarie, mentre i primi due mostrano solo la possibilità matematica dei fenomeni presi separatamente. L’intelletto opera dunque un’attività legislatrice sulla natura.
Kant distingue due aspetti nella natura, MATERIALE  e uno FORMALE. La natura MATERIALITER SPECTATA rappresenta l’insieme di tutti i fenomeni, la natura FORMALITER SPECTATA rappresenta l’adeguamento degli oggetti dell’esperienza a leggi universali e necessarie. In questo modo Kant dichiara che l’unità e la connessione tra fenomeni non deriva dunque da un mondo di cose in sé ma è un prodotto dell’attività trascendentale dell’intelletto. Kant non considera la natura come la totalità dei fenomeni: al termine dell’Analitica infatti indica - in una accezione sostanzialmente negativa -  la presenza delle cose in sé, ossia i NOUMENI, enti intelligibili, che possono essere pensati ma assolutamente privi di realtà oggettiva e quindi inutili alla conoscenza, poiché cadono oltre l’esperienza sensibile.

KANT - LEZIONE 45
La dialettica della ragione

45.1 - La realtà conoscibile ai sensi è paragonata pittorescamente da Kant a un’isola circondata da un oceano tempestoso, quello della PARVENZA, ossia gli elementi inconoscibili; di qui l’illusione della ragione di conoscere ciò che cade oltre i sensi. Si tratta di una disposizione naturale della ragione umana che non può essere impedita: è la DIALETTICA DELLA RAGIONE, ossia la tendenza a formulare ragionamenti, non veritieri o contraddittori, su cose che i sensi non possono supportare. A questa Kant oppone una critica, che costituisce la seconda parte della Logica Trascendentale, e che si chiama appunto Dialettica Trascendentale, in cui mostra le pretese scientifiche della metafisica, cercando di dissolverne i principi, anche se ben consapevole di non poter impedire alla ragione questa tendenza ad essa connaturata. La ragione è a tutti gli effetti una delle tre facoltà conoscitive, insieme alla sensibilità e all’intelletto. La ragione si considera superiore all’intelletto, tanto da ricomprenderlo, ma la sua caratteristica è quella di non limitarsi al compito di unificare gli elementi condizionati alla sensibilità, quanto di estendere il proprio dominio all’incondizionato, ossia a ciò che cade oltre l’esperienza dei sensi. Cpsì come l’intelletto anche la ragione esercita un’attività spontanea, ma al posto dei concetti si avvale delle IDEE, al posto dei giudizi si avvale SILLOGISMI. Mentre il compito dell’intelletto è quello di mettere insieme le rappresentazioni e i fenomeni in concetti, poi unificati attraverso il giudizio, il compito della ragione è definito come quello di unificare i giudizi in sillogismi, estendendo la validità del sillogismo anche in un senso ascendente, a ritroso, procedendo dalle conclusioni alle premesse, e da un sillogismo a un altro. La ricerca è vana: la ragione infatti non si ferma alle sole condizioni sensibili degli eventi ma le oltrepassa, sconfinando nell’incondizionato, ossia le idee. Kant presenta dunque le tre idee fondamentali, corrispondenti ai tre tipi di sillogismo - categorico, ipotetico e disgiuntivo - che rappresentano la totalità dei fenomeni esterni e interni e degli oggetti del pensiero, a cui vanamente la ragione cerca di arrivare: l’idea di ANIMA, l’idea di MONDO e l’idea di DIO, alla base delle tre discipline metafisiche della PSICOLOGIA RAZIONALE, della COSMOLOGIA RAZIONALE  e della TEOLOGIA RAZIONALE. Le idee kantiane non sono affini a quelle cartesiane e lockiane, ossia come rappresentazioni generali di concetti, bensì sono intese più in senso platonico come delle immagini: ma rispetto a Platone, che le considerava il fondamento ontologico della realtà sensibile che ne è partecipe, Kant le distacca dalla sensibilità come enti pensabili o intelligibili di valore trascendentale, prodotto della ragione così come le categorie sono prodotte dall’intelletto e spazio e tempo della sensibilità. 

45.2 - La psicologia razionale era una disciplina metafisica che pretendeva di dimostrare l’esistenza, l’unicità e l’immortalità dell’anima, che era suo oggetto di indagine, a partire da un ragionamento astratto, di derivazione platonica. Kant mette in evidenza che la dottrina speculativa dell’anima poggia su sillogismi formalmente scorretti. Un sillogismo è costituito come si sa da due premesse aggregate da un termine medio: se però il termine medio assume un valore contraddittorio nelle due premesse, si ha un PARALOGISMO  e la conclusione sillogistica è solo apparente. Il paralogismo fondamentale della psicologia razionale è quello che identifica il soggetto pensante con l’anima, e da qui si intende l’anima come semplice, unica e immortale. L’errore di fondo della psicologia razionale è quello di scambiare l’io penso per una sostanza, a causa della duplice definizione di soggetto, come sostanza reale e come unità trascendentale. Attribuire sostanzialità all’io penso è un errore, avverte Kant, perché si tratta della fondamentale funzione unificatrice dell’intelletto e non va confusa col soggetto stesso, e parimenti i pensieri non devono essere scambiati per gli accidenti della sostanza-io penso.

45.3 - La seconda disciplina criticata da Kant è la cosmologia razionale, che pretende di conoscere il mondo come totalità delle cose nello spazio e nel tempo. L’idea di mondo si sviluppa in quattro questioni, corrispondenti a quattro coppie di proposizioni opposte tra loro dette ANTINOMIE. Si tratta di proposizioni alternative che si escludono a vicenda, secondo la formulazione del sillogismo di tipo ipotetico, caratteristico della filosofia Stoica (per esempio: o è giorno o è notte). Esse sono:
Prima antinomia: il mondo è finito e infinito nello spazio e nel tempo;
Seconda antinomia: il mondo consiste di elementi semplici ovvero è divisibile all’infinito;
Terza antinomia: nel mondo esiste una causalità libera oppure tutto è determinato da cause universali e necessarie;
Quarta antinomia: tutto il mondo dipende da un essere necessario oppure in esso è tutto contingente.
Si tratta come si vede di proposizioni ugualmente dimostrabili, che Kant cerca di smontare ragionando per assurdo, ossia partendo da quella più estrema: ma proprio l’eguale dimostrabilità delle otto ipotesi, violando il principio logico di non contraddizione, comporta quello che Kant chiama SCANDALO DELLA RAGIONE. Questo scandalo è in realtà solo apparente, poiché muove da un malinteso: la mancata distinzione tra fenomeni e noumeni, ossia la pretesa di conoscere anche le cose in sé stesse. Con la dottrina dell’IDEALISMO TRASCENDENTALE Kant cerca una soluzione al problema delle antinomie, affermando che tutto ciò che è intuibile nello spazio e nel tempo in quanto forme a priori della sensibilità costituisce un fenomeno.
Le prime due antinomie sono dette MATEMATICHE poiché riguardano la grandezza dell’universo. Le due proposizioni che le costituiscono, tesi e antitesi, sono entrambe false in quanto partono da un errore, la pretesa di comprendere il mondo in termini spazio-temporali come cosa in sé. In realtà ciò che noi definiamo mondo è la sola realtà che i nostri sensi ci fanno intuire, escludendo quindi dalla conoscenza sensibile tutto ciò che non è fenomeno, ossia che non appare ai miei sensi. Possiamo certamente osservare coi sensi il modo in cui una cosa si trasforma, ma non possiamo né sapere cosa questa cosa sia stata né prevedere cosa essa diventerà. 
Le altre due antinomie sono chiamate DINAMICHE; qui le due proposizioni possono essere entrambe vere se riferite a due ordini diversi di mondo: le antitesi a quello fenomenico, le tesi a quello noumenico.

45.4 - La quarta antinomia costituisce il passaggio alla teologia razionale, il cui oggetto è l’idea di Dio. Si tratta del coronamento di tutta la conoscenza umana oltre che della Dialettica Trascendentale. Alla base di questa idea Kant ravvisa l’ideale della ragion pura, intendendo ideale come idea di una cosa singola, ossia un modello di perfezione. Come ideale trascendentale Dio ha una legittimazione in quanto essere necessario e perfetto, assoluto, totalità di tutti i predicati possibili, unità di tutte le unità. L’errore della teologia razionale è quello di pretendere che Dio sia un soggetto realmente esistente, e di qui appunto l’idea di Dio. Per dimostrare l’esistenza di Dio Kant utilizza tre prove: una ontologica, una cosmologica e una fisico-teologica.
PROVA ONTOLOGICA -  Dio esiste in quanto perfetto. L’esistenza, infatti, è considerata da questa prova - già usata da Anselmo d’Aosta e da Cartesio - uno dei predicati della perfezione di Dio. Kant ribatte che però l’esistenza non può essere considerata come il predicato di un oggetto. L’essere non rientra infatti tra le determinazioni di una cosa ma serve solo a indicare la sua posizione. Pertanto l’esistenza non si può applicare neanche a un concetto perfettissimo quale è appunto Dio. 
PROVA COSMOLOGICA - Dio esiste perché le cose del mondo sono finite e contingenti, e quindi è necessaria una causa delle cause. Questa prova si riferisce chiaramente alla terza delle cinque vie usate da Tommaso d’Aquino e contiene un evidente errore: l’estensione della categoria di causalità oltre l’ambito fenomenico. Inoltre, anche ammesso che si giunga a definire un concetto di Dio come causa prima, sarebbe poi necessario spostarsi sul piano ontologico che prima è stato appunto confutato.
PROVA FISICO-TEOLOGICA - Dio esiste come artefice e garante dell’ordine e dell’armonia dell’universo. Si tratta della prova preferita da Kant, in quanto la più idonea a motivare l’esistenza di Dio. Tuttavia essa non spiega l’esistenza di un principio ma di un architetto o di un geometra, che dispone le cose e i fenomeni secondo un ordine preciso, rimandando di nuovo alla prova ontologica, precedentemente confutata.

45.5 - Kant ammette un uso REGOLATIVO e non COSTITUTIVO delle idee della ragione pura. Esse non servono difatti a determinare una conoscenza ma a delimitarla. Nonostante esse siano fuorvianti Kant attribuisce loro una funzione imprenscindibile per la conoscenza scientifica, poichè indicano quel limite dell’esperienza oltre il quale il soggetto cerca di spingersi, guidando l’intelletto verso una conoscenza sempre maggiore e all’ampliamento della visione unitaria delle cose. Pertanto le idee rivestono un ruolo fondamentale nella scienza, mostrando la ricerca della possibilità di cogliere la totalità dei fenomeni interni (anima), di quelli esterni (mondo), oltre alla totalità di tutti i pensieri e le cause possibili (Dio).

KANT - LEZIONE 46
La fondazione critica della morale

46.1 - Kant perviene a una formulazione della morale in due opere, LA FONDAZIONE DELLA METAFISICA DEI COSTUMI  e la CRITICA DELLA RAGION PRATICA. Come già nel caso dei Prolegomeni e della Critica della Ragion Pura la differenza tra queste due opere è in sostanza metodologico, di natura analitica la Fondazione, di natura sintetica la Critica. Le due opere sono accomunate dall’impostazione critica, che muova nella prima dalla coscienza e dai giudizi morali, allo scopo di mostrarne gli elementi costitutivi e definirne le condizioni a priori, mentre la seconda segue il processo inverso e parte proprio da queste condizioni. Occorre sottolineare che la moralità kantiana è un’attività pratica che ha un valore universale e necessario, che esula da qualsiasi elemento empirico. La fondazione della morale kantiana si caratterizza per formalità, universalità, autonomia e sopratutto razionalità: le azioni morali sono infatti volontarie e dettate dalla ragione, unica legislatrice. La ragione trova infatti il suo campo  di applicazione proprio sul pratico e morale, in cui la legge morale universale seguita dagli uomini appartiene all’incondizionato e non viene legittimata dalle azioni degli stessi uomini, a differenza del campo conoscitivo in cui la realtà del fenomeno dipendeva dal  soggetto e non poteva quindi avere ragione di esistere in sé. Si deve osservare prima di tutto che il concetto di moralità di Kant si oppone a quelli di santità, di legalità e di ricerca della felicità. L’adeguamento alla legge morale non deve infatti contenere uno scopo, un fine ultimo: non possiamo definire morale un adeguamento spontaneo alla moralità senza un conflitto tra la ragione e la volontà sensibile, e neanche un comportamento che contrasta con la propria indole, e che viene forzato perché non si deve violare la legge; sopratutto non si deve definire morale un comportamento basato sull’amore per sé stessi, relativo cioè alla propria felicità, poiché ridurrebbe la morale a una dimensione “fisica” e variabile da individuo a individuo. La legge morale deve avere carattere UNIVERSALE  e NECESSARIO e deve essere pertanto costituita A PRIORI.

46.2 - L’indagine kantiana della morale parte dalla FONDAZIONE DELLA METAFISICA DEI COSTUMI, in cui Kant procede dalla tenedenza degli uomini ad assegnare giudizi di natura morale: certi comportamenti sono buoni, altri non lo sono. Ora, dice Kant, non esiste un concetto di buono in sé stesso, ma solo in riferimento agli scopi della volontà buona. Kant chiama  volontà buona l’agire per dovere, che deve essere animato da una intenzione: non basta infatti semplicemente comportarsi bene, in conformità  alla legge, questa sarebbe legalità ma non moralità, poiché lo scopo è quello di non trasgredire e quindi di non finire, per esempio, in prigione. Un uomo potrebbe agire anche perché costretto o per secondi fini: la volontà buona esige invece il dovere per il dovere. Un’azione morale è infatti disinteressata. Essa prescinde da qualsiasi scopo, ed esclude assolutamente la ricerca della felicità. Questo aspetto della morale kantiana - cioè il dovere per il dovere - si chiama RIGORISMO. A questo si accompagna un altro aspetto che si chiama FORMALISMO. La legge morale infatti non prescrive il contenuto di una certa azione - ossia il cosa dobbiamo fare - ma solo la sua forma, ossia il come dobbiamo agire. Questi aspetti allontanano quindi la morale kantiana da altre dottrine che basano iil principio della legge morale sul piacere (edonismo), sull’utile (utilitarismo) o sulla felicità (eudemonismo), ma anche sull’altruismo, sulla benevolenza. o addirittura sulla concezione che la moralità sia innata nell’essere umano, tutte dottrine che fanno del principio della legge morale un elemento empirico e di soggettivo, ovvero contingente e variabile da soggetto a soggetto. La legge morale trova infatti il suo oggetto nella ragione e deve essere UNIVERSALE e  e NECESSARIA.

46.3 - All’inizio della CRITICA DELLA RAGION PRATICA Kant divide i principi pratici in MASSIME e LEGGI, le prime di natura soggettiva, valide cioè solo per il singolo individuo, le seconde di natura oggettiva, valide cioè per tutti i soggetti pensanti. Poiché l’uomo è un essere razionale finito, e le sue azioni sono spesso deviate da esigenze esterne, è necessario che le leggi abbiano il carattere di IMPERATIVI, che consistono cioè di obbligazioni per la nostra volontà, espresse col verbo dovere. Gli imperativi si distinguono in imperativi IPOTETICI, che contengono un fine ultimo da raggiungere (esempio: se vuoi essere promosso allora devi studiare), e CATEGORICI, che non hanno uno scopo ma un obbligo preciso (esempio: devi studiare!).
Gli imperativi ipotetici sono caratterizzati da uno scopo ultimo, che influenza l’azione e quindi sono condizionati da una volontà. Kant li divide ulteriormente in REGOLE DELL’ABILITA’  e  CONSIGLI DELLA PRUDENZA: le prime sono più che altro delle norme tecniche, i secondi rappresentano i mezzi necessari per raggiungere uno scopo, e quindi il proprio benessere. 
Ovviamente nessuno dei due può essere considerato un principio morale, essendo appunto condizionati a un fine. Solo l’imperativo categorico vale come principio, poiché incondizionato. Esso coincide col concetto di buono in sé: non dipende infatti da un fine e non riguarda un contenuto, ma adegua la massima delle nostre azioni alla legge morale. Nonostante sia un obbligo morale il dovere dell’imperativo categorico non è da intendersi come una necessità, nel senso che non è detto che “deve accadere” e che “non può non accadere”, esso infatti può essere anche contraddetto, lasciando alla libertà del soggetto il compito di scegliere come agire. In questo senso la necessità della legge morale viene vista da Kant come un DOVER ESSERE   e non come un essere, una legge di natura, per cui le cose accadono perché devono accadere, come nel meccanismo razionalistico cartesiano.

46.4 - Nella Fondazione della Metafisica dei Costumi Kant distingue tre formule dell’imperativo categorico, strettamente collegate tra di loro,.
Tutti e tre dipendono dalla formula principale, AGISCI SEMPRE SECONDO QUELLA MASSIMA CHE AL TEMPO STESSO VUOI CHE DIVENTI UNA LEGGE UNIVERSALE. Il significato è chiaro: le azioni del soggetto devono rispecchiare il valore di questa massima e quindi essere valide per qualsiasi soggetto razionale, in modo universale. Perché sia considerata morale un’azione non deve contrastare con questa massima. Ma come si fa a sapere se un soggetto vuole davvero questo? Se io faccio una promessa già con l’intenzione di non mantenerla non vorrei che questo mio comportamento venisse elevato al rango di legge universale, poiché a questo punto cadrebbe lo stesso significato di promessa. Ugualmente possiamo applicare questo sistema ad altre situazioni, per esempio la facoltà di suicidarsi quando si hanno problemi, lasciare la mente incolta, oppure disinteressarsi dei problemi degli altri. Come si vede la riflessione etica di Kant non si discosta da ciò che la coscienza già prescrive: di fatto egli non intende certo riformulare una nuova legge morale quanto fondare i principi che la regolano. Per Kant la legge morale è un fatto della ragione ma sta alla base di tutti quei giudizi che la coscienza esprime.
Nella seconda formula dell’imperativo categorico Kant mette in evidenza i fini che una volontà pura deve perseguire. La formula recita AGISCI SEMPRE IN MODO DA TRATTARE L’UMANITA’ COME UN FINE E NON COME MEZZO. Un imperativo categorico non può avere certamente fini di natura empirica, altrimenti sarebbe ipotetico; deve avere solo dei fini in sé, che abbiano un valore assoluto e incondizionato, e l’unico fine in sé è l’uomo. La seconda formula si rivolge direttamente all’uomo in quanto fine della volontà pura. mai mezzo per il raggiungimento di fini empirici.
Da qui deriva la terza formula dell’imperativo categorico. Se l’uomo in quanto fine è destinatario della legge morale questa legge non può trovarsi fuori di lui come qualcosa di esterno che viene imposto all’uomo come obbligo, ma deve essere l’uomo stesso l’autore di questa legge. La terza formula quindi recita: AGISCI SEMPRE IN MODO CHE LA MASSIMA DELLA TUA VOLONTA’ POSSA COSTITUIRE UN PRINCIPIO DI LEGISLAZIONE UNIVERSALE. Il mondo morale è dunque per Kant un regno dei fini, come ideale regolativo a cui deve conformarsi l’agire umano, individuale e collettivo.

KANT - LEZIONE 47
La libertà morale e i postulati della ragion pratica

47.1 - Il concetto di autonomia della volontà è il culmine della ragion pratica. Quando Kant parla di autonomia della volontà si riferisce alla possibilità di darsi da sé la norma del proprio agire. Kant oppone al concetto di autonomia quello di eteronomia, ossia derivato da altro. Una volontà è autonoma quando trae il proprio principio dalla norma che la stessa ragione si dà, mentre è definita eteronoma quando deriva questo principio da fini empirici o da inclinazioni personali. Questo aspetto richiama il problema della libertà, già considerato nella terza antinomia della cosmologia razionale, nella Dialettica Trascendentale: il mondo è soggetto a una causalità libera oppure a leggi necessarie e inderogabili? Ora, se si rifiuta la tesi dell’antinomia viene meno il principio di autonomia della volontà. Kant stesso sottolinea come una coesistenza tra libertà e necessità è possibile, riferendo la prima al mondo noumenico, e la seconda a quello fenomenico, unico oggetto possibile della conoscenza scientifica. Nelle opere dedicate alla morale Kant sostiene che la moralità postula necessariamente la libertà come sua condizione obbligatoria in quanto se la volontà non fosse libera la legge morale non sarebbe reale. Ma questo concetto di libertà è sopratutto un fatto della ragione: la libertà non è un dato empirico, e non può essere dimostrata. Kant definisce la libertà la RATIO ESSENDI della legge morale, ossia la sua condizione, e la legge morale la RATIO COGNOSCENDI della libertà, ossia il suo fondamento.
L’uomo, dice Kant, è libero in quanto segue la legge morale. Ogni individuo ha la possibilità di adeguare la volontà alla legge morale in modo autonomo o eteronohomo, conformandosi cioè alla legge morale oppure seguendo le proprie inclinazioni. Ma la libertà umana non si ferma qui: la volontà infatti ha la possibilità di essere stessa una legge. Questa autonomia, che si concilia con il dovere per il dovere, mostra l’uomo in bilico tra due mondi, quello empirico, fenomenico ed esteriore, alle cui leggi è inevitabilmente soggetto, e quello interiore e intelligibile.

47.2 - Per sanare l’inevitabile conflitto tra i due mondi Kant ritiene necessarie delle asserzioni, ossia dei POSTULATI DELLA RAGION PRATICA, a cui è  affidato un utilizzo pratico e non teoretico, così chiamati poiché non devono essere dimostrati, ma servono solo a soddisfare le esigenze della legge morale. Il primo postulato è quello già visto della LIBERTA’ o causalità libera, da cui Kant fa conseguire altri due postulati, l’IMMORTALITà DELL’ANIMA  e l’ESISTENZA DI DIO.Poichè l’uomo vive una vita limitata empiricamente, non sarebbe possibile un perfetto adeguamento della volontà alla legge morale, che deve essere totale, se la vita morale finisse con la morte del corpo. Appare necessario quindi che la vita morale continui  anche dopo la morte, affinché si compia la felicità, che non deve essere il movente delle azioni conformi alla legge morale ma il compimento naturale delle azioni dell’uomo virtuoso. La prosecuzione della vita morale è un cammino verso la santità, verso il sommo bene: perché questo si realizzi è  necessario postulare anche l’esistenza di un Essere Supremo, cioè Dio, che distribuisca in maniera equa i premi e i castighi, facendo da unificatore tra volontà e moralità. La sua esistenza resta sconosciuta alla ragione teoretica, ma deve essere postulata, non in maniera oggettiva, dalla ragione pratica. Questi tre postulati sono oggetto di quella che Kant chiama una FEDE RAZIONALE, fede proprio perché non sono elementi fondati teoreticamente e razionale proprio perché la volontà deriva dalla ragione. Gli elementi che erano stati esclusi dalla gnoseologia pura sono riabilitati dalla ragione pratica e usati per soddisfare le esigenze della moralità. Questo aspetto conduce Kant a parlare di PRIMATO DELLA RAGION PRATICA, ossia il prevalere dell’interesse pratico su quello teoretico.

47.3 - La trattazione del problema morale sconfina nella tematica religiosa. Nell’opera LA RELIGIONE NEI LIMITI DELLA RAGIONE Kant fonda la religione sulla morale, spiegando che non potrebbe essere il contrario, in quanto se così fosse la morale sarebbe qualcosa di coercitivo e di imposto dall’esterno, e priva dell’autonomia della volontà del soggetto. La legge morale coincide qui con la legge divina, che non è data in modo arbitrario: la volontà divina non fa altro che adeguarsi alla legge morale, indicando all’uomo quei precetti pratici che sono già stati prescritti dalla legge stessa. Kant distingue una RELIGIONE RIVELATA dalla RELIGIONE NATURALE: la differenza consiste che nella religione rivelata il dovere viene conosciuto dagli uomini attraverso un comandamento divino, mentre nella religione naturale la conoscenza del dovere prescinde dall’ordine divino. La seconda forma di religione è la più pura e costituisce il fondamento di tutte le manifestazioni della vita religiosa. 
Da qui Kant esamina due dogmi, ill PECCATO ORIGINALE e la ffigura del Cristo come mezzo di REDENZIONE. La libertà della volontà umana porta inevitabilmente l’uomo a peccare, ossia a seguire le proprie inclinazioni sensibili; si tratta di una caratteristica connaturata alla volontà umana che porta Kant a parlare di un MALE RADICALE. Ma nonostante la corruttibilità del male, è presente nella nostra natura un principio opposto a quello del male radicale rivolto a un’idea di perfezione morale, incarnata dalla figura del Cristo. 
La religiosità kantiana è dunque una religiosità etica, che porta il filosofo a concepire una sorta di chiesa invisibile, costituita dalla comunità degli uomini di buona volontà e guidata da Dio quale signore morale del mondo. 
Kant distingue la religione naturale, basata sulla semplice fede, da quella STORICA  e  STATUTARIA, fatta cioè di riti, dogmi e precetti, e la suddetta chiesa invisibile dalla chiesa VISIBILE, che tende a rappresentare in modo sensibile il regno morale di Dio. La chiesa visibile è in realtà solo un veicolo per raggiungere quella invisibile, ma la presenza di riti e precetti allontana l’uomo dal vero significato della religiosità naturale. Tuttavia la centralità dei valori morali avvicina le due forme. 

KANT - LEZIONE 48
La facoltà riflettente di giudizio ed il problema estetico

48.1 - La CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO rappresenta il momento conclusivo del percorso critico kantiano. Oggetto di questa critica non è il giudizio in quanto proposizione unificatrice di un soggetto e di un predicato ma la facoltà che presiede all’elaborazione del giudizio stesso. Questa facoltà viene presentata da Kant come la capacità di pensare il particolare contenuto nell’universale. Questa relazione può assumere due caratteristiche diverse, il GIUDIZIO DETERMINANTE, in cui l’universale è già conosciuto tramite i concetti puri dell’intelletto, ed il GIUDIZIO RIFLETTENTE, in cui l’universale non è noto e deve essere pensato, quindi si deve operare una riflessione. La facoltà riflettente di giudizio possiede dunque una funzione EURISTICA, cioè di scoperta. Alla base di questa funzione Kant colloca il SENTIMENTO DI PIACERE E DI DISPIACERE, che distingue sia dalla facoltà di conoscenza, relativa all’ambito teoretico, sia dalla facoltà di desiderare, relativa all’ambito pratico: questo sentimento non ha dunque alcuna rilevanza conoscitiva o morale ma Kant lo ritiene utile perché offre un altro modo di guardare la realtà, sia nei suoi aspetti belli o sublimi, relativi alla natura o alle opere d’arte, sia a quegli aspetti che concorrono a una precisa finalità o uno scopo ultimo. La vera novità della facoltà riflettente di giudizio è proprio l’aspetto finalistico, che si può intendere in modo SOGGETTIVO, quando si parla di qualcosa destinato a suscitare nel soggetto un sentimento di attrazione o di repulsione,  oppure in modo OGGETTIVO, se la struttura di un organismo naturale possiede un fine intrinseco alla natura stessa. Nel primo caso si fa riferimento al gusto e la facoltà verrà detta ESTETICA, nel secondo caso si fa riferimento all’organizzazione finalistica della natura e chiameremo quindi questa facoltà TELEOLOGICA.

48.2 - Le due Critiche kantiane ci hanno mostrato un uomo che è al tempo stesso natura e libertà. Da una parte egli vive in un mondo fenomenico, regolato da un rigoroso meccanismo naturale, in cui fa fede la legislazione categoriale dell’intelletto; dall’altro tende a un mondo morale, dominato dalla ragione, in cui ha la possibilità di operare una scelta. Ma lo sforzo di adeguamento dell’uomo alla legge morale universale non avviene nel mondo noumenico ma in quello fenomenico, in cui ad ogni azione dell’uomo corrisponde una precisa determinazione. La funzione della facoltà riflettente di giudizio è proprio quella di fare da ponte, ossia di fare da intermediario tra intelletto e ragione. Si deve notare come l’indagine kantiana è ancora una volta trascendentale, ossia parte proprio dal soggetto che “accoglie” gli aspetti su cui la facoltà di giudizio riflettere, la natura, la libertà, l’arte. Proprio per questo motivo alla facoltà riflettente di giudizio spetta innanzitutto il compito di chiarire che il mondo naturale non obbedisce solo a un rigoroso determinismo meccanicistico, fatto di leggi inderogabili e inviolabili. Il soggetto, mosso dal sentimento, tende a pensare la natura come un insieme di aspetti ordinati da una intelligenza superiore che fanno riferimento ad un disegno unitario. Ogni cosa che accade ha un fine ultimo. Non si tratta, dice Kant, di una proprietà intrinseca alla natura ma di una rappresentazione del soggetto stesso: infatti sia la conformità soggettiva sia quella oggettiva degli scopi fanno parte della trascendentalità soggettiva.
Prendiamo ad esempio un fiore che appare al soggetto. Esso potrà essere visto in diversi modi: in modo soggettivo un uomo potrebbe pensare che sia sbocciato con lo scopo di suscitare piacere oppure perché semplicemente è stato coltivato con lo scopo di abbellire; dal punto di vista oggettivo un uomo può pensare che ha un fine biologico ben preciso (generare un frutto). In entrambi i casi si tratta di una fatto soggettivo, di carattere REGOLATIVO e non COSTITUTIVO poiché non ha a che fare con la conoscenza effettiva del fenomeno, che rimane sottoposta alle leggi dell’intelletto.

48.3 - L’analisi della facoltà estetica di giudizio chiarisce il procedimento che attribuisce, secondo i giudizi del gusto, il carattere di “bello” a un dato oggetto della natura o dell’arte. Si tratta in pratica di determinare la possibilità del giudizio estetico, diverso dal giudizio logico. La bellezza non è una proprietà dell’oggetto e nemmeno una qualità che si può trarre da esso, ma nasce dal prodotto della rappresentazione di un certo oggetto nel soggetto, secondo il sentimento di piacere o di dispiacere: è bello semplicemente ciò che piace, secondo un giudizio di gusto. Kant distingue quattro punti di vista del giudizio estetico, corrispondenti ai quattro tipi di giudizio della logica formale, poiché anche il giudizio di gusto ha una caratteristica soggettiva:
1 - dal punto di vista QUALITATIVO bello è il piacere disinteressato, ossia il bello che non ha un effetto sensibile (piacevole) o morale (buono); 
2 - dal punto di vista QUANTITATIVO bello è il piacere universale, ossia ciò che piace a tutti, però senza concetto: si tratta della di una universalità soggettiva, cioè il giudizio estetico, riferito a una rappresentazione singola, è condiviso da più soggetti;
3 - dal punto di vista della RELAZIONE bello è ciò di cui si coglie l’armonia delle forme in un ordine universale, pur senza apparire una finalità intrinseca;
4 - dal punto di vista della MODALITA’ bello è ciò che piace necessariamente, ossia l’oggetto sulla cui bellezza necessariamente si concorda. 
Come si vede il concetto di bello ha per Kant valore universale e necessario, seppur soggettivo, tanto da parlare di un SENSO COMUNE per riferirsi a il meccanismo che induce lo stesso stato d’animo in più soggetti e che può essere comunicato e condiviso, anche se non nella forma di un concetto conoscitivo. Ed è al senso comune che si collega quello che kantianamente viene definito il libero gioco tra le facoltà conoscitive: nel caso del giudizio di gusto abbiamo per esempio un accordo tra immaginazione e intelletto, e non già una subordinazione come avverrebbe invece nella sintesi conoscitiva, poiché assente una determinazione concettuale: questo accordo armonico, proprio per l’assenza di determinazioni concettuali, consente una prerogativa creatrice, quella propria del GENIO, ossia la capacità di creare senza regole.

48.4 - Il sublime, a differenza del bello, non ha a che fare con il libero gioco,  cioè prescinde dall’accordo tra immaginazione e intelletto: il sublime ha infatti a che fare con l’informe, che genera una gioia positiva, e l’illimitato, che genera un’emozione in grado di dare piacere o dispiacere. Kant distingue inoltre un sublime MATEMATICO, corrispondente al sentimento di grandezza che si prova davanti a uno spazio sconfinato, come il cielo notturno stellato, e un sublime DINAMICO, corrispondente al sentimento di stupore che si prova osservando un evento in itinere, per esempio le onde del mare in burrasca o l’eruzione dell’Etna. Il sublime non fa riferimento quindi a un oggetto preciso come nel caso del bello, ma a una particolare disposizione d’animo suscitata da una rappresentazione. L’assenza dell’accordo armonico tra immaginazione e intelletto conduce l’immaginazione a rivolgersi alla ragione, sentendosi però sconfitta e inadeguata, in quanto la ragione, con le sue idee, non riesce a supportare questo sentimento. Ma questa sensazione non è solo negativa poiché rivela la straordinarietà del sentimento e il nostro essere limitati nei suoi confronti: sconfitto dalla potenza della natura l’uomo viene “risvegliato” alla grandezza morale, non paragonabile alla sensibilità.

KANT - LEZIONE 49
Il finalismo naturale e la storia

49.1 - Il problema del fine ultimo delle cose resta escluso dalle due Critiche precedenti per tornare nella Critica della facoltà di giudizio, nella cui seconda parte, il discorso sulla natura viene approfondito. Kant sottolinea che gli individui si aspettano che la natura segua un cammino rigoroso e senza salti, che le sue leggi obbediscano a pochi principi, e che esista un ordine a cui tendono tutte le cose naturali. Tali aspetti, pur non venendo dall’esperienza, costituiscono la premessa di ogni nostra indagine empirica. La conformità a scopi - già analizzata nella prima parte della Critica del giudizio - consente di dare quelle risposte che le leggi della fisica meccanicistica non possono dare. Le scienze infatti possono spiegare le leggi che regolano la natura, ma non possono individuare lo scopo di ogni cosa. Quando Kant parla di conformità interna a scopi sostiene che ogni organismo vivente è principio di sé stesso, ossia è causa ed effetto al tempo stesso di tutto ciò che lo riguarda. Per  fare un esempio, un albero è principio di sé stesso, come specie, attraverso la riproduzione, e come individuo, con l’accrescimento; inoltre è costituito da diverse componenti - radici, foglie, rami - che costituiscono una  precisa organizzazione. A differenza di un qualsiasi congegno meccanico, che viene costruito da mani esterne, un organismo vivente si riproduce e si sviluppa in base a una serie di funzioni internamente connesse: l’intero esiste in funzione delle parti e le parti esistono in funzioni dell’intero. Questa doppia relazione esige il passaggio dal NEXUS EFFECTIVUS o nesso degli effetti, che può procedere solo in senso discendente, al NEXUS FINALIS o nesso delle cause finali, che procede sia in senso ascendente che discendente. 
Tale aspetto viene esteso da Kant a tutta la natura, che può essere pensata come un intero organismo fatto di singole parti funzionali, il cui scopo finale è l’uomo, elemento caratterizzante in quanto tutto parte dal soggetto: senza di esso l’intera creazione sarebbe un deserto. 

49.2 -  Il finalismo dunque non intende sostituirsi alla fisica nell’indagine della natura, ma, quale frutto della facoltà riflettente di giudizio, ha solo una funzione regolativa. Kant evita di creare confusioni tra la teleologia e la fisico-teologia, che fa derivare da questi aspetti l’esistenza di una causa suprema, limitandosi semplicemente a parlare di una interconnessione finalistica, intrinseca alla natura stessa. Nella ricerca di una possibile conciliazione tra la dimensione teoretica e quella pratica emerge la figura dell’uomo come scopo ultimo della natura. Egli non è semplicemente lo scopo ultimo, in quanto essere morale, ma è anche scopo finale in quanto libero. L’uomo è l’unico essere vivente veramente libero poiché consapevole della propria libertà: ciò permette che nel mondo fenomenico possa realizzarsi la legge morale. La mediazione tra i due ambiti viene espletata dalla facoltà di giudizio che  unisce l’intelletto e la ragione, e ci autorizza a ricercare la legge morale nella bellezza e a contemplare la natura come un sistema organizzato di scopi governato da uno scopo ultimo incondizionato: la nostra libertà morale.

48.3 - Tutte le azioni umane, seppur contraddittorie, sono spiegabili come funzionali a un disegno finalistico ordinato dalla natura il cui svolgimento è rappresentato dalla storia. Da alcuni scritti minori pubblicati nel decennio 1780-1790 emerge la concezione kantiana della storia. Si tratta di una prospettiva chiaramente illuminista, in cui a storia viene vista come progresso razionale, ossia come il processo di perfezionamento dell’uomo. Kant indica come fine ultimo di questo processo la costituzione repubblicana nei diversi stati e la creazione di una federazione tra gli stessi (Kant espone queste tesi dopo la rivoluzione americana e all’alba di quella francese). Si tratta molto probabilmente di una risposta all’estremismo naturalistico di Rousseau che aveva condannato il processo di incivilimento dell’umanità: secondo Kant la transizione dallo stato di natura alla civiltà è stato un male per l’individuo ma un bene per la specie. Questa transizione è simboleggiata da Kant attraverso il racconto biblico della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, ossia il passaggio da una condizione di libertà a una libertà consapevole ovvero dalla natura alla cultura. Questo passaggio implica una caduta, in quanto la storia della libertà - dice Kant - comincia col male, ma allo stesso tempo si tratta di una condizione positiva in quanto l’uomo prende consapevolezza della sua condizione iniziando un cammino razionale verso il quale è predisposto. Tutti gli uomini contribuiscono con le loro azioni al progresso storico, conducendo un naturale antagonismo sociale che non è distruttivo se attuato nella società civile: Kant vede come fine ultimo del progresso storico la realizzazione di una società di cittadini, liberi ed eguali, guidati da un’unica legislazione, ossia una costituzione perfetta (repubblicana) e la formazione di una federazione di stati. Questi aspetti sono esteriori e non hanno nulla a che fare col progresso morale, che è invece interiore, e hanno un uso regolativo e normativo quale coordinamento a cui gli i singoli e gli stati devono idealmente conformarsi.